L’instabilità politica e sociale del Nord Africa è una polveriera in attesa solo di un innesco e rappresenta un pericolo ampiamente annunciato del quale l’Europa non si sta occupando
In piedi i dannati della terra – in piedi i forzati della fame… Sono i versi iniziali dell’Internazionale Socialista, e anche se di socialismo è ben difficile parlare nel mondo arabo mediterraneo dopo una serie di esperimenti post coloniali − primo fra tutti quello di Nasser − partiti con le bandiere al vento e finiti invariabilmente nel cesarismo più sfrenato, pur tuttavia le condizioni di quella parte di mondo stanno progressivamente e inesorabilmente peggiorando al punto tale da rendere possibile a breve o media scadenza un’esplosione di dimensioni epocali.
Si tratta di una condizione che il Mediterraneo arabo, specie quello nord africano, condivide in fondo con l’intero Continente Nero in cui negli ultimi decenni la presenza europea, che era forse neo coloniale ma che a conti fatti arrecava molto più di quanto non portasse via, è stata progressivamente sostituita da altre presenze che dopo un ingresso in area, a volte, dolce stanno adesso rapidamente evidenziando il loro lato più rapace e privo di scrupoli. L’intero mondo africano, nella sua sconfinata vastità, è probabilmente troppo ampio perché noi pensiamo di potercene fare carico da soli, e meriterebbe quindi un interessamento su scala mondiale, gestito magari dalle Nazioni Unite.
Il mondo arabo, anche se esteso sino al Sahel, è invece caratterizzato da una popolazione di dimensioni molto più ridotte ed è altresì quello con cui la nostra Europa ha la maggiore comunione. Una comunione fatta di vicinanza, di contatti, di storia e di cultura condivise, di speranze spesso comuni, di una strada insomma che per secoli è stata una strada percorsa insieme. Sarebbe quindi abbastanza logico il fatto che in un momento come quello attuale, caratterizzato soprattutto da scarsità di risorse, le nostre residue disponibilità eccedenti venissero incanalate proprio in quella direzione, se non altro anche per tenere fede ai decenni di promesse durante i quali la nostra attenzione è stata rivolta soprattutto al nord est europeo mentre a chi attendeva il nostro aiuto a sud è stato raccomandato di pazientare, in attesa di un momento che sino ad ora non è ancora arrivato.
Le primavere arabe
Non vi è da stupirsi quindi del come, allorché l’attesa ha cominciato a farsi troppo lunga, il sud sia già esploso una prima volta con una serie di rivoluzioni anarchiche che, partite come rivoluzioni del pane hanno poi assunto connotazioni politiche ben precise finendo con l’essere collettivamente indicate come Primavera Araba. Se si guarda indietro, a distanza di parecchi anni, può ora sembrare che si sia trattato di rivolte inutili, e perché esse si sono più o meno tutte concluse con restaurazioni estremamente restrittive nel settore delle libertà politiche e individuali e perché nessuna è riuscita a migliorare sensibilmente le condizioni di vita nei Paesi interessati. Nel contempo però vi è da considerare come esse abbiano lasciato dietro di sé un crogiolo ribollente di nuove idee che da un lato genera instabilità ma che dall’altro potrebbe rivelarsi domani il brodo di cultura da cui nascerà il cambiamento. Non è da dimenticare poi il fatto che i regimi più crudelmente colpiti dalla Primavera Araba, nel suo complesso, sono stati proprio i regimi che erano maggiormente prossimi all’Occidente, un fatto che noi avremmo dovuto interpretare come un messaggio ben preciso ma di cui però − almeno sino ad ora − ci siamo rifiutati di affrontare le conseguenze.
Considerate queste premesse, le cose in seguito non potevano far altro che peggiorare, e in effetti esse sono molto peggiorate, mentre in tutto il mondo arabo mediterraneo l’instabilità diveniva una caratteristica endemica e permanente. In una rapida carrellata che va da est verso ovest possiamo così parlare di un Marocco ancora travagliato dalla irrisolta questione del Sahara occidentale e della guerriglia che ciò comporta, mentre l’Algeria è uscita da poco − e non molto bene − da una crisi di successione presidenziale che si è protratta sino a sfibrarla. La Tunisia, nel contempo, marcia verso la dittatura, mentre in Libia la divisione in due del Paese appare ormai ineluttabile. L’Egitto intanto è costretto a ricorrere a prestiti mega galattici degli arabi della Penisola per sopravvivere, ponendosi in una condizione debitoria che finirà nel tempo col dover pagare a caro prezzo. Poco più in là, la Giordania è dilaniata da una faida dinastica d’altri tempi, il Libano è divenuto uno Stato fallito e i palestinesi scontano amaramente l’irrobustimento di Israele conseguente ai cosiddetti “accordi di Abramo”. La Siria infine è ormai asservita alla Russia a tal punto da reclutare volontari per mandarli a combattere contro l’Ucraina… ma si potrebbe continuare. Su questo calderone ribollente, che malgrado tutto ancora guarda verso l’Europa in attesa di un aiuto che non viene, sta poi ora per cadere anche la scure della carestia, alimentata dal blocco di buona parte dell’esportazione mondiale di cereali causato dallo scontro in atto fra Russia e Ucraina. Il fatto non mancherà di produrre ripercussioni negative sul costo delle derrate destinato, secondo le previsioni, a crescere considerevolmente nel corso dei prossimi mesi.
Scenari futuri
Alla polveriera costituta dalla instabilità politica e sociale araba era mancato per fortuna un innesco, almeno sino a questo momento. Ora la carestia sta per fornirle anche quello, e non dimentichiamoci che tutte le rivolte arabe, senza eccezione, sono cominciate sempre come “rivolte del pane”, cioè come torbidi innescati da un rincaro considerato inaccettabile del prezzo del bene che garantisce localmente la sopravvivenza.
È tempo quindi che ci muoviamo, facendo tutto quello che è in nostro potere per evitare questa catastrofe che ha l’unico pregio di essere stata preannunciata in tempo utile e con estrema precisione. Anche se il conflitto ucraino ha monopolizzato da tempo l’attenzione e buona parte delle risorse europee, occorre adesso essere capaci di comprendere e di far comprendere come l’Europa non sia in pericolo unicamente sulle sue frontiere di nord-est ma vi sia invece un altro fronte, diverso ma per molti aspetti altrettanto pericoloso, che sta per aprirsi alla sua frontiera sud.
Il rischio, altrimenti, è che nelle condizioni di vuoto di potere che simili situazioni finiscono sempre per determinare, la nostra assenza funga da innesco all’azione delle medesime forze che ora combattiamo in Ucraina e che potrebbero essere tentate di far partire un’azione offensiva anche da sud, magari scatenando nella nostra direzione flussi migratori di dimensioni tali da rendere impossibile fronteggiarli adeguatamente e con umanità.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Si tratta di una condizione che il Mediterraneo arabo, specie quello nord africano, condivide in fondo con l’intero Continente Nero in cui negli ultimi decenni la presenza europea, che era forse neo coloniale ma che a conti fatti arrecava molto più di quanto non portasse via, è stata progressivamente sostituita da altre presenze che dopo un ingresso in area, a volte, dolce stanno adesso rapidamente evidenziando il loro lato più rapace e privo di scrupoli. L’intero mondo africano, nella sua sconfinata vastità, è probabilmente troppo ampio perché noi pensiamo di potercene fare carico da soli, e meriterebbe quindi un interessamento su scala mondiale, gestito magari dalle Nazioni Unite.