Le elezioni di domenica sono considerate illegittime dalla maggior parte dei Paesi del continente. Il Presidente Ortega impone il pugno duro contro l’opposizione, mentre ricostruisce il proprio profilo internazionale
Il Presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, e sua moglie e vice, Rosana Murillo, hanno confermato il loro incarico alla guida del Paese per altri 5 anni, in un’elezione fortemente contestata a livello domestico e internazionale. Secondo i dati del Consiglio supremo elettorale i coniugi Ortega hanno ottenuto più del 75% dei voti, e l’affluenza si è spinta oltre il 65% nonostante l’appello dell’opposizione a boicottare le urne. I candidati con maggiori possibilità di fare concorrenza al Governo sono stati sistematicamente incarcerati: Cristiana Chamorro, figlia dell’ex Presidente Violeta Chamorro (1990-1997), Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Medardo Mairena, Miguel Mora, Noel Vidaurre e Juan Sebastián Chamorro sono stati arrestati a giugno con l’accusa di favorire l’ingerenza straniera, in base alla polemica “Legge sulla difesa dei diritti del popolo all’indipendenza, alla sovranità e all’autodeterminazione per la pace”, approvata nel dicembre 2020 dall’Assemblea nazionale, dove Ortega mantiene la maggioranza assoluta anche dopo il voto di domenica.
Tra gli incarcerati degli ultimi mesi, spiccano figure storiche del partito di Governo, il Fronte Sandinista per la Liberazione Nazionale (Fsln), guerriglia sorta negli anni ’60 dall’incontro di diverse esperienze della sinistra nicaraguense e che nel 1979 rovesciò la cruenta dittatura di Anastasio Somoza, ultimo rampollo del regime familiare iniziato con suo padre nel 1937. Dora María Téllez, conosciuta come “Comandante 2” ai tempi della rivoluzione sandinista è finita anch’essa a “El Nuevo Chipote”, il penitenziario dove si trovano sotto regime speciale 32 dei 34 dirigenti politici detenuti negli ultimi quattro mesi. Nella lista dei “cospiratori” anche Víctor Hugo Tinoco, viceministro degli esteri del Fsln tra il ’79 e il ’90, e lo scrittore Sergio Ramirez, vice Presidente dello stesso Ortega tra il 1985 e il 1990, ed esiliatosi in Spagna per scampare alle recenti purghe.
Il modello del Nicaragua di Ortega
Buona parte di quel che sta accadendo in Nicaragua si spiega proprio a partire dalla decisione di Ortega di piegare l’allora movimento rivoluzionario a un nuovo corso politico. A partire dal suo ritorno alla presidenza nel 2007, la simbiosi tra partito e Stato si è fatta sempre più evidente, sfociando spesso nelle forme clientelari che la stessa sinistra nicaraguense ha combattuto per decenni. Espulse le dissidenze, riunite poi nel Movimento per la Rifondazione del Sandinismo a cui è stato addirittura impedito di presentare candidature in diverse elezioni, Ortega ha suggellato il patto tripartito che spiega la sua permanenza al potere fino ad oggi: con le grandi imprese nicaraguensi riunite nel Consiglio superiore delle imprese private (Cosep) e con le Chiese cattolica ed evangelica. Nel 2008 il Governo sbaragliò anche l’ultimo cavillo che permetteva la pratica dell’aborto in Nicaragua, siglando anche la fine dell’idillio tra femminismo e sandinismo; lo stesso Ortega è accusato di aver abusato per anni della figlia primogenita di Murillo, Zoilamérica, oggi esiliata in Costa Rica e simbolo dell’opposizione dei gruppi LGBTQI al Governo nicaraguense.
Erano i tempi di Petrocaribe, con cui il Venezuela di Hugo Chávez garantiva petrodollari al Centroamerica e Caraibi in cambio di servizi e materie prime, e Managua approfittò il vento a favore per rafforzare l’inattesa crescita economica. Ad approfittarne furono i potenti di sempre, come il Gruppo Pellas, proprietà di uno degli uomini più ricchi del continente, la finanziaria Promérica, l’holding Lafise o il Mercon Coffee Group, stabilirono un modello basato sul consenso tra partito ed establishment intorno alla politica economica che garantì a Ortega un decennio di stabilità. La riforma bancaria favorì gli affari delle famiglie più importanti del Paese, che hanno usufruito anche di ampi sgravi fiscali. Tra il 2000 e il 2017 la crescita si è mantenuta a una media del 3,9% annuo, permettendo al Governo di giovare anche di un alto grado di consenso popolare.
Il tramonto di questo connubio tra chiesa, partito e industria, le tre entità più importanti del Paese, è giunto nella più ampia crisi delle strutture economiche e finanziarie costruite da Caracas attorno alla cooperazione basata sul petrolio venezuelano. Nell’aprile del 2018 Ortega impose una serie di misure di austerity su richiesta del Fondo monetario internazionale, che provocarono una reazione popolare inattesa. Dopo cinque giorni di saccheggi e scontri, il Governo ritirò la riforma del sistema pensionistico al centro della contestazione, ma i tumulti non si arrestarono. Furono tre mesi di violenze e repressione, conclusi con più di 300 morti – la commissione parlamentare creata ad hoc ne ammise 269 -, centinaia di detenuti e circa 100.000 emigrati. Le chiese e i rappresentanti dell’industria ritirarono il loro appoggio al Governo e chiesero di anticipare le elezioni. Fu il punto di non ritorno.
Un problema internazionale
Il Nicaragua è un territorio strategico per qualunque potenza che voglia esercitare la propria influenza sull’America centrale. Paese bioceanico ma ricco di acqua dolce, è stato recentemente al centro di un tentativo di Pechino di costruire un canale alternativo a quello di Panama, naufragato dopo la crisi del 2018 e il rafforzamento dei rapporti tra Managua e il suo tradizionale alleato di Taiwan. Durante più di dieci anni la stabilità del Nicaragua sandinista ha ricevuto il beneplacito più o meno esplicito di Washington, che dal 1986 deve 17 miliardi di dollari al Nicaragua in riparazioni imposte dalla Corte dell’Aja per attività terroristiche e il finanziamento illegale dei Contras degli anni Settanta proprio contro il Fsln. Oggi tra i due Paesi è vigente un accordo di libero scambio e gli Stati Uniti possono anche dirsi compiaciuti del flusso relativamente basso di migranti nicaraguensi che arrivano alla propria frontiera sud: un terzo rispetto ai salvadoregni e la metà dei guatemaltechi. Nonostante ciò, le rimesse dei migranti rappresentano un 15,3% del Pil del Paese.
Gli stretti rapporti del Governo di Ortega con Cuba, Venezuela e Russia – che nell’aprile 2017 ha inaugurato una base militare nella Laguna di Nejapa poco lontano dalla capitale – e la repressione scatenata contro le manifestazioni del 2018 hanno portato Washington ad approvare il Nicaraguan Investment Conditionality Act o Nica Act, con cui condiziona la cooperazione finanziaria alla realizzazione di elezioni libere e trasparenti. L’amministrazione Trump ha inasprito la stretta su Ortega imponendo sanzioni dirette a funzionari del suo Governo, ampliate quest’anno da Joe Biden. Anche l’Ue ha imposto sanzioni contro 14 membri del Fsln, recentemente estese fino a ottobre del 2022.
In questo contesto, la celebrazione delle elezioni di domenica, definite “una farsa” dalla Casa Bianca e “un fake” dall’ l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione europea, Josep Borrell, non fa altro che isolare ancor di più il Nicaragua. Anche il fronte latinoamericano sembra titubante nel sostenere Ortega in questo frangente. L’asse progressista formato da Argentina e Messico, che si è astenuto nelle votazioni delle risoluzioni dell’Organizzazione degli Stati Americani contro il Governo di Managua adducendo di voler restare ligi al principio di non ingerenza negli affari domestici, questa volta ha reagito molto timidamente. Buenos Aires ha pubblicato un messaggio via Twitter condannando le detenzioni degli oppositori mentre il Governo di Lopez Obrador non si è nemmeno espresso. Anche il Perù di Pedro Castillo, l’ultimo leader della sinistra latinoamericana giunto al potere a giugno ha preso le distanze da Ortega.
Resta chiaro dunque che questa tornata elettorale non fa altro che acuire l’isolamento del Nicaragua, che si allinea definitivamente con l’asse Caracas-La Avana-Mosca (e Taipei, attore di prim’ordine nella politica nicaraguense). Ennesimo grattacapo in America latina per la superpotenza a stelle e strisce, già impegnata con le difficili situazioni di El Salvador e Honduras. Ma anche un nuovo spartiacque da imporre per stabilire alleanze e ostilità nell’emisfero occidentale.
Tra gli incarcerati degli ultimi mesi, spiccano figure storiche del partito di Governo, il Fronte Sandinista per la Liberazione Nazionale (Fsln), guerriglia sorta negli anni ’60 dall’incontro di diverse esperienze della sinistra nicaraguense e che nel 1979 rovesciò la cruenta dittatura di Anastasio Somoza, ultimo rampollo del regime familiare iniziato con suo padre nel 1937. Dora María Téllez, conosciuta come “Comandante 2” ai tempi della rivoluzione sandinista è finita anch’essa a “El Nuevo Chipote”, il penitenziario dove si trovano sotto regime speciale 32 dei 34 dirigenti politici detenuti negli ultimi quattro mesi. Nella lista dei “cospiratori” anche Víctor Hugo Tinoco, viceministro degli esteri del Fsln tra il ’79 e il ’90, e lo scrittore Sergio Ramirez, vice Presidente dello stesso Ortega tra il 1985 e il 1990, ed esiliatosi in Spagna per scampare alle recenti purghe.