Il Brasile è considerato l’ago della bilancia in America Latina in relazione al sostegno o meno dei governi di sinistra in conflitto con gli Usa. Verso i quali però non c’è più la condiscendenza del passato da parte della sinistra latinoamericana.
Il ministro degli esteri del Brasile, Mauro Vieira, ha annunciato lo scorso 8 agosto l’espulsione dell’ambasciatrice del Nicaragua a Brasilia, Fulvia Patricia Castro Matus, in risposta all’espulsione dell’ambasciatore brasiliano a Managua, Breno de Souza da Costa, ordinata dal presidente Daniel Ortega e avvenuta poche ore prima. Il rappresentante del governo Lula in Nicaragua, avrebbe ricevuto l’ordine – non ufficiale – di abbandonare il paese a fine luglio, per non esser stato presente in occasione delle celebrazioni del 45º anniversario della Rivoluzione Sandinista lo scorso 19 luglio.
Le relazioni tra i due paesi, in ogni caso, erano già molto fredde dall’ottobre del 2023, quando Lula accettò la richiesta di Papa Francesco per mediare in favore dell’Arcivescovo di Metagalpa, Rolando Álvarez, arrestato dal governo di Ortega con l’accusa di sedizione. Da allora, sostengono fonti diplomatiche, tra i due presidenti, in passato alleati, non ci sono stati più contatti diretti.
La crisi col Nicaragua mette in evidenza un nuovo profilo del governo Lula, a capo della principale potenza a livello regionale ed in passato molto più condiscendente coi governi in aperto conflitto con gli Usa e l’Unione Europea. Durante il suo primo periodo come presidente (2003-2011) infatti allacciò stretti rapporti coi governi di Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, Raúl Castro a Cuba e lo stesso Ortega in Nicaragua, pur non entrando a far parte dell’alleanza strategica proposta da Caracas in aperto contrasto nei confronti degli Usa, l’ALBA-TCP.
La buona sintonia tra il settore più moderato della sinistra latinoamericana capitanato da Lula – e sostenuto dai coniugi Kirchner in Argentina, da José “Pepe” Mujica e Tabaré Vázquez in Uruguay e Fernando Lugo in Paraguay – e quello più estremo guidato da Chávez, aveva permesso negli anni d’oro del progressismo latinoamericano il consolidamento di una struttura istituzionale ordinata e solida per la proiezione internazionale della regione. La nascita della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur), e l’allargamento del Mercato Comune del Sud (Mercosur) a Bolivia e Venezuela ne sono una testimonianza.
Il Brasile, attraverso la propria Banca Nazionale per lo Sviluppo (Bndes), assieme a diverse aziende private (tra cui la tristemente celebre Odebrecht), e col sostegno finanziario del petrolio venezuelano e gli investimenti cinesi, aveva posto le basi per un progresso regionale tradotto ben presto in autostrade, porti e piani di sviluppo. Ma l’ondata conservatrice che ha investito il continente a partire dal 2016 (con l’avvento dei governi di Macri in Argentina, Bolsonaro in Brasile, Lacalle Pou in Uruguay, Moreno in Ecuador, Piñera in Cile e Trump negli Usa), e il crollo dei prezzi globali delle materie prime post crisi finanziaria del 2008, hanno stroncato rapidamente la primavera sudamericana. Il ritorno di Lula nel 2022 e di una nuova generazione di governi progressisti in America Latina sembrava riproporre il clima di sintonia e sostegno mutuo nella sinistra latinoamericana, ma ben presto è risultato evidente che l’armonia di inizio secolo è oggi improponibile.
Tra i primi a mostrare forti critiche nei confronti di governi come Cuba, Nicaragua e Venezuela nella sinistra latinoamericana è stato il presidente cileno Gabriel Boric, che già dai primi giorni della sua presidenza si è smarcato dal discorso accondiscendente che la sinistra latinoamericana ha nei confronti di questi paesi, provocando anche serie polemiche nella coalizione di governo. Ma la cartina di tornasole che ha messo pienamente in luce la revisione di certe posizioni storiche della sinistra latinoamericana è rappresentata sicuramente dal risultato delle elezioni presidenziali in Venezuela dello scorso 28 luglio.
La polemica sorta attorno ai verbali elettorali mai pubblicati dal Consiglio Elettorale, che ha proclamato la rielezione di Nicolás Maduro senza però presentarne le prove, ha portato molti alleati storici del chavismo su posizioni più critiche. I governi di Nicaragua, Cuba e Bolivia, assieme a Russia, Cina e Iran, hanno riconosciuto immediatamente la vittoria di Maduro. Ma i presidenti di Cile, Brasile, Colombia e Messico non si sono ancora pronunciati in merito, e hanno lanciato una strategia diplomatica, sostenuta dalla Casa Bianca, per trovare una soluzione pacifica alla crisi venezuelana. L’obiettivo è quello di ripristinare il dialogo tra governo e opposizione, e arrivare alla pubblicazione di un risultato trasparente. Ma Boric, Petro, Lopez Obrador e soprattutto Lula, non possono scartare a priori che tale procedura eviti l’unica opzione inaccettabile per Maduro, una transizione di governo.
Un contrasto reso possibile soprattutto dal consenso, generato tra le fila della sinistra latinoamericana, sulla condanna verso qualunque tentativo di giocare sporco da parte del governo venezuelano. Alle critiche poco celate di Lula contro la gestione della situazione post elettorale da parte di Maduro, si aggiungono quelle del presidente della Colombia, Gustavo Petro, del presidente uscente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, della presidente eletta del Messico, Claudia Sheinbaum, del presidente del Cile, Gabriel Boric, dell’ex presidente cilena Michelle Bachelet e dell’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner.
Lula sa che però deve avanzare con estrema cautela se vuole garantire un risultato positivo alla propria strategia. La titubanza di Brasilia, secondo i detrattori di Lula, è in realtà un salvagente lanciato a Maduro per permettergli di vantare ancora certa legittimità internazionale. Sul fronte interno, l’opposizione critica aspramente la tendenza del governo brasiliano di astenersi dal condannare enfaticamente le azioni di determinati governi, come nel caso della Russia di Putin.
Eppure Lula è cosciente di essere un tassello fondamentale per le potenze occidentali nella relazione con governi ostili. Si tratta della potenza media capace di definire se Caracas si getterà completamente nelle braccia di Russia, Cina e Iran, o se manterrà quella via di mezzo in cui naviga sin dall’introduzione delle prime sanzioni da parte del governo di Barack Obama nel 2016.
Una rottura definitiva col Brasile di Lula, e dunque con la maggior parte del sistema latinoamericano, porterebbe senz’altro Maduro sulla strada dell’isolamento “alla Ortega” sul piano internazionale, e alla consolidazione dell’asse con Pechino e Mosca – come d’altronde sta già facendo il Nicaragua -. La situazione di Lula, dunque, è tutt’altro che semplice, e l’allontanamento da Managua dà sicuramente un indizio del fatto che esistono limiti che il Brasile di Lula non è disposto a superare. Quel che sembra a molti un eccesso di pragmatismo, o peggio ancora un sostegno verso autocrati e dittatori, è in realtà un difficilissimo equilibrio basato sul principio tutto latinoamericano del “non allineamento attivo”, volto ad approfondire i lacci con il mondo non-occidentale e l’equidistanza nei conflitti internazionali, privilegiando le istanze di risoluzione regionali delle controversie.
La situazione attuale è propiziata inoltre dall’incerto clima elettorale imperante negli Stati Uniti, che porta la Casa Bianca a voler evitare di fare nuovi passi falsi sul dossier Venezuela, delegando a Lula la gestione della soluzione diplomatica. Le situazioni in Nicaragua e in Venezuela dunque parlano chiaro dell’indirizzo che sembrerebbe voler intraprendere la sinistra latinoamericana, molto più impegnata su fronti più ostici per i governi di Maduro e Ortega come il femminismo o lo sviluppo sostenibile. La visione classica, legata ancora a logiche da Guerra Fredda, non solo allontana le sinistre latinoamericane dagli elettori, ma ora le isola nell’assetto regionale e internazionale. Questo Lula sembra averlo capito.
Le relazioni tra i due paesi, in ogni caso, erano già molto fredde dall’ottobre del 2023, quando Lula accettò la richiesta di Papa Francesco per mediare in favore dell’Arcivescovo di Metagalpa, Rolando Álvarez, arrestato dal governo di Ortega con l’accusa di sedizione. Da allora, sostengono fonti diplomatiche, tra i due presidenti, in passato alleati, non ci sono stati più contatti diretti.