Il Presidente Aoun difende l’equilibrio confessionale, il Primo Ministro incaricato Hariri le alleanze internazionali. Dopo nove mesi senza un accordo politico, Hariri rinuncia e il Paese sprofonda
Poco più di un anno fa, mentre il mondo familiarizzava con la pandemia da Covid-19, il Libano sembrava aver già raggiunto il limite: all’indomani dell’annuncio di default per mancato pagamento di un Eurobond da 1,2 miliardi, il Paese dei cedri a marzo 2020 si ritrovava con una moneta che aveva perso il 40% del suo valore, un sistema bancario in tilt per la carenza di valuta “forte”, un debito pubblico vicino al 150% del Pil ed una disoccupazione al 36%.
In uno scenario simile, delineatosi in un paese sostanzialmente privo di un sistema sanitario pubblico efficiente, è arrivato il Covid-19. Non senza ulteriore crudeltà, l’ondata di contagi più violenta è arrivata alla fine dell’estate – con oltre cinquemila casi al giorno per almeno tre mesi -, culminata con l’esplosione al porto di Beirut, con i 200 morti, 6000 feriti, 300 mila sfollati e circa 3 miliardi di danni materiali che ha prodotto su oltre metà della superficie della capitale, riducendo in rovina almeno un paio di quartieri, da quello medio borghese di Mar Mikhail a quello sottoproletario di Karantina. Questa “equanimità” nelle devastazioni del 4 agosto sembrava in quel momento una metafora delle condizioni del Paese, dove chi già viveva sotto la soglia della povertà relativa finiva sotto quella assoluta, e chi solo l’estate precedente poteva mandare i figli a studiare all’estero si ritrovava con la casa in macerie. Sembrava la premessa di un reset, l’anno zero. Ed invece c’era ancora margine.
Un margine che un recente report della Banca mondiale ha cercato di fotografare con un’espressione emblematica: “il Libano sprofonda”, si legge nel titolo. Quella libanese è una delle tre peggiori crisi finanziarie dal 1857 ad oggi, con una serie di tratti generali ed indicatori normalmente associati a contesti di guerra. E, sebbene alcuni, come l’analista Hicham Safieddine, siano arrivati a mettere in guardia dall’emersione di diverse forme di violenza sistematica, in una società che vive sempre tra l’evocazione dei conflitti settari passati e la prefigurazione di quelli futuri, in Libano la guerra manca da 31 anni.
Il report della Banca mondiale rimette in prospettiva i già preoccupanti indicatori di un anno fa: nel 2020 il Pil libanese si è quasi dimezzato, passando da 55 a 33 miliardi, un rapporto col debito vicino al 200%, una moneta che si è deprezzata del 90% e un’inflazione su base annua del 400%. Metà della popolazione è sotto la soglia di povertà. Gran parte della forza-lavoro, pagata in lire libanesi – oggi scambiate a 15000 contro un dollaro, due anni fa a 1500 – non riesce a sostentarsi, visto che il salario minimo è passato da 450 $ del 2018 a 54 $ del 2020. Secondo l’ILO, a fine anno saranno circa 700mila le persone che avranno perso il lavoro solo nel corso del 2021. Non sorprende quindi che nel giro di due anni, la quota di libanesi che ha deciso di emigrare all’estero è più che triplicata, toccando cifre paragonabili solo agli anni della guerra civile.
Non se ne vanno solo i libanesi ma anche chi fornisce servizi in un paese che produce poco e importa quasi tutto in dollari, le cui riserve sono pericolosamente passate dai 30 miliardi del 2020 ai 15 miliardi di marzo 2021. Alcuni esempi sfiorano il parossismo. In Libano la corrente statale viene erogata a fasce orarie e con diversa intensità a seconda delle aree: si va dalle 6 alle 18 ore di corrente a Beirut, per arrivare alle 3 scarse nella Beqaa orientale e nell’Akkar. Chi vuole coprire le ore di blackout deve affidarsi ai generatori a benzina, i cui prezzi sono schizzati alle stelle. Così, da una parte si assiste alle code chilometriche ai distributori, dove è già iniziato il razionamento; dall’altra, a decisioni come quella presa a metà maggio dalla compagnia turca Karpowership, che ha annunciato la fine dell’erogazione di corrente in Libano a causa di mancati pagamenti negli ultimi 18 mesi. Una decisione simile era stata presa un anno fa da un’altra compagnia americana, la Duncan-Nead, che si occupava della manutenzione dei semafori di Beirut, e che in diverse aree della capitale hanno così smesso di funzionare.
Due dossier sembrano più urgenti: l’esaurimento progressivo dei sussidi, misura costosa e regressiva ma allo stesso tempo uno dei pochi argini a ulteriori dinamiche inflazionistiche; e l’impatto della crisi sui già carenti servizi pubblici. Si tratta di due aspetti che introducono un problema politico, che si presenta sotto forma di mancanza di un governo da ormai 8 mesi. Lo stallo tra il Capo di Stato Michel Aoun ed il primo ministro Saad Hariri descrive bene lo scollamento tra società civile e classe politica, oltre a distillare il problema “filosofico” del modello libanese.
Aoun e Hariri si sono incontrati 18 volte in questi mesi, senza mai trovare un accordo sul numero e l’allocazione di ministeri, accusandosi a vicenda di fare ostruzionismo. La necessità di trovare un nuovo equilibrio politico, all’interno di un Parlamento di tipo settario, ci ricorda cos’è il confessionalismo: da una parte una salvezza, un delicato meccanismo che garantisce equa rappresentanza parlamentare e pace sociale tra le 18 comunità del Paese; dall’altra una condanna permanente, che congela un sistema formalmente laico riempito però di vecchie pratiche e assunti settari. Un sistema che per sua ratio rende più complessa la strada verso la piena laicità, cioè la direzione in cui guardano le nuove generazioni scese in piazza negli ultimi due anni.
“Il sistema è fatto per riprodursi, non per essere riformato”, spiega Bassel Salloukh, in riferimento al fatto che la tendenza dei partiti libanesi a tutelare l’equilibrio confessionale nell’arena politica, sostenuta dall’evocazione permanente del fantasma di tensioni settarie dovute proprio a fatali squilibri, costituisce una “trappola”. Qualunque deviazione, come nel caso del premier Hariri che propone e si vede respingere da Aoun una squadra di governo di “tecnici”, può essere percepita come un tentativo di negare la natura del power sharing, di mettere in pericolo i fondamentali e la stabilità del Paese. A ciò si aggiunge la dimensione geopolitica di un paese esposto alle conflittuali agende di politica estera di diverse potenze regionali e globali. Se Hariri può implicitamente accusare Aoun di rifiutare un esecutivo di tecnici in virtù del bisogno di preservare la sua alleanza con Hezbollah, lo stesso Aoun può velatamente accusare Hariri di sconfessare il sistema in occulta funzione di istanze altrui, che ultimamente hanno assunto la forma di Emmanuel Macron e della richiesta di “riforme”.
Le riforme, tuttavia, sono quelle dolorose richieste dal FMI, che prevedono tra l’altro una serie di privatizzazioni, la rimozione dei sussidi, la riforma del sistema bancario e l’introduzione di nuove imposte. E’ evidente il rifiuto da parte della classe politica libanese di intitolarsi decisioni impopolari, ancor meno con elezioni nel giro di un anno. La stabilità, per il generale Michel Aoun figlio della guerra civile, sta nella ligia applicazione del confessionalismo, a prescindere da quanto condiviso sia oggi presso una società civile diversa da quella degli anni ’80. Per Saad Hariri, figlio del Libano post-conflitto, la stabilità ha meno a che fare col rischio di tensioni settarie ma con la necessità di portare il Libano all’interno di alleanze più spendibili, che permettano lo sblocco di aiuti e iniziative della comunità internazionale, ma che appunto pongono deliberatamente in “minoranza” politica – poiché titolare di una maggioranza parlamentare – il blocco formato dal partito di Aoun ed Hezbollah, oggetto di una guerra finanziaria da parte degli Stati uniti, primi finanziatori dell’Esercito libanese.
E proprio lo scorso marzo il capo delle Forze armate (LAF), Joseph Aoun, si era rivolto al parlamento libanese con un discorso poi divenuto virale sui social media: “Cosa state aspettando? Vi abbiamo già avvertito della pericolosità della situazione”, aveva detto, quando solo pochi mesi prima l’Esercito aveva annunciato la rimozione della carne rossa – troppo costosa – dal rancio, accanto al taglio degli stipendi degli ufficiali, obbligando molti di essi al doppio lavoro. Lo scorso 26 maggio, Joseph Aoun è stato il primo Capo delle LAF a recarsi in visita in Francia. “Siamo preoccupati perché l’Esercito è lo zoccolo duro del Paese, ed è vicino al collasso.”
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
Poco più di un anno fa, mentre il mondo familiarizzava con la pandemia da Covid-19, il Libano sembrava aver già raggiunto il limite: all’indomani dell’annuncio di default per mancato pagamento di un Eurobond da 1,2 miliardi, il Paese dei cedri a marzo 2020 si ritrovava con una moneta che aveva perso il 40% del suo valore, un sistema bancario in tilt per la carenza di valuta “forte”, un debito pubblico vicino al 150% del Pil ed una disoccupazione al 36%.
In uno scenario simile, delineatosi in un paese sostanzialmente privo di un sistema sanitario pubblico efficiente, è arrivato il Covid-19. Non senza ulteriore crudeltà, l’ondata di contagi più violenta è arrivata alla fine dell’estate – con oltre cinquemila casi al giorno per almeno tre mesi -, culminata con l’esplosione al porto di Beirut, con i 200 morti, 6000 feriti, 300 mila sfollati e circa 3 miliardi di danni materiali che ha prodotto su oltre metà della superficie della capitale, riducendo in rovina almeno un paio di quartieri, da quello medio borghese di Mar Mikhail a quello sottoproletario di Karantina. Questa “equanimità” nelle devastazioni del 4 agosto sembrava in quel momento una metafora delle condizioni del Paese, dove chi già viveva sotto la soglia della povertà relativa finiva sotto quella assoluta, e chi solo l’estate precedente poteva mandare i figli a studiare all’estero si ritrovava con la casa in macerie. Sembrava la premessa di un reset, l’anno zero. Ed invece c’era ancora margine.