Mentre Trump è alle prese con scandali e polemiche, per i Democratici, sempre più divisi, si preannunciano primarie affollate
In attesa di scoprire chi sarà lo sfidante di Trump e come si svolgerà la prossima campagna elettorale, la democrazia americana vive un periodo di forti tensioni. Dopo le indiscrezioni e le fughe di notizie che hanno scosso la capitale, nessuno azzarda previsioni su dove porteranno gli sviluppi dell’ingarbugliata vicenda fatta di accuse incrociate, sospetti e possibili minacce, che sembrerebbe coinvolgere lo stesso Presidente, i membri più stretti del suo staff e uno dei candidati alle primarie democratiche: l’ex vicepresidente Joe Biden.
Da un lato, questa storia potrebbe finire in un nulla di fatto, come nel caso del Rapporto Müller che non riuscì a provare alcuna responsabilità di Trump sulle interferenze straniere nelle elezioni del 2016. Dall’altro, potrebbe ipotecare le speranze di successo di Biden (se dovesse vincere le primarie), indebolendo la sua leadership. Si ripeterebbe quindi un copione simile a quello della sconfitta di Hillary Clinton pochi anni fa, quando proprio durante le primarie venne fuori lo scandalo delle sue comunicazioni ufficiali su indirizzi email privati. In entrambi i casi, Trump potrebbe usare il corso degli eventi a suo vantaggio e, secondo alcuni esperti, persino la procedura di impeachment, che è stata formalmente avviata dai Democratici, potrebbe favorire il Presidente nella campagna elettorale.
Sul fronte esterno, cioè quello del confronto con i Repubblicani e il Presidente Trump, il partito democratico dovrà quindi gestire una fase politica molto difficile. Sul fronte interno, tutti stanno aspettando la Convention del 2020, quando a luglio i democratici dovranno trovare l’accordo sul loro candidato alla Casa Bianca.
Nei prossimi otto mesi, la selezione tra i democratici sarà sempre più rapida e molti dei diciannove candidati potrebbero presto lasciare la campagna delle primarie, schierandosi con uno dei primi nei sondaggi. Queste primarie segnano già un record, in quanto, mai negli ultimi cinquanta anni, il partito democratico aveva avuto un numero così alto di candidati.
Oltre alle differenze generazionali, tra i diciannove candidati c’è chi è nato a New Delhi (Michael Bennet), chi rappresenta il mondo afro-americano, come Cory Booker, e chi è più vicino agli ispanici, come Julian Castro. In questa gara emergono figure tra loro chiaramente opposte. Ad esempio, c’è chi fa parte dell’establishment, come la senatrice della California Kamala Harris, e un’outsider, come Marianne Williamson, attivista – guida spirituale e autrice di best seller.
Al centro del dibattito ci sono ancora due dei protagonisti dell’era Obama: il vicepresidente Biden e il senatore Bernie Sanders. Secondo recenti sondaggi, il candidato che potrebbe avere maggiori chances contro Trump sarebbe proprio Biden, ma la sua corsa alla Casa Bianca sembra in salita dopo le rivelazioni sul caso Trump-Ucraina. Molto dipenderà anche dalla prudenza che dimostreranno i candidati nei mesi che li separano dalla Convention. Qualcuno potrebbe chiedere a Biden di farsi da parte, o approfittare dei sospetti sulle accuse di abuso di potere di quando era vicepresidente.
Il suo rivale è il senatore Sanders, che si proclama non un semplice democratico, ma un socialista democratico. Nell’opinione pubblica americana la parola “socialista” non è mai entrata pienamente a far parte del linguaggio della cultura di massa, e anzi è considerata con una certa diffidenza e distacco. Questo aspetto, tutt’altro che secondario, potrebbe spostare non pochi voti tra gli elettori democratici. Nelle scorse primarie, alcuni elettori preferirono la Clinton a Sanders proprio perché la prima era l’alternativa più affidabile e centrista, rispetto alla linea populista di Sanders. A testimoniare il fatto che il binomio “socialista” e “democratico” crei ambiguità e sia motivo di facili attacchi al senatore del Vermont, basta accennare a quanto successo recentemente, quando si diffuse la fake news − smentita dallo stesso interessato − che il senatore non sarebbe stato neanche iscritto al partito democratico.
Vale la pena di sottolineare alcune novità e trend che emergono dopo la candidatura dell’ex Segretario di Stato: cinque donne stanno partecipando alle primarie, di queste, tre senatrici e una di loro è tra le favorite nei sondaggi. Si tratta di Elizabeth Warren. Il profilo di questa candidata la colloca nel solco della tradizione di lungo corso del partito democratico. In primo luogo, è senatrice del Massachusetts, uno degli Stati che nel gergo politico americano è considerato tra i “più blu” di tutti gli Usa. Il Massachusetts è lo stato dei Kennedy e una roccaforte democratica. In secondo luogo, la Warren è stata professoressa a Harvard, l’università che nel tempo della Guerra Fredda venne ribattezzata il Cremlino sul fiume Charles e da dove sono passati, in veste di studenti o docenti, alcuni dei protagonisti della politica americana. Tanto per citare i democratici: Franklin D. Roosevelt, Kennedy e Obama.
Da Harvard, questa volta come laureato, viene anche un altro dei candidati: Peter Buttigieg. È sicuramente quello che più rappresenta la novità storica per il panorama politico americano, dato che il quarto in lista nei sondaggi, si candida per essere il primo Presidente omosessuale degli Stati Uniti. La sua carriera politica, che lo ha portato finora a essere sindaco di una città del Midwest, ha alcune delle premesse che negli Usa fanno il curriculum del buon politico. Ad esempio, come tanti Presidenti americani (Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter e George H.W. Bush), anche lui ha servito la marina militare. Inoltre, Buttigieg ha vinto la borsa di studio Rhodes per studiare a Oxford, esattamente come fece Bill Clinton. Considerando la sua giovane età, indipendentemente dall’esito delle primarie, Buttigieg proverà a farsi strada come nuovo esponente dei democratici nei prossimi anni.
Guardando ai numeri sul denaro che ciascun candidato riesce a raccogliere per la campagna elettorale dal fundraising (sia dei big della finanza, sia da parte dei cittadini), si può misurare la popolarità dei leader. A settembre, Donald Trump aveva già raccolto più di 100 milioni di dollari, mentre la raccolta fondi dei democratici vede al primo posto Sanders con circa 50 milioni di dollari da donazioni, seguito da Elizabeth Warren e Peter Buttigieg.
Se non dovessero esserci cambiamenti radicali, probabilmente uno dei quattro candidati qui menzionati sarà lo sfidante di Trump. Chiunque sarà, dovrà riuscire a risolvere la crisi dell’identità politica del partito ed evitare che l’impeachment possa indebolire i democratici, rafforzando il Presidente in carica.
Da quando Trump ha dato molta attenzione ai settori dell’economia americana in declino, puntando su incentivi e misure protezionistiche, il partito democratico sembra aver smarrito il suo elettorato di riferimento. Solo per citare un dato tra molti, la disoccupazione è al minimo storico dal 2012. Un fatto che mette in difficoltà i democratici, che non a caso danno molta più importanza a temi nuovi come l’ecologia, piuttosto che al lavoro (obiettivo numero uno della loro politica tradizionale).
Infine, l’incognita più grande è rappresentata dall’impeachment. Se dovesse effettivamente andare avanti, potrebbe essere un’arma a doppio taglio. L’impeachment, è una procedura complessa, che richiede una maggioranza che i democratici non hanno nel Senato (cioè l’istituzione che decide la messa in stato di accusa del Presidente). Storicamente la procedura di impeachment non si è mai conclusa con successo nei casi in cui si è effettivamente arrivati al voto in Senato (il più recente è quello sul caso Lewinsky-Clinton). Nella vicenda Nixon, la procedura non arrivò mai al suo compimento perché il Presidente si dimise anticipando il voto. In altri termini, se l’impeachment dovesse fallire, Trump potrebbe avvantaggiarsi dell’effetto boomerang che colpirebbe i democratici e trasformare la sua campagna elettorale nel momento della sua rivincita.
@MatteoLaruffa
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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