La rielezione di Mattarella certifica l’autodistruzione del populismo. Il sì al bis è stato l’ennesimo passo verso la trasformazione del M5S e l’emancipazione della Lega dal salvinismo
Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica per la seconda volta, come già successo nove anni fa con Giorgio Napolitano, ma a differenza del bis del 2013 il secondo mandato di Mattarella non è stato originato dal collasso inebetito del sistema politico, bensì dal completamento d’un fenomeno in atto già da qualche anno: l’autodistruzione del populismo che aveva vinto napoleonicamente le elezioni quattro anni fa. Quel ben noto fenomeno gialloverde che era riuscito, con il Conte uno e l’alleanza tra Lega e M5S, ad arrivare addirittura al governo del paese.
Questa legislatura infatti, figlia del terremoto politico del 4 marzo 2018, era cominciata con la nascita di un governo formato da due partiti che parlavano apertamente di uscita dall’euro (la Lega) e che proponevano l’impeachment del presidente della Repubblica (il M5s) per aver impedito la nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, l’uomo del “Piano B” per l’Eurexit. Il fatto rilevante, insomma, è che la legislatura iniziata con tali premesse si è poi avviata alla sua conclusione con quegli stessi partiti senza briglia che stavolta, però, appoggiano un governo presieduto dal presidente della Bce, Mario Draghi, e rieleggono Mattarella (quello dell’impeachment) al Quirinale.
L’Italia si avvia dunque alla chiusura di questa singolare legislatura avendo ribaltato l’agenda antieuropeista, e avendo ribaltato anche (o quasi) gli stessi movimenti politici che quell’agenda l’avevano scritta. E tutto ciò è avvenuto nel segno della stabilità incarnata dal duo Draghi-Mattarella, segnando una crisi delle alleanze politiche fin qui conosciute e aprendo inoltre alla crisi – lenta ma forse inevitabile – non solo dell’agenda populista in sé ma anche dei due leader populisti che quell’agenda l’avevano interpretata da protagonisti: Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Entrambi infatti, nei giorni decisivi in cui si decidevano le sorti del Quirinale, hanno fatto di tutto per creare le condizioni perfette non solo per impedire a Mario Draghi di spostarsi da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica (missione compiuta) ma anche per tentare in tutti i modi di avere un capo dello stato capace di indebolire l’attuale maggioranza di Governo. E dunque anche il presidente del Consiglio. Missione, questa, strafallita. Con considerevoli conseguenze.
L’aspetto da sottolineare è che si tratta di un colpo probabilmente fatale per entrambi i leader populisti, già periclitanti nei rispettivi partiti. Sia per Salvini, ancora non apertamente contestato nella Lega ma sempre più percepito come un problema dal pragmatismo nordista storicamente fortissimo nel Carroccio, sia per Conte, che non è riuscito a trasformare il M5S desertificato nelle urne in un partito vero in grado di sopravvivere alla liquidazione del vaffa come programma politico.
Tutto è iniziato il 24 gennaio. All’alba della prima votazione per il Quirinale. A tarda sera infatti, quando le trasmissioni televisive erano ormai finite, quando tutti gli ospiti, i commentatori e gli specialisti dell’intrattenimento quirinalizio se n’erano andati a letto, ecco che Matteo Salvini era invece ancora lì, elettrico, per strada, agitatissimo a Roma tra via della Missione e piazza Montecitorio, a un passo dal Parlamento, circondato dagli ultimi cronisti disfatti dal sonno. “La notte è giovane”, diceva ai giornalisti, degli zombi. “Tenete i telefonini accesi”. Ebbene, per i successivi sei giorni il segretario della Lega avrebbe dato vita alla più sbagliata, inconsulta e a tratti contraddittoria girandola di possibili ed eventuali presidenti della Repubblica che l’Italia abbia mai visto in settantacinque anni di storia democratica. Un reality show. Tirando acqua al suo mulino, spesso però secondo misteriosi calcoli e rimbalzi. Forse non del tutto calcolati, per la verità.
Di sicuro con una furia al confine con la disperazione. Voleva infatti dare l’impressione d’essere il direttore d’orchestra con la bacchetta in mano. Diceva “lavoro per voi”. Quindi inondava i cellulari dei cronisti di ogni suo più minuscolo atto, movimento, pensiero. Ma l’unica impressione diffusa era quella di un attivismo tanto compulsivo quanto fine a sé stesso. Una corsa sul posto. Il massimo del movimento con il minimo dello spostamento. Come se il segretario della Lega, ancora una volta, confondesse rappresentazione e rappresentanza. Che è la sua maledizione. “Sembra X Factor”, sfotteva infatti Matteo Renzi, osservandolo. “Ore 8.12 Matteo Salvini è arrivato alla Camera”; “ore 9 Matteo Salvini proporrà persona di alto profilo”; “ore 12 Matteo Salvini telefona a Berlusconi”; “ore 15.13 Matteo Salvini smentisce di avere incontrato Cassese”; “ore 17 Matteo Salvini sta vagliando professori e avvocati”; “ore 20 Matteo Salvini proporrà una donna al Quirinale”… Al termine di questa girandola stordente, Salvini è finito col centrare un risultato probabilmente positivo per l’Italia, quasi inciampandoci: ha permesso la rielezione di Mattarella. Sì. Ma nel farlo, col suo “metodo”, si fa per dire, è finito col mettere su un filotto impossibile. Incredibile. Una cosa che non gli sarebbe riuscita nemmeno se avesse voluto.
In soli sei giorni, tra il 23 e il 29 gennaio 2022, il segretario della Lega è per l’appunto riuscito a far saltare in aria la coalizione di centrodestra, a rafforzare la sua avversaria interna Giorgia Meloni, e a spaccare la Lega spingendo Giancarlo Giorgetti alla minaccia di dimissioni. Dopo sei giorni di fuoco e iperattivismo, dunque, il 29 gennaio, lo si vedeva apparire in un angolo del Transatlantico poco dopo le dieci del mattino. Il volto provato nascosto a metà dalla mascherina, le spalle ricurve, lo sguardo perso. Non era più il king maker, il direttore d’orchestra con la bacchetta in mano. Nessuna spavalderia. Anzi. Tutto il contrario. “Mi fate prendere un caffè?”, diceva cercando di divincolarsi dai cronisti. Poi, cercando la via per la buvette, eccolo esalare la frase che avrebbe segnato la svolta: “Chiediamoci se non sia il caso di chiedere al presidente uscente di accettare un reincarico”. Bum!
Gli accidenti avevano preso per lui una piega talmente surreale, che alla fine s’era rassegnato a intestarsi l’unica opzione che il suo vice, Giorgetti, gli suggeriva di evitare: il Mattarella bis. “Perderesti la faccia”, gli diceva quello. E in effetti… Ma Salvini quella scelta l’aveva presa perché non sapeva più come uscire dallo gnommero Quirinale nel quale s’era incastrato. L’ultima strambata notturna, infatti, decisa d’intesa con Giuseppe Conte, appena dodici ore prima, lo aveva trascinato in un vicolo cieco. Disperato. I due s’erano messi in testa di elevare al soglio laico del Quirinale il capo dei servizi segreti, Elisabetta Belloni. E avevano apparentemente convinto Enrico Letta a dire di sì. Ma non avevano fatto i conti con Luigi Di Maio, Matteo Renzi e con tutto il resto del Partito democratico, in particolare con Dario Franceschini e Lorenzo Guerini (compreso chissà anche Letta, che forse in realtà non era affatto convinto). Dunque erano a andati a sbattere, Salvini e Conte. Rumorosamente. Definitivamente. “Due furboni”, se la rideva proprio in quelle ore Luigi Di Maio, che aveva giocato tutta un’altra partita. Vincendola. Dimostrando, ancora una volta, l’inconsistenza di Conte, suo avversario se non addirittura nemico all’interno del M5S.
Il leader del partito di maggioranza relativa, Conte, l’uomo che insomma avrebbe dovuto essere decisivo per l’elezione del capo dello stato, non era riuscito nemmeno a giocarla quella partita. Non l’aveva nemmeno iniziata. Flop. Appena qualche ora prima della marcia indietro di Salvini, in un controtempo surreale, Conte aveva imbastito un comizietto fuori l’ingresso dei gruppi parlamentari, in via della Missione: inneggiava alla certezza di avere un presidente donna. La Belloni, appunto. Eppure, mentre parlava, l’ipotesi Belloni stava già tramontando. E lui era l’unico a non saperlo. Quando non si ha una identità culturale precisa e comprensibile si sfoderano i simboli pensando che essi possano mascherare l’inconsistenza politica. L’inizio della fine per il leader inconcludente di un M5s passato in quattro anni dal 30% dei voti al 10%, o forse addirittura meno.
Dunque ecco la crisi del populismo certificata dall’elezione di Sergio Mattarella. Ecco la crisi dei suoi leader, degli uomini che ne avevano incarnato il climax ascendente nel 2018: il piano B per uscire dall’euro e i minibot di Claudio Borghi, il reddito di cittadinanza e quota cento, le allegre gite a Mosca e la Cina sempre più vicina, la guerra alle Ong e la Bce usuraia. Nessun dubbio, nessuna moderazione ammessa. Tutto questo era già scomparso, ma il meccanismo della rielezione di Mattarella ne segna la crisi definitiva. La scomparsa dall’orizzonte. Come ipotesi di futuro. Crisi del populismo, quindi. Ma non la crisi della Lega, attenzione, che rimane insediamenti, tessere, nativismo settentrionale e voti nel nord produttivo del paese. Bensì la crisi di un modo di guidare (secondo qualcuno con una mano sola) la politica italiana. La crisi di un complesso fenomeno che, tra malumori popolari e sparate pirotecniche nei Palazzi e in Parlamento, s’era impadronito del paese intero. Delle sue fantasie malate. E delle sue istituzioni. Perché se si decide di non avere i paraocchi, il sì al bis di Mattarella è stato l’ennesimo faticoso passo verso l’annientamento del M5s e verso l’emancipazione della Lega dal salvinismo. Fenomeno lento, ma progressivo.
A questo proposito vale forse la pena qui di ricordare cosa diceva di Mattarella il Salvini di prima, quello spavaldo e in ascesa, appena qualche anno fa. Era il 2015: “Il cattocomunista Mattarella presidente? Fondatore dell’Ulivo, vice di D’Alema, ministro con De Mita. E giudice di quella Corte costituzionale che ha fregato agli italiani il referendum per cancellare la legge Fornero. Se Berlusconi e i suoi lo votano, cosa diranno ai loro elettori? Mattarella non è il mio presidente”. Come ben si capisce allora, l’aver votato Mattarella è stato un passo che non può non essere messo in fila con una serie di altri passi compiuti a fatica dalla Lega nell’ultimo anno. Con Salvini, o meglio malgrado Salvini. Il sì al governo Draghi (“sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”), il sì al Recovery Plan (dopo aver votato contro in Europa), il sì al Green Pass (e anche al super green pass), il sì all’obbligo vaccinale (per gli over 50).
Il Movimento 5 stelle si è annientato da solo, nel Palazzo e nelle urne. Resisterà qualcosa, probabilmente, in un rapporto ancillare con la sinistra. Ma la Lega è un’altra storia. E se rimane vero che Salvini non è probabilmente la persona più adatta a superare definitivamente la stagione del salvinismo, resta il fatto che la rielezione di Mattarella – e il modo in cui è avvenuta: per umiliazione delle scelte compulsive del segretario leghista – è un sì che evita di condannare automaticamente la Lega a un futuro populista. Si vedrà. Salvini esce indebolito, questo è sicuro. La Lega no. E il futuro del centrodestra, e della prossima legislatura, passa anche da qui. Un futuro che resta schiuso a misteriose promesse, certo. Ma nessuno ora può escludere che il Parlamento del 2023 porti con sé la riconferma di Mario Draghi a Palazzo Chigi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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Questa legislatura infatti, figlia del terremoto politico del 4 marzo 2018, era cominciata con la nascita di un governo formato da due partiti che parlavano apertamente di uscita dall’euro (la Lega) e che proponevano l’impeachment del presidente della Repubblica (il M5s) per aver impedito la nomina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, l’uomo del “Piano B” per l’Eurexit. Il fatto rilevante, insomma, è che la legislatura iniziata con tali premesse si è poi avviata alla sua conclusione con quegli stessi partiti senza briglia che stavolta, però, appoggiano un governo presieduto dal presidente della Bce, Mario Draghi, e rieleggono Mattarella (quello dell’impeachment) al Quirinale.