Il barbaro omicidio dell’Ambasciatore Attanasio. Perché?
La dedizione alla propria missione e la generosità professionale ed umana di Attanasio spiegano la sua presenza in una regione considerata ad alto rischio. La domanda che si fanno tutti è: si poteva evitare? Il commento del Direttore
Chi era Luca Attanasio
L’Ambasciatore Luca Attanasio era nato a Saronno, in provincia di Varese, ed era sposato con Zakia Seddiki, fondatrice e presidente dell’associazione umanitaria Mama Sofia a sostegno delle donne in Africa, conosciuta in Marocco durante il suo impegno professionale nel Paese. Padre di tre bimbe, insieme alla moglie, con la quale condivideva l’attenzione verso i meno fortunati, lo scorso 12 ottobre aveva ricevuto il premio internazionale Nassiriya per la Pace. In quell’occasione disse, purtroppo profeticamente: “Quella dell’ambasciatore è una missione, a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio”. Laureato alla Bocconi con il massimo dei voti, nel 2001, aveva vinto il concorso in diplomazia e, nel 2004, era entrato nella segretaria particolare del Sottosegretario Mantica, dove aveva sviluppato la sua passione per l’Africa. Dal 2006, inizia i suoi 8 anni all’estero, prima in Ambasciata a Berna e poi al Consolato di Casablanca. Dopo due anni alla Farnesina, era tornato nel 2015 in Africa, in Ambasciata ad Abuja, in Nigeria. Da settembre 2017, Ambasciatore a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, tra i più giovani Capi missione in carriera. Alfredo Mantica, suo mentore e politico esperto di relazioni internazionali, con un focus su Africa e Cooperazione, ha raccontato ieri in TV che l’umiltà, la generosità, la passione e le capacità professionali di Luca Attanasio erano fuori dal comune. Concludiamo questo ricordo di Luca con un appello alla Farnesina: stiamo vicini alla sua famiglia e cogliamo quest’occasione per ripensare definitivamente il ruolo dei/delle consorti dei diplomatici. La nostra regolamentazione continua a penalizzare, ormai ultima a resistere tra i Paesi occidentali, l’impegno professionale dei coniugi, che andrebbe non scoraggiato, semmai incentivato, per evitare che tragedie come questa rendano ancora più drammatico non solo il presente, ma anche il futuro dei familiari a carico.Si poteva evitare?
Certamente, la fatalità ha giocato un ruolo determinante nella tragedia di Virunga, e la generosità di Attanasi lo ha portato a svolgere la sua missione in un’area del Paese infestata da violenze di ogni tipo, con intraprendenza non comune. Il convoglio targato Nazioni Unite-Pam, pur senza una scorta targata UN, avrebbe dovuto costituire una garanzia, peraltro con il supporto di un militare esperto come il carabiniere Iacovacci. Così non è stato, purtroppo. Pur in questa giornata dominata dal dolore e dalla tristezza non possiamo non ricordare che la nostra politica estera, da anni, risente di obiettivi sproporzionati rispetto alle risorse disponibili e questo squilibrio impatta sull’efficienza della nostra rete diplomatica, che deve spesso affidarsi al coraggio e alla abnegazione dei nostri Ambasciatori che, con il loro sacrificio quotidiano, provano a sopperire alla carenza strutturale di risorse. Qualche volta è sufficiente, ma spesso non lo è, e resta il drammatico dubbio che in questo caso, la disponibilità di una scorta armata più corposa potrebbe aver salvato la vita del nostro Ambasciatore. Senza alcuna polemica, lasciamo questa riflessione sul tavolo del Ministro degli Esteri e del Presidente del Consiglio, onde evitare, nei limiti del possibile, che simili tragedie si ripetano.Il Direttore
L’attacco terroristico contro un convoglio del Programma alimentare mondiale (Pam) delle Nazioni Unite, in cui è rimasto ucciso l’Ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, il giovane carabiniere Vittorio Iacovacci, addetto alla sua scorta, e l’autista congolese Mustapha Milambo, finora non è stato rivendicato da nessuno della miriade di gruppi armati attivi nelle turbolente provincie orientali della Repubblica democratica del Congo.
Tuttavia, il vice premier e Ministro dell’Interno congolese Gilbert Kankonde Malamba ha dichiarato che la responsabilità dell’attacco sia ascrivibile ai ribelli delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (FDLR), che però hanno rapidamente smentito il loro coinvolgimento e rimandato le accuse al mittente, dichiarando che l’attentato sarebbe avvenuto “non lontano” da una postazione delle forze armate della Repubblica democratica del Congo (FARDC).
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