Cina: propaganda di Stato – L’inchiesta [Parte 2]
Non solo controllo della stampa interna, Pechino spende miliardi di dollari ogni anno per espandere la sua presenza mediatica internazionale e “raccontare bene la storia della Cina”
Non solo controllo della stampa interna, Pechino spende miliardi di dollari ogni anno per espandere la sua presenza mediatica internazionale e “raccontare bene la storia della Cina”
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Era il febbraio del 2016 quando il Segretario generale del Partito comunista cinese, nonché Presidente della Cina, Xi Jinping, fece una visita alle redazioni di tre organi di informazione nazionali: il Quotidiano del Popolo, l’agenzia di stampa Nuova Cina (Xinhua) e la Chinese Central Television (CCTV), la televisione di Stato nazionale. La visita, che non aveva precedenti, venne coperta come un grande evento da tutta la stampa nazionale, con l’entusiasmo che si deve mostrare quando il proprietario di casa fa una visita agli affittuari: non solo l’interezza della stampa cinese è censurata e controllata dal Governo, ma questi tre media in particolare sono direttamente sotto al Partito. Durante la visita, Xi non solo si era divertito a sedersi davanti ai microfoni di CCTV, ma era anche stato fotografato circondato da giornalisti e redattori adoranti, proprio come si farebbe con un capo capriccioso, che può licenziare da un momento all’altro e mettere davvero nei guai un lavoratore considerato insufficientemente fedele.
Una delle frasi che sono rimaste impresse nella memoria collettiva pronunciate da Xi nel corso di quella visita è che “tutta la stampa di cognome deve chiamarsi Partito” – grammaticalmente bizzarro, ma il concetto è chiarissimo a tutti. Se Xi Jinping si è mostrato molto deciso nell’aumentare il controllo su tutto – dalle Università a quello che succede a Hong Kong e Macao, passando per i libri di storia e le aziende che in teoria erano private, come Alibaba – e nel mettere sé stesso a capo di tutto, già prima del suo arrivo al potere il Partito aveva stabilito che il controllo delle informazioni era decisivo. Con Xi Jinping questa tendenza non ha fatto che aumentare. Se l’offerta sembra essere apparentemente sconfinata – fra siti web e canali televisivi, quotidiani e periodici cartacei o online – i contenuti sono invece autorizzati a muoversi all’interno di perimetri ben definiti.
La propaganda interna
Non si tratta solo di censurare, per quanto questo avvenga con abbondanza, ma anche di fornire quella che viene chiamata nel gergo della stampa cinese la “versione corretta degli eventi”. E di fare da gran cassa propagandistica: data la più recente tendenza ad accentrare tutto il potere nelle mani di Xi, ecco che anche la propaganda si ritrova a celebrarne le gesta con un’insistenza che non si era vista fin dai tempi di Mao. Molti osservatori dei media cinesi e della loro evoluzione conteggiano in modo regolare il numero di volte in cui i principali giornali riportano il nome di Xi in prima pagina, e si è, con crescente frequenza, a diverse decine di citazioni. Sulle versioni online dei giornali cinesi c’è un tasto per accedere ad articoli e materiali che consentono di “studiare il pensiero di Xi Jinping”, ma del resto qualunque pagina, forse con eccezione dello sport, ha foto e commenti di Xi riportati con la massima evidenza. Che la stampa cinese faccia Partito di cognome sembra ormai una certezza – ma di nome proprio, sempre più, sembra fare Xi Jinping.
L’ultima inchiesta pubblicata da Reportères Sans Frontières, l’organizzazione non governativa con sede in Francia che si occupa di monitorare la libertà di stampa nel mondo, ha stabilito il 20 aprile scorso che la Cina è al 177 posto per libertà di stampa: quartultima, seguita dal Turkmenistan, dalla Corea del Nord e dall’Eritrea. Che un Paese a così alto sviluppo economico possa essere a un così basso livello di libertà di stampa è chiaramente un problema. Come si è visto, per esempio, agli inizi della pandemia di Covid, i tentativi di dare l’allarme di alcuni medici di Wuhan sono stati soffocati sul nascere (e i medici sono stati prima detenuti e poi redarguiti, per quanto uno di loro, Li Wenliang, dopo essere stato detenuto ha contratto il virus ed è deceduto, per poi essere tramutato dalla stessa stampa che lo aveva zittito in un eroe nazionale).
Del resto, anche i gruppi editoriali che in passato erano riusciti a pubblicare inchieste coraggiose, e a spingersi fino ai limiti di quanto permesso, come per esempio il gruppo Nanfang Zhoumo, con sede a Guangzhou, e che era riuscito a lanciare un quotidiano nella capitale, il Beijing Ribao, hanno dovuto per così dire “rientrare nei ranghi” e, dopo innumerevoli direttive emanate dal Dipartimento della propaganda, accettare di pubblicare solo contenuti approvati. Questo non significa che non ci sia nulla di buono da leggere: Caixin, per esempio, che ha anche un’edizione limitata in inglese, è un periodico di economia e finanza che riesce, malgrado tutto, a pubblicare articoli interessanti con maggiori informazioni di quanto non ci si aspetterebbe, ma da alcuni anni si è di nuovo costretti ad allenarsi a leggere “tra le righe”, per cercare di capire quello a cui il, o la, giornalista allude, senza poterne parlare in modo aperto.
Non solo controllo della stampa interna…
Il controllo della stampa in Cina è completo – ma questo non basta. Pechino infatti, grazie anche al rispolvero ideologico del filosofo tedesco Carl Schmitt (inizialmente uno dei giuristi di Hitler, poi allontanatosi dal nazismo, ma che ha gettato le basi per un concetto di sovranità che si estende sia in senso geografico che ideale, e per aver coniato il concetto politico di “amici/nemici”, un po’ nel senso di “o con noi o contro di noi”, che limita ogni possibilità di dialogo), ha deciso che la sua sovranità sull’immagine della Cina deve essere estesa anche a quanto viene stampato altrove.
Questa è un’operazione nata prima dell’ingresso di Xi Jinping sulla scena: un documento del 2003 infatti mostrava revisioni significative agli scopi politici dell’Esercito popolare di liberazione, l’esercito cinese, con l’introduzione del concetto di una “guerriglia mediatica” che doveva diventare parte della strategia militare cinese. Otto anni dopo, questa strategia comincia a rendersi visibile.
Non solo i giornalisti che avevano ricevuto il permesso di lavorare in Cina vengono espulsi, qualora scrivano articoli dei quali il Governo e il Partito non sono soddisfatti, ma da alcuni anni ormai si assiste anche ad un’espansione globale dei mezzi di stampa cinesi, che portano avanti lo scopo dichiarato di Xi di “raccontare bene la storia della Cina” (intesa come racconto, non come storia antica). I quali, ricordiamo, non sono imprese commerciali come possono esserlo alcuni mezzi di stampa internazionali con edizioni in varie lingue (come la CNN) o servizi pubblici indipendenti (come la BBC), bensì un’estensione del Partito comunista. Così la Cina, tramite Xinhua, oggi fornisce notizie a molti Paesi internazionali – fra i quali l’Italia stessa, tramite l’agenzia nazionale di stampa Ansa, che ha una partnership con Xinhua che si occupa dell’interezza delle notizie della sezione Dalla Cina – date senza specificare che si tratta di un’agenzia di Partito.
Ma dall’Africa all’Australia, l’espansione dei media cinesi si estende a tutto il globo. La radio cinese, in diverse lingue, è presente in tutti i Paesi africani, e la Cina può usufruire delle leggi dei Paesi aperti, per lo più democrazie, che consentono a interessi stranieri di acquisire percentuali dei mezzi di stampa nazionali. Che si tratti del quotidiano Soleil senegalese o dell’interezza della stampa in lingua cinese australiana, con l’eccezione di un solo quotidiano. Nel 2009, un anno dopo le Olimpiadi di Pechino, quando le autorità cinesi erano ancora furiose per la parte di copertura giornalistica che era stata considerata negativa, la Cina annunciò di voler spendere 6.6 miliardi di dollari Usa per espandere la sua presenza mediatica internazionale. La televisione cinese ha aperto un canale in Africa – CCTV Africa, oggi chiamata CGTN Africa, da China Global Television Network – e ha anche canali in francese, spagnolo, arabo e russo.
Le operazioni europee, però, procedono meno bene: la sede europea di CGTN era a Londra, fin quando il servizio regolatore delle comunicazioni, Ofcom, ha reputato che fosse necessario revocare la licenza data alla CGTN di trasmettere dal Paese. Questo, dopo una protesta formale fatta dalle vittime delle confessioni forzate teletrasmesse e dai loro familiari, in cui veniva dichiarato che trasmettere confessioni forzate di prigionieri in attesa di processo smentisce la velleità giornalistica della rete televisiva, e ne dimostra la natura di organo di Stato. Questo è stato riconosciuto da Ofcom, e la CGTN sta ora spostando le sue operazioni a Parigi, dove la legge è diversa (e dove i prerequisiti per trasmettere dalla Francia sono utilizzare un satellite francese e trasmettere da suolo francese, per quanto altre leggi governino l’accettabilità di alcune trasmissioni). Ma le denunce sono spiccate anche a Parigi, e non è ancora chiaro quale sarà il futuro della CGTN in Europa.
Il caso di Hong Kong
Poi, c’è il caso di Hong Kong: il modo in cui la Cina ha deciso di controllare la stampa e l’editoria nella ex colonia britannica illustra al meglio come le cose sono cambiate in Cina, e come anni di azioni meno decisive sono ora stati sostituiti dalle maniere forti su tutta la linea.
La stampa di Hong Kong, malgrado l’occasionale censura di epoca coloniale, è sempre stata in netta contrapposizione con quanto avveniva in Cina, e anche è servita sia come osservatorio internazionale per seguire gli avvenimenti e gli sviluppi della politica cinese nei periodi in cui la Cina si rendeva scarsamente accessibile al resto del mondo, sia come terreno di riflessione e dibattito per la diaspora e il dissenso cinese. Ma con la crescita economica, le cose sono andate cambiando in fretta: Pechino ormai aveva il potere di imporre a chi voleva fare affari con la Cina di non fare pubblicità su periodici o quotidiani che si ponessero in opposizione con il Partito. Così, molti investitori che avevano spostato da Hong Kong alla Cina le loro fabbriche sapevano di non poter fare pubblicità sul settimanale più venduto di Hong Kong, Next Magazine, o sul quotidiano più popolare di Hong Kong, l’Apple Daily, entrambi fondati dall’imprenditore Jimmy Lai, uno nel 1990 e l’altro nel 1995.
Negli anni Novanta, mentre Pechino si apprestava a riprendere il controllo su Hong Kong (con il passaggio di sovranità dalla Gran Bretagna alla Cina avvenuto nel luglio del 1997) e l’economia cinese aveva consolidato la sua crescita economica a tutta velocità, una serie di acquisizioni dirette e di ingressi nei quotidiani di Hong Kong di persone maggiormente legate alla Cina continentale hanno contribuito a domare parte della stampa locale. L’attenzione di Pechino verso le informazioni però era già presente sia a livello di una forte presenza di media con funzione politica – per esempio, la sede di Hong Kong dell’Agenzia Xinhua aveva anche funzioni di ambasciata non-ufficiale cinese durante il periodo coloniale – sia tramite due quotidiani, il Wen Wei Pao e il Ta Kung Pao, direttamente controllati da Pechino, ed ora entrambi sotto l’Ufficio Centrale di Collegamento, o Liaison Office, la massima autorità di Pechino a Hong Kong che, fra le altre cose, controlla anche la maggior parte delle librerie e, per l’appunto, i due quotidiani. Anche in questo campo però l’arrivo di Xi Jinping al potere, non a caso accompagnato dalle lunghe proteste e manifestazioni a Hong Kong, ha cambiato le carte in tavola, e messo in gioco quella che sembra essere una quantità inesauribile di fondi per controllare le informazioni che circolano a Hong Kong.
L’unico canale televisivo gratuito è TVB, acquistato dall’ex direttore del Comitato Municipale del Partito comunista di Shanghai, Li Ruigang. Li ha acquisito il controllo pieno di TVB tramite alcune operazioni non interamente regolari quando sono avvenute, nel 2015 (dato che non rispettavano la regola che limitava ai cittadini di Hong Kong l’acquisto di quote di controllo di un canale televisivo) ma che non sono state considerate problematiche dal governo di Hong Kong. Contemporaneamente, con il passaggio della draconiana legge sulla Sicurezza Nazionale, il 30 giugno del 2020, il servizio radiofonico pubblico Radio Television Hong Kong, o RTHK, fondato sulla falsa riga della BBC (ovvero, un servizio pubblico editorialmente indipendente) sta venendo stravolto, con l’ingresso di nuovi direttori editoriali del tutto digiuni di giornalismo ma dalla provata fedeltà politica. Almeno due giornalisti di RTHK sono stati licenziati, altri sono stati detenuti, per aver prodotto documentari di inchiesta sulle possibili collusioni fra la polizia e la criminalità organizzata, o per aver posto domande troppo dirette al Capo dell’Esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, nel 2019, nel corso delle manifestazioni pro-democrazia che scossero Hong Kong.
Il ruolo di Hong Kong di finestra del mondo sulla Cina è quasi interamente smantellato: la difficoltà a ottenere visti per i giornalisti internazionali – introdotta dopo le manifestazioni del 2014 – fa sì che le sedi asiatiche di quotidiani importanti come il New York Times abbiano deciso di spostarsi a Seul, mentre corrispondenti che continuano a coprire la Cina si ritrovano oggi a farlo da Taiwan. Ora, stiamo assistendo all’attacco finale nei confronti di Apple Daily: Jimmy Lai è attualmente in carcere, per aver preso parte a manifestazioni non autorizzate, e in attesa di altri nove processi, tutti legati alle sue attività politiche considerate ora illegali stando ai termini della nuova legge sulla sicurezza nazionale. Nel frattempo, attacchi sempre più violenti al quotidiano da parte dei giornali portavoce del Governo di Pechino, Wen Wei Bao e Ta Kung Pao, fanno temere che le autorità siano prossime a ordinare la chiusura del gruppo Next Media.
Proprio il 19 aprile il cerchio, in un certo senso, si è chiuso: l’ex Primo Ministro cinese, Wen Jiabao, aveva pubblicato un articolo in commemorazione di sua madre, pochi giorni dopo il suo decesso ma le parole dell’ex premier – fra cui che la Cina dovrebbe essere un Paese giusto – sono state censurate il giorno dopo. Nel caso in cui qualcuno, in qualche parte del mondo, avesse voluto leggere quel dovrebbe come una critica a Xi Jinping.
Se ti interessa l’argomento, scopri il nostro Workshop di Geopolitica sulla Cina.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Non solo controllo della stampa interna, Pechino spende miliardi di dollari ogni anno per espandere la sua presenza mediatica internazionale e “raccontare bene la storia della Cina”
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