Il Presidente del Perù Martin Vizcarra parla con i giornalisti all'aeroporto internazionale Jorge Chavez a Lima, Perù, 5 ottobre, 2020. REUTERS/Sebastian Castaneda
In Perù le elezioni dell’11 aprile rischiano di ripetere la solita “tombola corrotta” degli ultimi 200 anni
Il Presidente del Perù Martin Vizcarra parla con i giornalisti all’aeroporto internazionale Jorge Chavez a Lima, Perù, 5 ottobre, 2020. REUTERS/Sebastian Castaneda
Un giorno di febbraio, alla vigilia dell’arrivo dei primi lotti di vaccini contro il Covid, si viene a sapere che l’ex Presidente Martín Vizcarra è vaccinato da mesi. La farmaceutica cinese Sinopharm, mentre era impegnata fin da settembre a fare gli studi clinici su 12 mila volontari, consegnava 3200 provette alle autorità per il personale sanitario e gli operatori del piano. Ne hanno approfittato non solo il Presidente e sua moglie, ma anche alcuni Ministri, i rettori di due università private, il nunzio apostolico Nicola Girasoli e una schiera di familiari, amici, consulenti, lobbisti e impresari. Mentre il Paese era piegato dall’epidemia, che qui ha colpito più di 1,2 milioni di persone e sepolto almeno 44 mila morti, compresi centinaia di sanitari, una élite di potenti si proteggeva in gran silenzio. Vacunagate, lo chiamano: è ultimo di una lunga serie di scandali.
In questo clima i peruviani si recheranno alle urne l’11 aprile, ma tutto fa pensare che finirà con un capo di stato debole e un parlamento frammentato, in preda a cartelli elettorali e cordate di potenti e prestanome. “Non è solo un’ipotesi. È l’unico scenario, chiunque vinca”, scuote la testa l’analista politico Mauricio Zavaleta.
Per emergere basta un po’ di appeal, un buon marketing e i contatti giusti. Il candidato con più chance nei sondaggi è George Forsyth con solo l’11% delle intenzioni di voto. Forsyth è un ex calciatore: portiere del Borussia Dortmund prima e nell’Atalanta poi (dove non ha mai giocato una partita), è tornato in Perù da imprenditore con la passione per la politica. Tuttavia, a metà febbraio l’autorità elettorale lo ha depennato per aver mentito sulle sue entrate fiscali, ma lui ha fatto ricorso e potrebbe tornare in pista. Stessa sorte per un altro papabile, Daniel Urresti, ex-generale, sotto processo per l’assassinio di un giornalista nel 1988.
La politica peruviana è un grottesco reality-show. In un’amara analisi per il New York Times, il politologo Alberto Vergara l’ha definita “una tombola corrotta. L’affare è così: durante la campagna, i padroni delle iscrizioni elettorali ricevono finanziamenti e mettono all’asta i posti in lista per il Congresso. Questo ha generato una politica senza lealtà né vincoli tra candidati, partiti e società”.
Il Congresso uscente è in carica solo da un anno, dopo che Vizcarra aveva indetto nuove elezioni e referendum costituzionali, nel tentativo di raddrizzare istituzioni screditate, compreso il sistema giudiziario. Il risultato? Dei 130 congressisti, 68 sono sotto inchiesta. Divisi su tutto, ma con un obiettivo comune: tenere sotto scacco qualunque presidente della repubblica.
È successo anche con Vizcarra, destituito il 9 novembre. Aveva assunto l’incarico nel 2018, perché il predecessore, Pedro Pablo Kuczynski, si era dimesso sempre per tangenti. Negli ultimi trent’anni tutti i presidenti sono stati travolti dalla giustizia: uno si è suicidato, uno è fuggiasco, uno a processo e un altro in carcere. Dichiarato l’impeachment, il presidente del Congresso Manuel Merino si prendeva lo scranno più alto dello Stato. Ai peruviani è sembrato troppo.
Il 14 novembre due enormi marce hanno invaso Lima, i ventenni in prima fila. La “Generazione Bicentenario”, l’hanno chiamata. “Siete incappati nella generazione sbagliata”, gridavano. Il nuovo governo ha dato carta bianca alla polizia: 2 morti, 200 feriti e 73 desaparecidos. L’indignazione e l’isolamento internazionale costringevano Merino a dimettersi. Il 17 novembre, un parlamento sotto choc eleggeva Francisco Sagasti, un impeccabile accademico. A capo del Congresso, invece, Mirtha Vazquez, la più famosa avvocata ambientalista.
Proprio Mirtha Vazquez è la porta che ci fa entrare nell’altro Perù. Il suo nome si incontra anche nelle pagine scritte da Joseph Zárate, Guerre interne, un magnifico esempio di giornalismo narrativo che di recente è uscito in Italia per le edizioni Gran Via. Zárate, classe 1986, ha ricostruito le storie di Edwin Chota, Máxima Acuña e Osman Cuñachì, che hanno difeso le loro comunità dai colossi del legno, dell’oro e del petrolio. “Non potevano contare sullo Stato − dice l’autore – Perché uno Stato fantasma è funzionale a chi detiene il potere economico, in modo da assicurargli mano libera”.
I tre sono diventati degli eroi per necessità o “semplicemente ribelli, nel senso di chi sa dire di no al momento giusto, nonostante tutto quello che gli può capitare”. Da soli, hanno affrontato imprese private o statali che scavano ed estraggono, a qualunque prezzo, avvelenando la terra e l’acqua, cacciando o comprando con poco gli abitanti o facendoli lavorare crudelmente. Joseph Zárate si definisce “uno storico del presente” e dice di “aver dato voce alle persone e alle comunità, per restituire dignità. E ho dato voce anche alle imprese, perché a sentirle parlare si condannano da sole”.
Attorno ai tre protagonisti, diventati simboli delle battaglie ecologiste e sociali, “si muove anche un pezzo di società civile, come il caso di Mirtha Vazquez l’avvocata: è la coscienza critica del paese che ridà senso allo Stato”. È quella scesa nelle piazze di novembre.
“Il problema è che, come in altre occasioni, è stata una mobilitazione spontanea – riflette Mauricio Zavaleta – La gente si mobilita in massa quando sente la democrazia in pericolo, ma non si traduce in un attore stabile. La società civile resta debole e non riesce a pesare sul lungo termine”.
Il Perù non sembra aver fatto mai i conti con le pervicaci radici coloniali, la storia predatoria delle élite dopo l’indipendenza, l’eredità infinita del fujimorismo, sopravvissuto alla caduta del dittatore Alberto Fujimori (1990-2000) e che ha il volto della figlia Keiko, ora alla sua terza sfida elettorale, anche se inseguita dalla giustizia. “Costruire le basi di una repubblica democratica continua a essere una promessa sfuggente”, l’ha definita la documentarista Sonia Goldenberg.
L’onda civica di novembre ha agito da schiaffo: “Il 14 novembre abbiamo solo aperto una porta”, ci dice Gahela Tseng Cari Contreras, giovane candidata per il partito di sinistra Juntos por el Peru, la prima donna trans e indigena a correre per un seggio. Alla testa della sua lista c’è un’altra donna, Veronika Mendoza, che già aveva corso nel 2016, arrivando a un soffio dal ballottaggio. Anche questa volta potrebbe avere qualche chance: “Sarebbe salutare per la democrazia – sottolinea Zavaleta – Non perché sia la migliore, ma perché ridisegnerebbe il campo politico attorno a opzioni diverse, di idee e contenuti, fuori dal brusio indistinto e opaco”.
Gahela, intanto, continua la sua campagna, quasi tutta on-line, festosa nonostante le cicatrici della sua vita e le minacce che continua a ricevere. Parla di diritti civili e sindacali, politiche ecologiche, sostegno ai produttori agricoli indigeni “dimenticati da sempre, ma sono quelli che ci hanno garantito cibo, mentre i rifornimenti erano collassati per l’epidemia”.
Il sistema di potere che ha retto durante i 200 anni di indipendenza ora si mostra insostenibile. A cominciare dalla fonte di quel potere, quella economica. Sempre più spesso, ad esempio, si sente contestare “l’idea per cui estrarre qualunque cosa e a qualunque costo sia inevitabile – sottolinea Joseph Zárate − In tanti, a partire dalle comunità andine e indigene, pensano che le risorse non debbano essere estratte, che la terra vada seminata e abitata, curata e rispettata. Non è qualcosa di arretrato, ma un’altra idea di progresso”. Questa idea che si fa strada ricuce anche legami generazionali interrotti: “Mentre scrivevo il libro mi rendevo conto che riguardava anche me. Mia nonna, Mamita Lilì, se n’era andata a Lima giovanissima, veniva da Pucallpa, uno dei luoghi che racconto. Allora ci siamo tornati assieme. Lei mi ha portato nei posti della sua infanzia: ho scoperto il suo mondo”. Storie simili si sentono continuamente in Perù. Sono parte di quella società civile che non riesce a emergere e a cambiare il destino del Paese, mentre tutto attorno il circo politico si muove avido e maldestro.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Un giorno di febbraio, alla vigilia dell’arrivo dei primi lotti di vaccini contro il Covid, si viene a sapere che l’ex Presidente Martín Vizcarra è vaccinato da mesi. La farmaceutica cinese Sinopharm, mentre era impegnata fin da settembre a fare gli studi clinici su 12 mila volontari, consegnava 3200 provette alle autorità per il personale sanitario e gli operatori del piano. Ne hanno approfittato non solo il Presidente e sua moglie, ma anche alcuni Ministri, i rettori di due università private, il nunzio apostolico Nicola Girasoli e una schiera di familiari, amici, consulenti, lobbisti e impresari. Mentre il Paese era piegato dall’epidemia, che qui ha colpito più di 1,2 milioni di persone e sepolto almeno 44 mila morti, compresi centinaia di sanitari, una élite di potenti si proteggeva in gran silenzio. Vacunagate, lo chiamano: è ultimo di una lunga serie di scandali.
In questo clima i peruviani si recheranno alle urne l’11 aprile, ma tutto fa pensare che finirà con un capo di stato debole e un parlamento frammentato, in preda a cartelli elettorali e cordate di potenti e prestanome. “Non è solo un’ipotesi. È l’unico scenario, chiunque vinca”, scuote la testa l’analista politico Mauricio Zavaleta.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica