Delicato viaggio diplomatico del Ministro Tajani: l’obiettivo è il rafforzamento della cooperazione economica con Pechino, anche in caso dell’uscita dell’Italia dalla Via della Seta, che il Governo Meloni sta valutando.Il Ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani parte per la delicata missione diplomatica in Cina, dove porterà a conoscenza del Governo di Pechino le intenzioni dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni sulla Belt and Road Initiative, BRI, e discuterà con gli alti funzionari del Paese l’espansione dell’interscambio commerciale, così come del ruolo cinese per la fine della guerra in Ucraina. Il viaggio di Tajani non sarà semplice, dovendo mediare tra la storica posizione italiana di strenua alleata occidentale e le necessità pratiche di carattere economico, con la Cina ancora necessaria per la crescita e lo sviluppo di numerosi settori industriali.
La missione di Tajani dovrebbe spianare la strada ad una futura visita della Presidente del Consiglio Meloni, ma il nodo Belt and Road e le motivazioni che l’Italia fornirà per un’eventuale uscita dal progetto potrebbero diventare un caso diplomatico dalla difficile soluzione. Il Ministro, leader di Forza Italia, ha sottolineato che la scelta di aderire alla Via della Seta è stata di un esecutivo passato. Scelta che per Tajani non ha portato benefici economici evidenti e i risultati che ci si aspettava. “Valuteremo il da farsi per quanto riguarda la nostra partecipazione alla Via della Seta, il Parlamento deciderà, ma qualunque sia la decisione — spiega il Ministro degli Esteri — questo non pregiudicherà gli ottimi rapporti che abbiamo”.
Sarà il Parlamento ad esprimersi sulla proroga o meno dell’accordo con la Cina, che scade nel 2024. Diversamente, si prolungherebbe in automatico di altri 5 anni. Tajani ha ricordato l’intenzione italiana di “andare avanti con il rafforzamento delle relazioni commerciali”, che possono già basarsi sul “partenariato strategico, che deve essere valorizzato e sostenuto e che può permettere la crescita della nostra presenza industriale”.
Dal 2019, anno della firma italiana d’ingresso nel progetto BRI, l’export di Roma è cresciuto da 14.5 miliardi di euro a 18.5 miliardi, mentre quello cinese in Italia è passato da 33.5 miliardi di euro a ben 50.9 miliardi. Cifre che raccontano tanto della differenza di benefici scaturiti dalla relazione tra le due nazioni, con un dato ulteriore: dal 2005 Pechino ha investito nel Belpaese 24 miliardi di dollari ma solo 1.83 miliardi dopo la decisione italiana di aderire alla Via della Seta. Come sostiene David Sacks del Council on Foreign Relations, “l’esperienza italiana dimostra che aderire alla BRI non conferisce automaticamente uno status speciale nella relazione con la Cina, che dunque possa garantire maggiori investimenti o sviluppi commerciali rispetto a chi non sottoscrive l’accordo”.
L’Italia, come le altre nazioni europee, deve fare i conti con i bisogni di carattere commerciale che impongono stretti legami con Pechino e i paralleli problemi di carattere politico sul piano internazionale, con la Cina scomodamente vicina alla Russia e, al contempo, accusata di malagestione dei diritti umani proprio dall’Unione Europea. Motivo che ha fermato l’accordo CAI, Comprehensive Agreement on Investment, fortemente voluto dalla Germania di Angela Merkel, ora in totale stand-by. Tuttavia, la posizione italiana è in qualche modo ancora più esposta in quanto unico Paese del G7 ad aver aderito all’iniziativa BRI, nel 2019, fungendo da vero e proprio trampolino di lancio della proiezione cinese in Europa e nel resto del mondo occidentale. L’Italia, inoltre, ospita la più grande comunità cinese su suolo europeo.
La firma italiana alla Belt and Road, con il Governo Conte I, arrivò in un momento storico straordinario, di vero e proprio passaggio, ad un anno di distanza dalla pandemia da coronavirus sviluppatasi proprio in Cina e poco tempo prima dell’invasione russa in Ucraina. Eventi che hanno sconvolto le relazioni internazionali, obbligando la comunità occidentale ad un riequilibrio nei rapporti non solo nei confronti di Mosca ma anche di Pechino, in un quadro di tensione crescente in molteplici quadranti, come quello Indo-Pacifico.