“Rocket Man” è riuscito a trasformare una delle nazioni più isolate al mondo in uno dei più importanti attori geopolitici presenti sullo scacchiere globale. La sua strategia sembra avere ben tre obiettivi
Nel 2011, in seguito alla morte di Kim Jong Il, c’era chi pensava che la dinastia dei Kim fosse giunta al capolinea, ormai incapace di trovare un degno erede al quale affidare le redini della Corea del Nord: un Paese abitato da 24 milioni di abitanti, formalmente ancora in guerra con Stati Uniti e Corea del Sud, dotato di armi nucleari e colpito da innumerevoli sanzioni economiche. Dal 2006, infatti, la Repubblica popolare democratica di Corea, questo il suo nome ufficiale, è economicamente isolata dalla comunità internazionale per impedirle di sviluppare sistemi d’arma non convenzionali e la proliferazione nucleare. Un bel grattacapo per Kim Jong-un, il prescelto, diventato Presidente della Corea del Nord pochi giorni dopo i funerali del padre. Dieci anni più tardi, e dopo innumerevoli test missilistici, il giovane Kim è ancora al suo posto. Con l’unico supporto della Cina, principale sponsor dell’isolatissima Corea del Nord, il “Grande Leader” è riuscito a trasformare una delle nazioni più isolate al mondo in uno dei più importanti attori geopolitici presenti sullo scacchiere globale.
L’esistenza stessa di Pyongyang, la capitale del Paese, si regge su un equilibrio sottile, salvaguardato in parte dall’arsenale nucleare interno e in parte dall’ombra di Pechino. Per il Partito comunista cinese è fondamentale che il regno di Kim resti in piedi, se non altro per poter contare su uno “Stato cuscinetto” capace di ammortizzare la pressione americana lungo i confini settentrionali, ed esercitata da Washington mediante gli alleati sudcoreani e giapponesi. La Cina sa però di correre un rischio calcolato, visto che Kim Jong-un risulta molto più intraprendente − e quindi meno controllabile – dei suoi predecessori. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l’elezione alla Casa Bianca di Joe Biden, strenuo sostenitore dei diritti umani e, a differenza di Donald Trump, per niente incline al compromesso con i leader autoritari, ha sospeso definitivamente il bizzarro tentativo statunitense di addomesticare la Corea del Nord. Gli Usa, al momento, continuano a chiedere la denuclearizzazione della penisola coreana, dicendosi pronti a riprendere il dialogo diplomatico con Pyongyang. Ma una condizione del genere sarà sempre e comunque respinta da Kim Jong-un, terrorizzato che la sua Corea possa fare la fine di Libia e Siria
La strategia di Kim Jong-un
Se, dal punto di vista economico e sociale, la Corea del Nord di Kim non ha fatto progressi sostanziali, in chiave geopolitica Pyongyang ha ottenuto diversi punti a suo favore. La strategia del Grande Leader sembra avere tre obiettivi, due concreti e uno ideale. Il primo: evitare a qualunque costo il collasso del Paese. Il secondo: ottenere valuta estera per rafforzare gli armamenti ed effettuare test missilistici a ripetizione. Il terzo: tenere alto il morale dei cittadini spingendo sulla leva del nazionalismo, immaginando una improbabile riunificazione con la Corea del Sud.
Il giovane e moderno Kim – si pensava un paio di anni fa – avrebbe allentato la tensione sospendendo le attività nucleari e concentrandosi su nuove forme di cooperazione e apertura economica. La pandemia di Covid-19 ha tuttavia congelato ogni possibile scenario, vanificato i progressi diplomatici e spinto Kim Jong-un a cambiare registro. Dal 2020 in poi, infatti, il “regno eremita” è tornato ad essere impermeabile. Se possibile ancora più di prima, perché Pyongyang ha subito blindato a doppia mandata i propri confini, tanto in entrata quanto in uscita, per scongiurare l’ingresso nel Paese di Sars-CoV-2. Ancora oggi, le autorità continuano a ripetere che sul territorio nordcoreano non esistono casi di Covid-19, anche se si fatica a credere a questa versione, tanto per le fitte relazioni commerciali ufficiali intrattenute tra Pyongyang e Pechino – sospese solo a causa dell’emergenza sanitaria − quanto per i tanti scambi informali sommersi che hanno sempre caratterizzato i confini sino-coreani.
La Corea del Nord ha attuato provvedimenti anti Covid rigidissimi per un motivo molto semplice: il suo sistema sanitario non è in grado di fare i conti con una simile pandemia. Eppure Pyongyang non ha neppure avviato la campagna vaccinale, rifiutando prima i vaccini cinesi poi quelli concessi dall’Organizzazione mondiale della sanità, e spiegando di voler combattere l’epidemia “a modo suo”. Una perifrasi, forse, per sottolineare che sono sufficienti le politiche attuate dal Partito dei Lavoratori di Corea per stoppare l’allarme coronavirus.
Non bastasse la pandemia a rovinare i piani di Kim, la scorsa estate il Paese ha dovuto fare i conti con fenomeni atmosferici straordinari. Le ingenti piogge torrenziali e gli allagamenti hanno infatti provocato gravi danni all’agricoltura del Paese, contribuendo a generare una presunta carenza alimentare, accresciuta dall’isolamento auto indotto per il Covid.
Perché il rafforzamento dell’arsenale militare?
A corto di idee per placare una eventuale insoddisfazione del popolo, e impossibilitato a dialogare con Biden, Kim ha messo in campo due importanti cambiamenti. In politica estera ha rispolverato il vecchio asso nella manica del rafforzamento dell’arsenale militare, a conferma della volontà nordcoreana di esibire i suoi continui progressi in campo bellico. Il 15 settembre, la Corea del Nord ha testato un missile da crociera definito “strategico”, un termine impiegato per sottolineare la sua compatibilità con testate nucleari. Ma per quale motivo Kim ha ripreso a sparare missili nel bel mezzo di una pandemia globale? Possiamo fare alcune ipotesi. È possibile che il Governo nordcoreano voglia mandare un messaggio agli Stati Uniti sulla ripresa dei negoziati, visto che alcune indiscrezioni non confermate parlano di una Corea del Nord allo stremo per i motivi sopra citati.
Non è da escludere neppure una nuova alleanza nordcoreana con la Cina scaturita in seguito all’avvento di Aukus, il patto di sicurezza stipulato tra Stati Uniti, Australia e Regno Unito per arginare le mire di Pechino nell’Indo-Pacifico; se così fosse, gli ultimi lanci non sarebbero altro che pura spavalderia. Il secondo cambiamento riguarda invece la politica interna della Corea del Nord. Dopo la prima “scomparsa”, Kim Jong-un ha mostrato una leadership diversa. Il Presidente è stato spesso accompagnato agli eventi ufficiali dall’enigmatica sorella Kim Yo-jong, mentre nel vertice del sistema politico nordcoreano sono apparsi nuovi personaggi chiave, proprio come Jo Yong-won, 63 anni, fresco primo segretario del Partito dei Lavoratori di Corea e considerato il numero due del Paese.
L’avvento del Covid, i possibili problemi di salute del Presidente e le continue tensioni mai risolte con Washington, potrebbero aver spinto Kim a serrare i ranghi rilanciando il centralissimo ruolo dello Stato in campo economico (e non solo). Soprattutto per tenere saldo il timone del Paese, ritrovatosi improvvisamente nel bel mezzo di una tempesta internazionale e sanitaria senza precedenti. A questo proposito, è interessante chiedersi quale sarà il futuro della Corea del Nord. Nel caso in cui non dovesse esserci un’implosione interna, appare difficile immaginare sia un regime change imposto dall’esterno (troppo stringente il controllo interno) che la ripresa delle ostilità militari con Seul e Washington (troppo alto il rischio di scatenare la Terza guerra mondiale).
Considerando, poi, che Kim Jong-un non accetterà mai di smantellare il proprio arsenale nucleare, e a meno che tutto non resti in un equilibrio logorante, gli Stati Uniti potrebbero fare una mossa inedita. Poiché Pyongyang ha già ottenuto le armi atomiche che voleva, c’è chi plaude all’idea di accompagnare i nordcoreani nel “club dei Paesi nucleari”. Sembra una follia, ma riconoscere la Corea del Nord come potenza atomica potrebbe garantire a Kim Jong-un il riconoscimento d’immagine che andava cercando da tempo (e che, ricordiamolo, nessuno della sua famiglia ha mai conseguito) e, al tempo stesso, annullare l’ipotesi di pericolose escalation.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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