Commercio, infrastrutture, diritto, migrazioni, social media: nel libro edito da Bocconi University Press, il politologo britannico Mark Leonard spiega perché le connessioni che uniscono il nostro mondo sono le stesse che lo stanno disgregando. Pubblichiamo un estratto del libro
Più cerco di capire la nostra politica, meno mi convince l’idea che si possa riprendere a progredire verso un «unico mondo». Gli internazionalisti rischiano di alienarsi proprio le persone che hanno bisogno di convincere, insinuando che hanno una mentalità chiusa o che sono ignoranti e campanilisti. Ma, cosa ancora più preoccupante, la divisione tra mentalità «aperta» e «chiusa» non riesce a cogliere il grande paradosso che caratterizza i nostri tempi: più le persone e i paesi si uniscono, più vogliono allontanarsi. Il principio organizzativo fondante del mondo odierno non è uno scontro tra globalisti e nazionalisti sui ponti levatoi, ma piuttosto un insieme di «conflitti di connettività» che infuriano tra antagonisti interconnessi. L’atto di collegare le persone tra loro non porta sempre al conflitto, ma può innescare reazioni che lo rendono più probabile, oltre a fornire i mezzi di combattimento.
[…] Abbiamo sviluppato tecnologie che ci conferiscono poteri divini. Siamo in grado di risolvere molti dei problemi che hanno afflitto l’umanità in passato: la fame, le malattie e l’incapacità di comprendere culture diverse. Ma queste stesse tecnologie sono anche in grado di condurre il nostro mondo oltre il limite. Lo scenario peggiore è quello di una stratificazione di attacchi alla connettività non definibili come guerre: attacchi informatici catastrofici, guerre commerciali che bloccano le filiere globali, crisi finanziarie che fanno sprofondare il mondo nella depressione. Allo stesso tempo i governi nazionalisti potrebbero strumentalizzare il cambiamento climatico per danneggiare i loro rivali, costringendo masse di rifugiati ad abbandonare le proprie case e diffondendo malattie in tutto il mondo. Nonostante tutti i progressi della scienza e della tecnologia, l’unica cosa che non siamo riusciti a capire è che il nostro mondo connesso sta alimentando l’invidia e fornendo a nazioni e persone le armi con cui ferirsi a vicenda.
Non è troppo tardi per cambiare rotta. È una questione di autoconsapevolezza. Invece di trattare i nostri conflitti come forze esterne, dobbiamo capire che traggono origine dal nostro stile di vita e dalle nostre scelte (non solo le grandi decisioni ma anche quelle piccole che neanche ci accorgiamo di aver preso). Analizzando noi stessi possiamo prepararci ai problemi e capire quali opzioni ci restano.
Il nostro obiettivo non deve essere quello di fare a meno della connettività, ma di disarmarla. Dobbiamo cercare di eliminare il veleno dall’interdipendenza o almeno imparare a coesistere con poteri motivati da valori che non condividiamo. Alcuni segnali inducono a credere che ciò sia possibile. In Cina il governo ha abbracciato l’idea della «doppia circolazione», un tentativo di ricalibrare le sue relazioni con l’estero in modo da sentirsi meno minacciata dal mondo esterno. A Washington Joe Biden si rivolge a chi ha pagato il prezzo più alto di un mondo interconnesso, ripensando al contempo le politiche commerciali, tecnologiche ed estere degli Stati Uniti per renderle meno esposte alle strumentalizzazioni esterne. In Europa la ricerca della sovranità e dell’autonomia europea segna il passaggio dall’abbattimento dei muri al rendere nuovamente sicura l’interdipendenza.
Sono stati scritti fiumi di parole sulla crisi della politica contemporanea. Ma pochi osservatori hanno ammesso che è lo stesso processo di interconnessione del mondo a causare la sua divisione. Questo libro cerca di far luce sul grande dilemma della nostra epoca: non possiamo tornare al mondo pre-connettività, e tuttavia l’umanità potrebbe non sopravvivere se non cambiamo mentalità. […] La sfida maggiore durante la Guerra fredda è stata quella di controllare la proliferazione delle armi nucleari prima che mettessero fine all’esistenza dell’umanità. La sfida della nostra epoca non è controllare il flusso di armi, ma disarmare la connettività stessa.
La differenza tra un’epoca di opportunità senza precedenti e il suicidio collettivo dell’umanità sta nelle scelte politiche che faremo nei prossimi anni. Il futuro è nostro e possiamo plasmarlo.
Perchè viviamo nell’era della non-pace
“Il mio è un libro conciso basato su un’idea molto semplice: le connessioni che uniscono il mondo sono le stesse che lo stanno disgregando”, spiega l’autore, direttore e co-fondatore dello European Council on Foreign Relations. “Ho iniziato questo processo pensando che avrei scritto un’accorata apologia del mondo aperto, ma più scavavo in profondità più il mio pensiero diventava complesso. Alcune domande sono diventate veri e propri assilli. E se il processo che ci unisce fosse in realtà la causa della segregazione e del conflitto? E se le crescenti fratture nel mondo globalizzato non fossero un guasto del sistema ma una sua caratteristica intrinseca?”.
Con il crollo dell’Unione Sovietica alla fine del 1991, il pianeta diviso che viveva all’ombra della bomba ha lasciato il posto a un mondo di interconnessione e interdipendenza. Per alcuni l’evento preannunciava la fine della storia, con un mondo largamente unito intento a perseguire i vantaggi della globalizzazione. Eppure le nascenti connessioni tra i Paesi non hanno eliminato le tensioni, anzi. Le lotte di potere dell’era geopolitica persistono tuttora, ma in una forma nuova. E, per combatterle, i tre grandi “imperi della connettività” (Usa, Cina e Unione Europea) e il “quarto mondo” (Russia in primis) usano soprattutto “armi” diverse da quelle convenzionali.
Le guerre commerciali, i dazi, le sanzioni e la concorrenza normativa hanno trasformato in strumenti offensivi i legami economici mondiali. Le nostre nuove infrastrutture globali, fisiche e virtuali, consentono ai Paesi di competere tra loro aumentando i collegamenti con altri paesi e negandoli ai rivali. Anche i movimenti mondiali di persone sono una fonte di potere, in quanto alcuni Stati strumentalizzano i flussi di rifugiati o addirittura mobilitano le loro diaspore all’estero. Persino il diritto internazionale è stato trasformato in un’arma, poiché gli Stati rivali lo manipolano per conseguire obiettivi politici invece di usarlo per arginare i loro scontri.
E la rete? Rappresenta il terreno perfetto per il diffondersi di una cultura della non-pace. Aprendoci al confronto con le vite di tutti, la connettività digitale sta facendo emergere il lato competitivo e narcisistico della natura umana, portando a società molto più polarizzate, alimentando un’epidemia di invidia e insinuando una sensazione di perdita di controllo favorita da un ecosistema di giorno in giorno più incomprensibile in quanto non governato da esseri umani, ma da algoritmi.
Secondo Leonard anche la guerra in Ucraina – che ha rimesso l’Europa di fronte ai fantasmi della Seconda Guerra Mondiale – può essere compresa al meglio solo se la si interpreta come un moderno “conflitto di connettività” in una nuova epoca di non-pace. “Non si tratta, come alcuni hanno sostenuto, del ritorno al passato bellicoso dell’Europa, ma di un segno dell’instabilità globale a venire”.
Come reagire, prima di arrivare al punto di rottura?
“Non è troppo tardi per cambiare rotta”, afferma l’autore. “È una questione di autoconsapevolezza. Invece di trattare i nostri conflitti come forze esterne, dobbiamo capire che traggono origine dal nostro stile di vita e dalle nostre scelte (non solo le grandi decisioni ma anche quelle piccole che neanche ci accorgiamo di aver preso). Analizzando noi stessi possiamo prepararci ai problemi e capire quali opzioni ci restano. Il nostro obiettivo non deve essere quello di fare a meno della connettività, ma di disarmarla. Dobbiamo cercare di eliminare il veleno dall’interdipendenza o almeno imparare a coesistere con poteri motivati da valori che non condividiamo.
La sfida maggiore durante la Guerra fredda”, riflette Leonard, “è stata quella di controllare la proliferazione delle armi nucleari prima che mettessero fine all’esistenza dell’umanità. La sfida della nostra epoca non è controllare il flusso di armi, ma disarmare la connettività stessa. La differenza tra un’epoca di opportunità senza precedenti e il suicidio collettivo dell’umanità sta nelle scelte politiche che faremo nei prossimi anni. Il futuro è nostro e possiamo plasmarlo”.
Più cerco di capire la nostra politica, meno mi convince l’idea che si possa riprendere a progredire verso un «unico mondo». Gli internazionalisti rischiano di alienarsi proprio le persone che hanno bisogno di convincere, insinuando che hanno una mentalità chiusa o che sono ignoranti e campanilisti. Ma, cosa ancora più preoccupante, la divisione tra mentalità «aperta» e «chiusa» non riesce a cogliere il grande paradosso che caratterizza i nostri tempi: più le persone e i paesi si uniscono, più vogliono allontanarsi. Il principio organizzativo fondante del mondo odierno non è uno scontro tra globalisti e nazionalisti sui ponti levatoi, ma piuttosto un insieme di «conflitti di connettività» che infuriano tra antagonisti interconnessi. L’atto di collegare le persone tra loro non porta sempre al conflitto, ma può innescare reazioni che lo rendono più probabile, oltre a fornire i mezzi di combattimento.