
[BEIRUT] Giornalista free lance, si occupa di Medio Oriente e Nord Africa per diverse testate. Dal 2016 risiede in Libano.
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Quasi 12 milioni di documenti analizzati da 600 giornalisti, dai quali sono emersi circa 29mila conti offshore di società connesse ad oltre 300 personalità politiche mondiali, sparse in oltre 90 paesi (più o meno equamente divisi tra autoritari e democratici), tra i quali 35 ex ed attuali capi di Stato o di governo, che negli anni si sono arricchiti in modo spropositato grazie all’evasione e all’elusione del fisco. Sono alcuni dei numeri dei Pandora Papers (PP), che il Consorzio internazionale di giornalismo investigativo (ICIJ) ha pubblicato lo scorso ottobre, definendoli “la più grande inchiesta della storia del giornalismo”. Una luce estesa sull’economia globale offshore, e riflessa sull’arricchimento illecito e le manovre opache di centinaia di personalità di potere. Secondo un esteso report del Tax Justice Network, sono 427 i miliardi di dollari che i governi del mondo hanno perso lo scorso anno a causa dell’elusione fiscale, una pratica che a differenza dell’evasione viene condotta in modo legale.
In Medio Oriente, una regione che dieci anni fa veniva scossa da quelle primavere arabe scaturite proprio da istanze socio-economiche, dalla generalizzata insofferenza verso le crescenti e sempre più visibili sperequazioni sociali, sono una quarantina i politici collegati all’inchiesta, provenienti da nove Paesi (Giordania, Libano, Qatar, Emirati arabi uniti, Marocco, Bahrein, Israele, Tunisia, Kuwait). Personalità di diverso rilievo, tra cui il re di Giordania Abdullah II, l’emiro del Qatar Tamin bin Hamad al Thani, il Primo Ministro libanese Najib Mikati, il Primo Ministro degli Emirati Mohammad bin Rashid al Maktoum, ma anche di diversi livelli di impatto presso le società civili di riferimento.
L’emiro del Qatar e l’ex Primo Ministro e miliardario Hamad bin Jassim Al Thani sarebbero ad esempio titolari di conti correnti offshore da milioni di dollari, registrati tra Panama, Isole Cayman e Bahamas. Tamim bin Hamad viene collegato ad almeno due società registrate alle Isole Vergini, con cui ha comprato proprietà immobiliari per decine di milioni di dollari nel Regno Unito. Nel 2013 la madre dell’emiro, Moza bint Nasser, ha acquistato attraverso questo schema tre delle più costose ville in Gran Bretagna, dal valore complessivo di 187 milioni di dollari. L’emiro di Dubai e primo ministro degli Emirati dal 2006, Mohammad bin Rashid al Maktoum, ha fatto strutturare in modo più complesso i suoi investimenti privati, usando la Axiom Limited, posseduta dalla Dubai Holding, per registrare tre società alle Bahamas con cui effettuare acquisti di ville e altri beni di lusso, diluiti però non nel Regno Unito ma in tutta Europa.
Quelli sopra menzionati sono probabilmente i casi che segnalano una gravità relativa, alla luce della relazione tra società civile e Corona, e dell’impianto istituzionale di riferimento. I casi di Qatar e Emirati Arabi Uniti hanno destato uno scalpore contenuto, essendo Paesi dove la tassazione è molto bassa e dove la società civile non pone particolari sfide al potere costituito, riconoscendone o assecondandone l’assetto istituzionale che pone gli emiri in posizione apicale, i loro stessi investimenti globali come vettori del soft power, e potendo peraltro vantare il reddito pro capite più alto al mondo (nel caso del Qatar).
La situazione cambia nel Levante: i casi di Giordania e Libano non possono essere isolati dal malcontento che da diversi anni ivi ribolle, alimentato dall’aumento della distanza tra ricchissimi e poverissimi. Il Re giordano Abdullah II tra il 2003 e il 2017 ha usato alcune compagnie offshore per costruire un vero e proprio impero del lusso tra Stati Uniti e Gran Bretagna: quattordici ville per un totale di circa 100 milioni di dollari, che stridono con l’immagine sobria e generosa che la famiglia del sovrano cerca di dare. L’aspetto inquietante è che gran parte di questi acquisti sono stati effettuati durante le fasi più intense delle primavere arabe, ma non è tutto: nel 2019, durante accese manifestazioni contro la corruzione e la povertà, e mentre la disoccupazione toccava il 19%, Amjad Hazza Al Majali, ex consigliere dell’ex Re di Giordania, aveva pubblicato sui social media una lettera in cui invitava la famiglia reale a “restituire la ricchezza sottratta dalle casse dello Stato”.
Il caso libanese è sui generis, poiché parliamo di una repubblica parlamentare in cui l’intera classe politica – eletta democraticamente – viene accusata da buona parte della popolazione, in protesta a intensità variabile sin dal 2019, di essersi appropriata della ricchezza del Paese. I PP, in questo senso, non fanno altro che certificare un sospetto diffuso: mentre l’economia libanese si avviava al collasso, col totale deperimento di servizi essenziali come l’elettricità, quasi il 50% della popolazione finita in pochi anni sotto la soglia della povertà, un debito pubblico esorbitante, inflazione a due zeri, il divieto di prelievo in dollari agli sportelli bancari dal 2019, i politici libanesi facevano uscire dal paese oltre 6 miliardi in dollari (che ai libanesi comuni erano stati congelati), registrando decine di società nei paradisi fiscali. Il Paese, sei milioni di abitanti in un territorio esteso come l’Abruzzo, “vanta” il più alto numero in assoluto di società registrate in paradisi fiscali: 346, a fronte delle 151 della Gran Bretagna, seconda in questa graduatoria.
I PP coinvolgono politici ed imprenditori libanesi su quasi tutto lo spettro. Non solo figure come Marwan Kheireddine, legate alla Corrente patriottica libera del Presidente Michel Aoun (di cui è consigliere), o lo stesso ex premier tecnico Hassan Diab, ma anche imprenditori come gli Al Khayat, proprietari dell’emittente Al Jadeed, che a lungo ha coperto in modo “solidale” le proteste contro l’establishment. I casi più rumorosi sono però quelli di Riad Salameh, governatore della Banca centrale e principale responsabile del crollo verticale della lira libanese, e del premier Najib Mikati.
È impossibile non rilevare il contrasto tra le condizioni in cui versa Tripoli, la città nativa del premier, con un tasso di disoccupazione che oggi supera il 60%, e l’enorme ricchezza accumulata da quest’ultimo, magnate delle telecomunicazioni, tra i più ricchi individui dell’intera regione. Mikati ha usato per comprare appartamenti a Monaco e Londra, e secondo fonti citate dalla piattaforma Daraj, ha usufruito di prestiti agevolati (destinati a famiglie a basso reddito) dalla Bank Audi per comprare immobili in Libano, tra cui l’appartamento da 1500 metri quadri dove vive nella torre Platinum, al centro di Beirut.
Pratiche perlopiù elusive, che però non possono smorzare il risentimento, già attivo, di almeno due milioni di persone che in Libano vivono ancora nei campi profughi, o dei 300.000 libanesi che hanno perso la casa nell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020, o della maggioranza che ha un sempre più scarso accesso ai servizi essenziali, incluse le medicine. In Libano il fisco perde oltre 200 milioni di dollari l’anno solo a causa di pratiche elusive, una cifra che ammonta al 10% del budget per la sanità e al 3% del gettito.
Se politici e leader di Paesi liberaldemocratici – come Blair o Strauss Kahn – hanno accumulato ricchezza nei paradisi fiscali soprattutto con l’obiettivo di sfuggire al più o meno alto livello tassazione nazionale, non è insensato credere che quelli di Paesi più o meno autoritari abbiano fatto lo stesso pensando anche a una polizza assicurativa, nell’eventualità di rivoluzioni di piazza che mettano in discussione la natura stessa del loro potere e la loro permanenza nel Paese. I politici libanesi si situano nel mezzo: in condizione di sfuggire alla feroce “austerity” imposta ai libanesi durante la peggiore crisi economica della sua storia, e allo stesso tempo sempre più nel mirino delle proteste popolari, nelle quali si intima all’intero establishment di farsi da parte, e che erano state generate proprio da istanze che ricalcano la realtà messa in luce dai PP.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Poco più di un anno fa, mentre il mondo familiarizzava con la pandemia da Covid-19, il Libano sembrava aver già raggiunto il limite: all’indomani dell’annuncio di default per mancato pagamento di un Eurobond da 1,2 miliardi, il Paese dei cedri a marzo 2020 si ritrovava con una moneta che aveva perso il 40% del suo valore, un sistema bancario in tilt per la carenza di valuta “forte”, un debito pubblico vicino al 150% del Pil ed una disoccupazione al 36%.
In uno scenario simile, delineatosi in un paese sostanzialmente privo di un sistema sanitario pubblico efficiente, è arrivato il Covid-19. Non senza ulteriore crudeltà, l’ondata di contagi più violenta è arrivata alla fine dell’estate – con oltre cinquemila casi al giorno per almeno tre mesi -, culminata con l’esplosione al porto di Beirut, con i 200 morti, 6000 feriti, 300 mila sfollati e circa 3 miliardi di danni materiali che ha prodotto su oltre metà della superficie della capitale, riducendo in rovina almeno un paio di quartieri, da quello medio borghese di Mar Mikhail a quello sottoproletario di Karantina. Questa “equanimità” nelle devastazioni del 4 agosto sembrava in quel momento una metafora delle condizioni del Paese, dove chi già viveva sotto la soglia della povertà relativa finiva sotto quella assoluta, e chi solo l’estate precedente poteva mandare i figli a studiare all’estero si ritrovava con la casa in macerie. Sembrava la premessa di un reset, l’anno zero. Ed invece c’era ancora margine.
Un margine che un recente report della Banca mondiale ha cercato di fotografare con un’espressione emblematica: “il Libano sprofonda”, si legge nel titolo. Quella libanese è una delle tre peggiori crisi finanziarie dal 1857 ad oggi, con una serie di tratti generali ed indicatori normalmente associati a contesti di guerra. E, sebbene alcuni, come l’analista Hicham Safieddine, siano arrivati a mettere in guardia dall’emersione di diverse forme di violenza sistematica, in una società che vive sempre tra l’evocazione dei conflitti settari passati e la prefigurazione di quelli futuri, in Libano la guerra manca da 31 anni.
Il report della Banca mondiale rimette in prospettiva i già preoccupanti indicatori di un anno fa: nel 2020 il Pil libanese si è quasi dimezzato, passando da 55 a 33 miliardi, un rapporto col debito vicino al 200%, una moneta che si è deprezzata del 90% e un’inflazione su base annua del 400%. Metà della popolazione è sotto la soglia di povertà. Gran parte della forza-lavoro, pagata in lire libanesi – oggi scambiate a 15000 contro un dollaro, due anni fa a 1500 – non riesce a sostentarsi, visto che il salario minimo è passato da 450 $ del 2018 a 54 $ del 2020. Secondo l’ILO, a fine anno saranno circa 700mila le persone che avranno perso il lavoro solo nel corso del 2021. Non sorprende quindi che nel giro di due anni, la quota di libanesi che ha deciso di emigrare all’estero è più che triplicata, toccando cifre paragonabili solo agli anni della guerra civile.
Non se ne vanno solo i libanesi ma anche chi fornisce servizi in un paese che produce poco e importa quasi tutto in dollari, le cui riserve sono pericolosamente passate dai 30 miliardi del 2020 ai 15 miliardi di marzo 2021. Alcuni esempi sfiorano il parossismo. In Libano la corrente statale viene erogata a fasce orarie e con diversa intensità a seconda delle aree: si va dalle 6 alle 18 ore di corrente a Beirut, per arrivare alle 3 scarse nella Beqaa orientale e nell’Akkar. Chi vuole coprire le ore di blackout deve affidarsi ai generatori a benzina, i cui prezzi sono schizzati alle stelle. Così, da una parte si assiste alle code chilometriche ai distributori, dove è già iniziato il razionamento; dall’altra, a decisioni come quella presa a metà maggio dalla compagnia turca Karpowership, che ha annunciato la fine dell’erogazione di corrente in Libano a causa di mancati pagamenti negli ultimi 18 mesi. Una decisione simile era stata presa un anno fa da un’altra compagnia americana, la Duncan-Nead, che si occupava della manutenzione dei semafori di Beirut, e che in diverse aree della capitale hanno così smesso di funzionare.
Due dossier sembrano più urgenti: l’esaurimento progressivo dei sussidi, misura costosa e regressiva ma allo stesso tempo uno dei pochi argini a ulteriori dinamiche inflazionistiche; e l’impatto della crisi sui già carenti servizi pubblici. Si tratta di due aspetti che introducono un problema politico, che si presenta sotto forma di mancanza di un governo da ormai 8 mesi. Lo stallo tra il Capo di Stato Michel Aoun ed il primo ministro Saad Hariri descrive bene lo scollamento tra società civile e classe politica, oltre a distillare il problema “filosofico” del modello libanese.
Aoun e Hariri si sono incontrati 18 volte in questi mesi, senza mai trovare un accordo sul numero e l’allocazione di ministeri, accusandosi a vicenda di fare ostruzionismo. La necessità di trovare un nuovo equilibrio politico, all’interno di un Parlamento di tipo settario, ci ricorda cos’è il confessionalismo: da una parte una salvezza, un delicato meccanismo che garantisce equa rappresentanza parlamentare e pace sociale tra le 18 comunità del Paese; dall’altra una condanna permanente, che congela un sistema formalmente laico riempito però di vecchie pratiche e assunti settari. Un sistema che per sua ratio rende più complessa la strada verso la piena laicità, cioè la direzione in cui guardano le nuove generazioni scese in piazza negli ultimi due anni.
“Il sistema è fatto per riprodursi, non per essere riformato”, spiega Bassel Salloukh, in riferimento al fatto che la tendenza dei partiti libanesi a tutelare l’equilibrio confessionale nell’arena politica, sostenuta dall’evocazione permanente del fantasma di tensioni settarie dovute proprio a fatali squilibri, costituisce una “trappola”. Qualunque deviazione, come nel caso del premier Hariri che propone e si vede respingere da Aoun una squadra di governo di “tecnici”, può essere percepita come un tentativo di negare la natura del power sharing, di mettere in pericolo i fondamentali e la stabilità del Paese. A ciò si aggiunge la dimensione geopolitica di un paese esposto alle conflittuali agende di politica estera di diverse potenze regionali e globali. Se Hariri può implicitamente accusare Aoun di rifiutare un esecutivo di tecnici in virtù del bisogno di preservare la sua alleanza con Hezbollah, lo stesso Aoun può velatamente accusare Hariri di sconfessare il sistema in occulta funzione di istanze altrui, che ultimamente hanno assunto la forma di Emmanuel Macron e della richiesta di “riforme”.
Le riforme, tuttavia, sono quelle dolorose richieste dal FMI, che prevedono tra l’altro una serie di privatizzazioni, la rimozione dei sussidi, la riforma del sistema bancario e l’introduzione di nuove imposte. E’ evidente il rifiuto da parte della classe politica libanese di intitolarsi decisioni impopolari, ancor meno con elezioni nel giro di un anno. La stabilità, per il generale Michel Aoun figlio della guerra civile, sta nella ligia applicazione del confessionalismo, a prescindere da quanto condiviso sia oggi presso una società civile diversa da quella degli anni ’80. Per Saad Hariri, figlio del Libano post-conflitto, la stabilità ha meno a che fare col rischio di tensioni settarie ma con la necessità di portare il Libano all’interno di alleanze più spendibili, che permettano lo sblocco di aiuti e iniziative della comunità internazionale, ma che appunto pongono deliberatamente in “minoranza” politica – poiché titolare di una maggioranza parlamentare – il blocco formato dal partito di Aoun ed Hezbollah, oggetto di una guerra finanziaria da parte degli Stati uniti, primi finanziatori dell’Esercito libanese.
E proprio lo scorso marzo il capo delle Forze armate (LAF), Joseph Aoun, si era rivolto al parlamento libanese con un discorso poi divenuto virale sui social media: “Cosa state aspettando? Vi abbiamo già avvertito della pericolosità della situazione”, aveva detto, quando solo pochi mesi prima l’Esercito aveva annunciato la rimozione della carne rossa – troppo costosa – dal rancio, accanto al taglio degli stipendi degli ufficiali, obbligando molti di essi al doppio lavoro. Lo scorso 26 maggio, Joseph Aoun è stato il primo Capo delle LAF a recarsi in visita in Francia. “Siamo preoccupati perché l’Esercito è lo zoccolo duro del Paese, ed è vicino al collasso.”
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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L’elezione dell’ottavo Presidente della Repubblica islamica dell’Iran, prevista per il 18 giugno, è una delle più delicate sin dalla rivoluzione del 1979. L’Iran è stato uno dei Paesi più colpiti dalla pandemia da Covid-19, ha una valuta in caduta libera per via delle sanzioni imposte dagli Stati uniti e proprio le relazioni con Washington scontano gli ultimi quattro anni di altissima tensione, iniziata con l’annunciato ritiro dall’accordo sul nucleare da parte dell’amministrazione Trump e passata per gli assassinii del generale Qassem Soleimani e dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh.
L’usuale processo di “selezione all’ingresso” da parte del Consiglio dei Guardiani ha ridotto la lista di cinquecento candidati a sette personalità, dopo aver escluso sia dei noti candidati riformisti – come l’ex vice Presidente Eshaq Jahangiri -, sia dei conservatori moderati – come Ali Larijani – che degli esponenti del corpo dei Pasdaran – come i generali Hossein Dehgan e Parviz Fattah. Come di consueto, poi, nei giorni scorsi altri tre candidati – Mohsen Mehralizadeh, Saeed Jalili e Alireza Zakani – hanno deciso un ritiro “tattico”, nel proposito di favorire un candidato con maggiori chances. La corsa si è quindi ridotta a quattro candidati: il favorito Ebrahim Raisi, già sfidante di Rouhani nel 2017, Amir Hossein Ghazizadeh Hashemi, Mohsen Rezaei (alla quarta candidatura) e Abdolaser Hemmati, ex governatore della Banca centrale.
La figura di Ebrahim Raisi, noto in Occidente per aver presieduto alle purghe di dissidenti politici nel 1988 e per esser il capo del potere giudiziario, sembra avere le maggiori chances ma le elezioni iraniane hanno abituato alla vittoria di candidati “underdog“, come nel caso di Ahmadinejad o anche dello stesso Hassan Rouhani nel 2013. Specie quando l’elettorato percepisce che gli apparati politico-militari “promuovono” un candidato a discapito degli altri. Non è un caso che secondo le stime l’affluenza al voto sarà una delle più basse dal 1979 (normalmente oltre il 65%, con picchi del 78%), come forse lo è ancor meno che il fatto che lo stesso Raisi abbia implicitamente mostrato scetticismo sulla intransigenza del Consiglio dei Guardiani, invocando una “alta partecipazione al voto” che molti hanno letto in realtà come un invito alla flessibilità allo stesso.
La forza di Raisi risiede in una base elettorale ancora sufficientemente solida nella provincia di Mashhad, nella preferenza a lui accordata dall’Ufficio della Guida suprema, nel processo di selezione “solidale” del Consiglio dei Guardiani – che tuttavia potrebbe ritorcerglisi contro, proprio in virtù di quanto detto sulla percezione dell’elettorato – e nella connessa possibilità che Raisi sia destinato a diventare in futuro il successore di Ali Khamenei nel ruolo di Rahbar. Una sua elezione alla presidenza faciliterebbe questa transizione “morbida”, in modo simile a quanto accaduto con lo stesso Khamenei, che divenne Guida suprema nel 1989, dopo 8 anni come presidente della Repubblica.
Come noto, per l’elezione di Ali Khamenei a successore di Khomeini in seno all’Assemblea degli Esperti – organo che si rinnova ogni 8 anni a suffragio universale, e che elegge o rimuove a sua volta la Guida – fu fondamentale l’attività di lobbying di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, defunto ex Presidente, che durante il voto mise sul tavolo la preferenza per Khamenei, confidatagli da Khomeini nei suoi ultimi giorni di vita.
Abdolaser Hemmati, governatore della Banca centrale, viene proprio da quegli ambienti, avendo aderito al partito Kargozaran Sazandegi, fondato nel 1996 da Rafsanjani. È lui lo “sfidante”, privo di una base elettorale solida ma anche sorprendente – non solo lui ma anche la moglie Sepideh Shabestari, intervistata dalla tv di Stato pochi giorni fa e divenuta trending topic sui social – durante gli ultimi dibattiti televisivi, dopo i quali era stato dato addirittura in vantaggio nei sondaggi per poche ore (vantaggio attribuito poi alle presunte macchinazioni di hackers, ndr). Hemmati, in modo analogo al suo “padrino” Rafsanjani, è un pragmatico, pienamente inserito nell’establishment della Repubblica islamica ma guidato più da valutazioni di costi e benefici che non dall’afflato rivoluzionario, più dagli indicatori economici che non dall’intransigenza dei principi, sebbene sempre molto attento a non assumere posizioni troppo divisive all’interno dell’arena politica.
Titolare di un dottorato in economia, noto per le sue connessioni nei mercati asiatici, Hemmati si è fatto particolarmente apprezzare come governatore della Banca centrale, ruolo che gli è stato conferito in seguito alla rimozione di Valiollah Seif, e dopo soli due mesi che era stato nominato ambasciatore a Pechino. Le chances di Hemmati sono legate a fattori generali e contingenti: se passasse l’idea di un processo di selezione politicamente motivato del Consiglio dei Guardiani, una buona parte dell’elettorato sia riformista che conservatore pragmatico potrebbe votarlo sia come candidato di compromesso che nella convinzione di preservare la credibilità del sistema.
In secondo luogo, le decisioni prese da Governatore della Banca centrale nel momento storico più critico per l’istituzione – particolarmente delicata la gestione del dossier sulla Financial Action Task Force, o l’operazione di fusione di cinque banche insolventi legate ai pasdaran nella Bank Sepah, così come la trasformazione del Sistema Integrato di Cambio della Banca centrale in una sorta di mercato in cui gli esportatori iraniani possono impiegare i loro ricavi in valuta estera – hanno contribuito alla sua buona reputazione in modo bipartisan.
Hemmati potrebbe essere visto come un tecnico finanziario molto utile a un Paese in forte difficoltà economiche e, allo stesso tempo, per via della specificità della sua figura, un Presidente più facilmente influenzabile – dagli apparati militari in particolare – e dialogante sugli altri dossier, primo tra tutti quello nucleare.
Quest’ultimo, chiunque sia il vincitore, rischia paradossalmente di essere il dossier meno divisivo, nella misura in cui a prescindere dalla presidenza in carica, esiste in Iran la volontà di capitalizzare i potenziali benefici di una amministrazione americana più aperta, e trovare un accordo più vantaggioso e soprattutto più difficilmente reversibile. Se però è vero che i toni in diplomazia contano quasi quanto la sostanza, quella di Raisi, molto più del più ecumenico Hemmati, è una figura che rischia di aumentare la storica incomunicabilità con gli Stati Uniti.
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Il fatto che Joe Biden abbia scelto una platea di giovani diplomatici del Dipartimento di Stato per il suo discorso sulla politica estera Usa, descrive il cambio di postura rispetto al suo predecessore. Trump nel suo analogo discorso si era rivolto ai simboli dell’hard power – Pentagono e Cia -, oggi l’ex vice di Obama ha deciso di mandare un messaggio di segno opposto, annunciando un “ritorno” della diplomazia.
L’altro segnale è la nomina di Robert Malley come inviato speciale per l’Iran: già protagonista dei negoziati sul nucleare iraniano conclusi con l’accordo del 2015, Malley è stato criticato dai parlamentari repubblicani, che lo descrivono come “empatico verso il regime iraniano e nemico di Israele” e ne hanno avversato la nomina, facendo eco anche alle preoccupazioni dell’Arabia Saudita e di Israele. Sebbene il nuovo Segretario di Stato Anthony Blinken abbia incaricato Malley di formare un team negoziale dalle sensibilità eterogenee, è evidente la volontà politica di recuperare una forma d’intesa con l’Iran. L’arte della diplomazia ha però tempi lunghi. Inoltre, necessita della decisione (politica) di stimolarla. Sulla strada di un nuovo accordo, Iran e Usa hanno quindi un problema di tempi e di modi.
Gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente il prossimo giugno. Dopo la netta vittoria alle scorse elezioni parlamentari – pur con un’affluenza molto bassa -, il fronte “conservatore” ha rafforzato la maggioranza in Parlamento, e si prepara a veder eletto un proprio candidato alla presidenza. Quella di Rouhani ha scontato da un lato la strategia della “massima pressione” di Trump, che ha polverizzato i benefici che un accordo – per cui si era speso molto sul piano interno – aveva prodotto; dall’altro, la nomina di alcuni Ministri conservatori nel suo secondo mandato, ha alienato molte simpatie dell’elettorato “riformista” a cui si era in parte rivolto.
L’idea che con un’amministrazione conservatrice, priva di una figura come l’attuale Ministro degli Esteri Javad Zarif (che porta in dote buone relazioni con le controparti europee), potrebbe essere più complesso negoziare, è sensata. Ma è utile ricordare che i primi colloqui Usa-Iran sul nucleare erano avvenuti in forma segreta in Oman, nel 2011, con un parlamento iraniano a maggioranza conservatrice e durante il secondo mandato di Ahmadinejad: un Presidente con posizioni oltranziste; inoltre, la politica estera iraniana dipende soprattutto dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, diviso tra la necessità di fare sintesi tra le fazioni del Majles (Parlamento) e le agenzie di sicurezza iraniane, e la sua sensibilità politica, vicina ad alti quadri conservatori dell’Irgc (Guardie della Rivoluzione islamica).
Nessuna intesa sarebbe stata raggiunta nel 2015 senza la disponibilità – con riserva – di questi attori. Il vero rischio legato al fattore temporale risiede soprattutto nel fatto che un nuovo accordo, se non concluso in tempi brevi, diventi un tema caldo della campagna elettorale, finendo per porre in stallo qualunque decisione, fino alla formazione del nuovo Governo. Ciò suggerirebbe all’amministrazione Biden di affrettare i tempi ma, come ricorda Akbar Shahid Ahmed su Huffpost, il neo Presidente deve fare i conti con l’opposizione dei “falchi” repubblicani al Congresso e con la loro profonda avversione per la diplomazia con l’Iran. L’idea, diffusa anche tra alcuni democratici, è che un troppo rapido ritorno all’accordo possa far apparire Biden debole agli occhi di Teheran.
Il rischio di una presidenza oltranzista in Iran potrebbe però tradursi in ostacoli tecnici. Sia Washington che Teheran hanno già accettato un meccanismo per ridare vita al JCPoA: quello della compliance for compliance. Washington recede dal proposito di usare le sanzioni reintrodotte da Trump come “leva” per ottenere delle concessioni da Teheran prima di un ritorno all’accordo; Teheran rinuncia invece a chiedere a Washington delle compensazioni per l’abbandono dell’intesa da parte di Trump. Con una presidenza conservatrice, e una situazione di stallo instabile come quella attuale, è possibile che i nuovi negoziatori iraniani tornino a rivendicare queste compensazioni. E sarebbe forse utile neutralizzare questa eventualità con la rimozione di sanzioni nei settori non legati all’industria nucleare, formalizzando la mossa come un “primo passo”.
Questo aspetto introduce la dimensione delle modalità. Come ha raccontato sul Time la baronessa Catherine Ashton – fino al 2014 alto rappresentante della politica estera Ue e protagonista dei colloqui tra Iran e 5+1 -, durante i negoziati per l’accordo del 2015 “gli iraniani erano consapevoli dell’ostilità dei repubblicani americani all’intesa, ed esprimevano spesso il timore che una nuova amministrazione statunitense l’avrebbe stracciata”. Un timore comprensibile non solo col senno di poi, visto il promesso e mantenuto abbandono del JCPoA da parte di Trump, ma anche in quel momento: è infatti viva nella memoria degli iraniani la “doccia gelata” del discorso sullo Stato dell’Unione del 2002 da parte di Bush Jr., nel quale inserì l’Iran nel celebre “Asse del Male”. Avvenne solo alcuni giorni dopo che il presidente iraniano e riformista, Mohammad Khatami, aveva prefigurato un “Grand Bargain” con gli Usa (aprendo anche lo spazio aereo iraniano agli strike americani contro i Talebani in Afghanistan), e pochi anni dopo che l’allora neo-capo delle Forze Quds dell’Irgc, Qassem Soleimani, aveva aiutato l’Alleanza del Nord contro i Talebani, condividendo alcune importanti informazioni logistico-militari.
Non è troppo lontano nemmeno quel che accadde ad inizio anni ’90. Il neo eletto George Bush nel 1989 annuncia la strategia del “goodwill begets goodwill”: chiede al Presidente iraniano Ali Akbar Rafsanjani aiuto nella liberazione dei rimanenti ostaggi americani presi da Hezbollah in Libano, promettendo in cambio la rimozione dell’Iran dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo, una ulteriore compensazione per l’abbattimento involontario da parte americana di un aereo di linea iraniano nel 1988, e la riduzione delle sanzioni. Gli ostaggi verranno liberati ma gli Usa non manterranno la promessa, adducendo per la prima volta una motivazione che risuonerà poi diverse volte, cioè “le attività di destabilizzazione regionale dell’Iran”. Tenere conto del livello di sfiducia accumulata dagli iraniani verso gli Usa, e in generale sforzarsi di considerare la percezione altrui, a prescindere dal potere negoziale, non è più eludibile, specie in seguito agli avvenimenti dell’ultimo anno, l’assassinio dello stesso Soleimani e poi dello scienziato Mohsen Fakhrizadeh.
“Per alcuni, in Occidente, un accordo efficace è quello che impedisca all’Iran anche di avere un programma nucleare civile; per altri, che l’Iran cambi la sua politica regionale”, ha aggiunto Ashton nel suo intervento. Questo è uno degli aspetti più delicati: la possibilità che alcuni attori spingano per un accordo che non si limiti al nucleare ma che includa altri argomenti come il programma missilistico, che per Teheran è una linea rossa della sua strategia di deterrenza. Malley ha chiarito che l’intenzione è circoscrivere l’intesa al nucleare, ed eventualmente renderla più solida e duratura, in modo da poter affrontare altri dossier in futuro, nell’ambizione di ristabilire un framework integrato di sicurezza regionale.
Biden ha già usato alcune espressioni nemiche della celerità: la posizione americana, infatti, è al momento quella della disponibilità a rientrare in un accordo dopo che l’Iran tornerà a rispettare i suoi obblighi (che imponevano di arricchire uranio al 3%, laddove Teheran è tornata ad arricchire al 20%). L’Iran ritiene questa posizione emblematica dell’ambiguità americana: Teheran ha in effetti smesso di adempiere ai suoi obblighi sul tetto all’arricchimento, ma lo ha fatto oltre un anno dopo il ritiro unilaterale Usa dall’accordo, accompagnato dalla immediata reintroduzione delle sanzioni. Non c’è quindi dubbio, tra le autorità iraniane, su chi debba fare quel “primo passo” in grado di innescare nuovamente la difficile arte della diplomazia: coloro che hanno fatto per primi un passo indietro.
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In condizioni normali basterebbero i dati sulla pandemia, e la sua emblematica marginalità nella scala delle preoccupazioni dei libanesi, per disegnare i tratti del dramma. In Libano – esteso come l’Abruzzo, 6 milioni di abitanti – si viaggia ormai da più di un mese sui 1500 nuovi positivi al Covid-19 al giorno, per un totale di più di 60mila casi: un ritmo al quale non sembra lontano il giorno in cui il coronavirus sarà entrato nel corpo di una persona su trenta. In condizioni normali sarebbe folle non disporre un lockdown totale ma di normale, qui, è rimasto ben poco, tanto da far sembrare la pandemia un’emergenza secondaria, gestibile con l’attenzione personale e blande misure. Non c’è più spazio per ulteriori ansie, che rimbalzano sul muro della disperazione.
Alla fine dello scorso luglio la Polizia libanese, nell’elencare l’aumento dei reati nel corso del 2020, riferiva di una nuova tipologia di furto: quello di pannolini, latte in polvere e medicine. Erano già tempi drammatici, con la pandemia in ascesa, una disoccupazione giovanile ben oltre il 40%, un tasso di povertà del 55% (28% un anno prima), un sistema bancario in decomposizione, una valuta a picco e un’inflazione annuale del 120%, che aveva conferito al Libano l’infausto primato di primo paese mediorientale a fare i conti con l’iperinflazione.
C’era stato un momento, a partire dal 28 ottobre del 2019, in cui il senso di rassegnazione a cui erano abituati e l’adrenalina della protesta interconfessionale iniziata dieci giorni prima – il 17 ottobre 2019 – avevano generato nei libanesi scesi in piazza una sorta di sollievo collaterale, nonché una spinta a non recedere dalle proprie posizioni, ostili all’intero establishment. La convinzione che, se era inimmaginabile star peggio di così, le dimissioni di Hariri annunciate quella sera di fine ottobre avrebbero finalmente inclinato il piano a favore del cambiamento. Quel momento è durato poco più di un mese: il tempo di capire che il quadro poteva invece anche peggiorare, anche con un nuovo governo “tecnico”, guidato dal professor Hassan Diab, nominato il 21 gennaio.
Due anni prima dell’inizio delle proteste, la sera del 4 novembre 2017, l’allora premier libanese Saad Hariri era comparso all’improvviso sulla tv emiratina di Al Arabiya. In diretta dalla capitale saudita Riyad, anche in quella occasione Hariri si era rivolto ai suoi connazionali per annunciare le dimissioni, poi ritrattate in seguito alla mediazione del Presidente francese Emmanuel Macron. Hariri, prigioniero de facto della monarchia saudita, era stato indotto a lasciare l’incarico dagli stessi Al Saud, per porre fine ad un esecutivo nel quale Riad ravvisava l’eccessivo peso di Hezbollah.
Un episodio che gettava l’ennesima luce sulla sovranità limitata del Libano: un Paese esposto al giogo di Paesi terzi, che promuovono agende inconciliabili tra loro attraverso la pressione sui partiti settari locali, che da un lato si ergono a rappresentanti delle loro comunità di riferimento e dall’altro agiscono da sponsor di questi attori regionali (Iran e Arabia Saudita in particolare). Il relativo disincanto, il disinteresse dei libanesi rispetto ad una pur così esplicita violazione della propria sovranità poteva essere un’avvisaglia dello sfaldamento in corso.
Non lo è stata perché la lente degli osservatori era impostata sul grandangolo – sul ruolo che il Paese rivestiva nelle strategie regionali di altri Paesi -, laddove quella dei libanesi era regolata sulla dimensione locale: il malgoverno, il clientelismo, la corruzione. Elementi che nutrono un sistema neopatrimoniale nel quale i partiti confessionali usano le risorse dello Stato non come beni pubblici ma come monete di scambio, per assicurarsi la fedeltà elettorale nelle loro constituencies.
Una democrazia parlamentare in coma profondo, malata di tutti i mali di cui può ammalarsi una democrazia – sfiducia della società civile, ingovernabilità, polarizzazione, normalità del voto di scambio, accountability quasi inesistente -, cui si aggiungono le conflittualità di un Paese che non ha mai attraversato una vera fase di riconciliazione post guerra civile, in cui lo Stato è in balia delle forze politiche confessionali a cui aveva delegato la gestione di un territorio cantonizzato.
Il fatto che il Libano non sia un regime o un’autocrazia militare tende paradossalmente a frammentare il quadro: non c’è un unico colpevole, perché colpevole è l’intero ambiente politico-sociale, un sistema di potere che fino al 17 ottobre 2019 è riuscito a vendersi presso la società civile come irrinunciabile garante del precario equilibrio interconfessionale. Partiti che rivendicano la tutela di diritti confessionali (“diritti dei cristiani”, “diritti dei musulmani”), mentre decine di migliaia di giovani invocano diritti universali, connessi alla cittadinanza, e dignità.
Il giorno delle dimissioni di Hariri da Riad, il Libano era già un Paese corrotto – tra i primi 50 più corrotti al mondo, secondo Transparency International -, estremamente diseguale, in cui l’1% della popolazione deteneva circa il 25% della ricchezza mentre il 30% viveva sotto la soglia di povertà, in cui l’accesso continuo alla corrente elettrica era un costoso optional per quasi tutti, tranne che per una ristretta cerchia di persone.
L’indomani delle dimissioni di Hariri di ottobre 2019 le banche libanesi riaprono i battenti, dopo due settimane di chiusura disposta per il timore di danneggiamenti. Con una novità: il controllo sui capitali, i limiti ai prelievi. I primi segnali di insolvenza di un sistema bancario che garantiva un esorbitante 15% sui depositi, in un’economia che non produce praticamente nulla, e che non cresce più da qualche anno. Da quel momento, un crollo inesorabile: il dollaro – agganciato alla lira con un cambio fisso di 1500 lire, sostenuto dalla Banca centrale – a novembre passa a 2000 lire libanesi; a dicembre alcuni facoltosi politici locali trasferiscono all’estero circa 6 miliardi di dollari.
Si formano lunghe code ai bancomat: chi prima era abituato a usare indifferentemente due valute è costretto a prelevare una minima parte in dollari per poi cambiarli in lire al mercato nero. Il dollaro tocca le 4000 lire a maggio e schizza ad 8000 a giugno. Il salario minimo reale passa da 450 dollari a poco meno di 80, mentre i prezzi aumentano fino al 70%. Forse per la prima volta, a Beirut si vedono libanesi rovistare nei cassonetti dell’immondizia. La polizia locale fa sapere che da gennaio ad agosto le rapine sono aumentate del 50%, e sono raddoppiati sia gli omicidi che i furti d’auto. La classe media si ritrova povera da un giorno all’altro.
Come se non bastasse, il 4 agosto al porto di Beirut esplodono 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio, da 7 anni parcheggiate in un deposito che dista 200 metri dal centro abitato. Poche settimane prima l’autorità portuale aveva fatto sapere che il volume di import che passava per il porto era crollato del 50% nel primo quarto del 2020. Nell’esplosione, che provoca quasi 200 morti, 6500 feriti, migliaia di sfollati e danni materiali per circa 2 miliardi di dollari, si “immolano” gli enormi silos di mais, grano e orzo situati a pochi metri dal deposito di nitrato.
Immolarsi è la parola giusta, visto che i silos (oltre cento metri di larghezza) avrebbero svolto la funzione di “ammortizzatori” dell’onda d’urto verso ovest, risparmiando dall’inferno quasi tutta la zona ovest della città. A caro prezzo: in pochi minuti svaniscono le scorte di cereali per 6 mesi. Dopo “Beirutshima”, il premier Diab si dimette usando toni spettrali, come se parlasse di un tumore incurabile: “Dicevamo che la corruzione era diffusa in tutti i gangli dello Stato. Poi ho scoperto la corruzione è più grande dello Stato stesso, che in essa è intrappolato e non sa liberarsene”. Il 1 settembre, dopo la doppia visita di Macron, a sorpresa viene designato Primo Ministro Moustapha Adib, ambasciatore a Berlino. Dopo venti giorni di conflitti tra le diverse forze politiche per l’assegnazione di alcuni ministeri, anche lui getta la spugna con parole sgomente: “chiedo scusa a tutti per non essere in grado di formare un Governo”.
Oggi il Libano si trova a vivere una “interminabile serie di dolori intrecciati”, come scrive Timour Azhari su Al Jazeera. A Tripoli, seconda città del Paese, più di una persona su due è disoccupata. Nel sud, gli scaffali dei supermercati rimangono vuoti per un numero sempre più alto di giorni consecutivi. In alcune zone del Libano qualche esercizio commerciale inizia a razionare la propria merce, come racconta Jad. “Sono andato a fare benzina e mi hanno detto che potevo mettere solo 25000 lire, e al tabaccaio del distributore mi hanno fatto comprare un solo pacchetto di sigarette. Andrà sempre peggio”.
Mentre l’ex premier Saad Hariri si dichiara nuovamente disponibile per un mandato, all’orizzonte del Libano c’è l’abisso della fine dei sussidi statali sulla benzina e sui medicinali. A partire da gennaio anche i prezzi degli ultimi beni fondamentali potrebbero schizzare alle stelle. Poi, non ci sarà quasi più nulla da perdere.
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