Il Next Generation EU è ancora lontano da un bilancio federale ma potrebbe diventarlo. La storia europea è piena di strumenti provvisori che poi sono diventati parte dell'architettura istituzionale
Il Next Generation EU è ancora lontano da un bilancio federale ma potrebbe diventarlo. La storia europea è piena di strumenti provvisori che poi sono diventati parte dell’architettura istituzionale
Anche se la pandemia non è ancora alle nostre spalle, l’economia europea è ormai entrata in una nuova fase. È vero che, fin tanto che l’attività economica non sarà tornata normale, occorrerà che la politica di bilancio continui a sostenere i settori in difficoltà a causa delle chiusure amministrative o delle restrizioni alla circolazione; tuttavia, la presentazione dei Recovery Plan a fine aprile ha rappresentato lo spartiacque tra la fase emergenziale della crisi e quella in cui i policy makers si proiettano sulle sfide di medio e lungo periodo per trovare una crescita strutturalmente più elevata garantendone allo stesso tempo la sostenibilità ambientale e sociale. Si tratta di sfide per le quali gli Stati da soli potranno fare ben poco. La dimensione europea è infatti quella più adatta per il finanziamento e la fornitura di “beni pubblici globali” quali gli investimenti nella transizione ecologica o nella digitalizzazione, ma anche l’organizzazione dei nostri sistemi sanitari per far fronte alle pandemie e finanziare ricerca e produzione di medicine e vaccini.
Proprio perché la dimensione europea è centrale, è probabile che il nostro successo nel far fronte a queste sfide sia legato a doppio filo al fato del programma Next Generation EU (NGEU). Ricordiamo in primo luogo rapidamente di cosa si tratta e perché rappresenta una novità: l’Unione europea ha lanciato nel luglio scorso un programma che prevede che la Commissione si indebiti per 750 miliardi in modo da affiancare al bilancio “ordinario” (circa 1000 miliardi per il periodo 2021-2027) altri strumenti tra cui un “Dispositivo per la ripresa e la resilienza” che distribuirà ai Paesi membri trasferimenti o prestiti (312 e 360 miliardi rispettivamente). È da questo Dispositivo che vengono i circa 200 miliardi del Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) italiano.
Il Dispositivo per la ripresa e la resilienza
Il primo aspetto innovativo è quindi che la Commissione si indebita per somme ingenti, per finanziare investimenti nei campi considerati prioritari per le nostre società (transizione ecologica, digitalizzazione e coesione sociale). La Commissione ha pubblicato nell’autunno scorso delle linee guida molto stringenti sia sulla preparazione dei PNRR (che arrivano fino a dettare la percentuale minima da assegnare ad ogni categoria di spesa, ad esempio il 37% nella transizione ecologica) che sulle condizioni (rispetto dei tempi e degli obiettivi legati a ogni singolo programma di investimento) per l’esborso dei finanziamenti in corso d’opera. I programmi di investimento dovranno essere completati entro il 2026, e il prestito sarà rimborsato dalla Commissione tra il 2028 e il 2058 a partire dalle risorse proprie. L’obiettivo è di creare delle imposte genuinamente europee come la web tax, la Tobin tax sulle transazioni finanziarie, la tassa carbone alle frontiere o la plastic tax. In caso queste non fossero finalizzate, si chiederebbe un (a dire il vero modesto) aumento dei contributi nazionali al bilancio europeo.
Il secondo aspetto innovativo del programma NGEU è l’allocazione dei fondi (in particolare dei trasferimenti) in base a chiavi di ripartizione che tengano conto non solo del peso economico dei paesi, ma anche dell’impatto delle due crisi dello scorso decennio sulla loro economia. L’Italia, Paese ricco che di solito è contributore netto al bilancio dell’Ue, sarà invece beneficiario netto dei fondi del Dispositivo per la ripresa in ragione dell’impatto particolarmente severo delle due crisi (ricordiamo che eravamo uno dei pochi paesi europei a non aver ancora ritrovato, prima della pandemia, i livelli di Pil del 2008).
Quando è stato faticosamente raggiunto l’accordo sul programma NGEU, nel luglio scorso, molti lo hanno salutato come il “momento hamiltoniano” dell’Ue, l’atto fondativo per l’Europa federale. Nel 1790, su iniziativa del Ministro Alexander Hamilton, il Tesoro degli Stati Uniti si fece carico del debito contratto dagli stati durante la guerra d’indipendenza, avocando a sé contestualmente la possibilità di finanziarlo con tariffe doganali e accise federali; questo creò di fatto il Governo federale.
La sfida federale del Next Generation EU
L’entusiasmo di chi parla di momento hamiltoniano, tuttavia, è ingiustificato. Il Dispositivo è ancora molto lontano da una genuina capacità di bilancio di tipo federale. Intanto, lo storico via libera da parte della Germania è stato condizionato alla natura una tantum di NGEU, che non si fa carico dei debiti esistenti (come appunto fece il Tesoro americano con Hamilton). Inoltre, solo la plastic tax è oggi realtà; per tutte le altre imposte “federali” che consentirebbero di evitare l’aumento dei contributi dei Paesi membri al bilancio europeo, il consenso tra gli Stati membri resta ancora tutto da costruire. Poi, il Dispositivo trasferisce risorse per programmi di investimento che resteranno nazionali, in quanto l’Unione a oggi non ha una capacità di spesa comparabile a quella di uno Stato federale. Infine, i Paesi detti frugali hanno condizionato il via libera al Fondo a tagli significativi dei finanziamenti ordinari per programmi europei come la ricerca scientifica, gli investimenti, il fondo per la transizione energetica e addirittura la sanità. Al di là degli aspetti quantitativi (su cui il Parlamento europeo ha meritoriamente limitato i danni), il messaggio è stato quello di un ridimensionamento dell’impegno dell’Unione nella fornitura dei pochi beni pubblici genuinamente europei. Mentre con il programma NGEU si lancia un ambizioso programma per adeguare l’Unione europea alle sfide del ventunesimo secolo, si è persa l’occasione di orientare gli strumenti ordinari dell’Ue verso gli stessi obiettivi.
Insomma, NGEU è ancora lontanissimo da un bilancio federale. Ma questo non significa che non potrebbe diventarlo. Dopotutto, la storia europea è disseminata di strumenti temporanei che sono entrati a far parte dell’architettura istituzionale dell’Unione. Perché questo avvenga, dovranno nei prossimi anni verificarsi alcune condizioni. La prima, e più banale, è che dopo essersi dotata degli strumenti per reperire risorse (risorse proprie e, nel caso di NGEU, debito) l’Unione si doti di strumenti per attuare programmi di investimento europei, senza dover passare per trasferimenti e prestiti agli Stati.
Poi, occorrerà vigilare che la vecchia ortodossia macroeconomica, che predica l’inutilità della politica di bilancio, non riprenda il sopravvento. Se questo avvenisse, il progetto di un bilancio federale sarebbe morto prima ancora di nascere. Su questo possiamo essere moderatamente ottimisti: oggi la stragrande maggioranza degli economisti europei (persino qualche tedesco!) ritiene che la politica di bilancio dovrebbe essere utilizzata insieme alla politica monetaria per sostenere la crescita e contrastare le recessioni.
Ma la condizione più importante è anche quella più problematica: il programma deve essere un successo. È cruciale che l’obiettivo di una crescita potenziale più elevata (e più sostenibile) sia raggiunto. La sfida sarà quella di riuscire a canalizzare le risorse in progetti efficaci (il “debito buono” evocato da Mario Draghi), secondo un progetto coerente e, soprattutto, aumentando la capacità di spesa. Molti Paesi membri non riescono a spendere tutti i fondi strutturali che ricevono, e tra questi spicca l’Italia: a fine 2019 avevamo speso il 30,7% dei fondi spettanti per il bilancio 2014-2020, e ne avevamo impegnati il 58% (i fondi possono essere spesi fino al 2023). I finanziamenti del Fondo saranno circa il triplo, da spendere entro il 2026.
Se si utilizzeranno in modo efficiente i finanziamenti, se si lavorerà a risorse e a progetti di investimento comuni, se si investirà in quelle risorse immateriali (riordino della PA, della giustizia, della regolamentazione) che oggi frenano invece di stimolare la crescita, si potrà a quel punto, e solo a quel punto, legittimamente mettere sul tavolo il progetto di trasformazione del Dispositivo in una capacità di bilancio comune.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Il Next Generation EU è ancora lontano da un bilancio federale ma potrebbe diventarlo. La storia europea è piena di strumenti provvisori che poi sono diventati parte dell’architettura istituzionale
Anche se la pandemia non è ancora alle nostre spalle, l’economia europea è ormai entrata in una nuova fase. È vero che, fin tanto che l’attività economica non sarà tornata normale, occorrerà che la politica di bilancio continui a sostenere i settori in difficoltà a causa delle chiusure amministrative o delle restrizioni alla circolazione; tuttavia, la presentazione dei Recovery Plan a fine aprile ha rappresentato lo spartiacque tra la fase emergenziale della crisi e quella in cui i policy makers si proiettano sulle sfide di medio e lungo periodo per trovare una crescita strutturalmente più elevata garantendone allo stesso tempo la sostenibilità ambientale e sociale. Si tratta di sfide per le quali gli Stati da soli potranno fare ben poco. La dimensione europea è infatti quella più adatta per il finanziamento e la fornitura di “beni pubblici globali” quali gli investimenti nella transizione ecologica o nella digitalizzazione, ma anche l’organizzazione dei nostri sistemi sanitari per far fronte alle pandemie e finanziare ricerca e produzione di medicine e vaccini.
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