Libano, Giordania, Maghreb, Sahel: gli scenari allarmanti rimasti in ombra e che non sono stati raccontati dai media globalizzati concentrati sulla vicenda afghana
Gli Stati Uniti e la Nato hanno lasciato l’Afghanistan: un esodo che se da un lato ha rispettato gli impegni che le ultime amministrazioni americane avevano assunto con gli accordi di Doha, dall’altro ha gettato nello sconcerto tutta quella parte del mondo che sino a ieri avrebbe giurato sulla totale affidabilità degli Stati Uniti come garanti della sua sicurezza. Per di più l’assoluta inconsistenza del Governo che l’Alleanza Atlantica e gli Usa avevano lasciato alla guida del Paese asiatico ha finito col produrre un effetto di accelerazione dell’esodo tale da trasformare progressivamente l’ordine in caos, generando scene − come quella della caduta di alcuni afghani dagli aerei in volo − destinate a rimanere impresse nella memoria collettiva di tutto il mondo e a venire permanentemente associate alle riprese di coloro che saltavano nel vuoto dalle Torri Gemelle in fiamme. O, se vogliamo andare più indietro nel tempo, alle foto dei vietnamiti del sud disperatamente attaccati ai pattini dell’ultimo elicottero Usa che si sollevava dal tetto dell’Ambasciata degli Stati Uniti mentre Saigon era abbandonata.
Non c’è da meravigliarsi che di fronte ad avvenimenti del genere l’attenzione dei mass media di tutto il mondo sia rimasta concentrata per settimane pressoché esclusivamente sull’Afghanistan, seguendo una curva che è stata all’inizio in rapidissimo crescendo, ha raggiunto rapidamente un picco ed è poi tornata a discendere con una rapidità che è risultata però molto più ridotta di quella che aveva caratterizzato la salita iniziale. In sintesi l’Afghanistan ha così finito col fruire per alcune settimane di tutta la luce mediatica che viene di norma destinata alla scena internazionale.
Alcune altre aree del mondo sono di conseguenza rimaste totalmente in ombra, o perlomeno non hanno ricevuto l’attenzione di cui avrebbero fruito in differenti circostanze, malgrado il fatto che anche lì politica e storia − che non si fermano mai e rilanciano in continuazione il volano del cambiamento − avessero continuato a produrre i loro effetti. Si tratta di un dato di situazione estremamente negativo e molto pericoloso, considerato come esso si sia verificato in un mondo in cui in pratica, a meno che tu non sia inquadrato dai riflettori mediatici, finisci addirittura col non esistere. In un contesto in cui la globalizzazione ha ridotto al minimo i tempi disponibili, ogni ritardo nel reagire agli avvenimenti può inoltre trasformarsi con rapidità in una catastrofe cui sarà poi particolarmente difficile porre rimedio.
Limitandoci ad esaminare unicamente l’area di maggiore interesse per noi italiani, vale a dire quella di un Mediterraneo esteso al Medio Oriente e al Sahel, l’esempio più lampante è senza dubbio quello del Libano, abbandonato a se stesso e sparito dalle colonne dei giornali, nonché dalle preoccupazioni politiche dell’Occidente, malgrado il fatto che la crescente crisi economica, associandosi ad altri fattori di instabilità preesistenti, lo stesse evidentemente precipitando di nuovo verso i noti orrori di una guerra civile interconfessionale mantenuta in animazione sospesa da parecchi anni ma mai realmente cessata.
Così persino la notizia del black out pressoché totale del Paese, non più in condizione di pagarsi il rifornimento e la produzione di energia, ha trovato soltanto un breve spazio sui nostri giornali, venendo però pressoché totalmente ignorata dalle reti televisive. Il risultato è che oggi a Beirut si riprende a combattere più o meno secondo gli schemi classici, con i falangisti di Geagea schierati contro Hezbollah. Si tratta per il momento di una scintilla, ma chi può dire cosa succederà domani? Il caso del Libano poi è tutt’altro che un caso isolato. Nella vicina Giordania il prestigio della casa reale hascemita, cioè il vero pilastro della stabilità di una monarchia che fra tutti i governi dell’area medio orientale esprime quello più prossimo all’Occidente − e in particolare all’Europa − è stato fortemente intaccato dallo scandalo dei Pandora Papers che ha rivelato alla popolazione le discutibili manovre finanziarie del Re, nonché i numerosi e pingui conti bancari che esse alimentavano in remoti paradisi fiscali.
Le cose non vanno meglio neanche nel Magreb, ove la Libia incontra crescenti ostacoli nel procedere ordinatamente verso elezioni destinate, almeno negli intenti, a rivelarsi il cardine fondante di una reale riunificazione. Nella vicina Tunisia intanto la crisi istituzionale aperta dal quasi colpo di Stato dell’attuale Presidente della Repubblica resta pericolosamente incombente, malgrado il gesto di apparente apertura al futuro con cui, per la prima volta nell’area, una donna è stata scelta quale Primo Ministro.
Un poco più a ovest inoltre, l’irrisolta questione saharoui sta pian piano portando Algeria e Marocco sempre più prossimi alla possibilità di una guerra. Una ipotesi che l’instabilità di Algeri, che avrebbe un disperato bisogno di un nemico esterno su cui scaricare la montante tensione interna rende tutt’altro che aleatoria.
Vi è infine l’amplissima area del Sahel, ove La Francia ha di recente dichiarato di non essere più in condizione di mantenere l’ordine da sola, senza peraltro trovare il coraggio di mangiarsi il suo orgoglio e di chiedere ai partner dell’Unione europea un aiuto su base paritaria. Il primo risultato è stato la comparsa dei mercenari russi delle unità Wagner in Mali, cioè una crescita di quella influenza russo-turca nell’area costiera e sahariana del Mediterraneo che sta rivelandosi sempre più ingombrante per gli interessi dell’Occidente. Un quadro complessivo, quindi, che sta divenendo sempre più sconfortante, ed ove le poche buone notizie, come l’incontro Israele/egiziano nel Sinai, certo non bilanciano le numerose note stonate. Un quadro, soprattutto, che noi dovremmo tenere costantemente d’occhio, pronti ad intervenire con immediata tempestività se e dove se ne presentasse l’occasione.
Questo non implica certo dimenticare l’Afghanistan, o tanto meno ridurre le iniziative che possano attenuare il peso di quella tragedia. Significa invece soltanto continuare a prestare costantemente attenzione a tutti gli scacchieri di interesse, qualunque siano le condizioni del momento e le conseguenti luci ed ombre mediatiche. Una cosa che in realtà è sempre risultata molto difficile in un Paese in cui, anche in periodi di apparente normale routine, le notizie sull’Africa e sul Medio Oriente bisognava spesso andarsele a cercare sull’Osservatore Romano!
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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Non c’è da meravigliarsi che di fronte ad avvenimenti del genere l’attenzione dei mass media di tutto il mondo sia rimasta concentrata per settimane pressoché esclusivamente sull’Afghanistan, seguendo una curva che è stata all’inizio in rapidissimo crescendo, ha raggiunto rapidamente un picco ed è poi tornata a discendere con una rapidità che è risultata però molto più ridotta di quella che aveva caratterizzato la salita iniziale. In sintesi l’Afghanistan ha così finito col fruire per alcune settimane di tutta la luce mediatica che viene di norma destinata alla scena internazionale.