Che senso ha la rivolta dei gilet gialli? Cosa c’è che non va nelle riforme di Macron?
Anche se leggermente in rialzo nelle ultime rilevazioni, la popolarità del Presidente francese resta incredibilmente bassa, a quasi due anni dall’inizio del suo mandato. Se il movimento dei gilet gialli ha (almeno inizialmente) contribuito alla perdita di consenso, la tendenza inizia in realtà molto prima, già nell’autunno del 2017. Quali sono le ragioni di queste difficoltà? È solo un problema di comunicazione di un Presidente cronicamente incapace di empatia e di comprensione per la France d’en bas? O ci sono ragioni più strutturali, che magari vanno al di là dell’azione di Governo di Macron (che dopotutto è al potere da meno di due anni)?
La risposta non è semplice, perché negli scorsi dieci anni le misure di politica economica dei diversi governi si sono sovrapposte agli effetti della crisi e dell’aumento della disoccupazione, dando un quadro difficile da interpretare. Proviamo quindi a mettere un po’ d’ordine.
Il periodo che va dal 2008 al 2016, in cui sono Presidenti Nicolas Sarkozy e (dal 2012) François Hollande, è caratterizzato da una forte riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, falcidiato dagli effetti della crisi su disoccupazione e salari, ma anche dalle politiche di austerità che la Francia mette in atto a partire dal 2013. Uno studio dell’OFCE (l’osservatorio della congiuntura economica di Sciences Po) nel dicembre 2018 quantifica in circa 450 euro all’anno la perdita di potere d’acquisto media per le famiglie francesi. Lo stesso studio mostra peraltro che tale perdita si concentra principalmente nei decili superiori (la metà più benestante delle famiglie), mentre le riforme della protezione sociale hanno nel complesso beneficiato gli strati più poveri della popolazione. La disuguaglianza si è quindi complessivamente ridotta.
Messo sotto pressione dalla perdita di competitività dell’industria francese, François Hollande ha impresso un’ulteriore svolta alla politica economica francese, concentrandosi sulle cosiddette politiche dell’offerta. Le riduzioni di imposta accordate alle imprese (principalmente tramite crediti d’imposta legati alla creazione di impiego o all’investimento), e la liberalizzazione del mercato del lavoro (con la legge El Khomry, simile nel suo impianto generale al Jobs Act di Matteo Renzi), avevano nelle intenzioni del Presidente l’obiettivo di rilanciare competitività, crescita e occupazione. Molti, tra cui chi scrive, dissero all’epoca che scommettere sulle politiche dell’offerta in un momento in cui l’economia era appesantita da una forte deficienza di domanda, era una scommessa azzardata (che infatti è costata la rielezione al Presidente socialista). Ma non è questa la sede per un bilancio delle politiche di Hollande. È importante qui sottolineare come durante il suo mandato si sia attuato un trasferimento ingente di risorse dalle famiglie alle imprese (e allo Stato, nel tentativo di controllare le finanze pubbliche). Tuttavia, questo è stato fatto gravando soprattutto sui redditi più elevati e riducendo la disuguaglianza; questo spiega probabilmente perché, nonostante l’asprezza del rallentamento economico, “l’adesione all’imposta”, non è venuta meno, e il contratto sociale ha resistito all’urto della crisi.
Cosa è cambiato con l’elezione di Emmanuel Macron nel maggio del 2017? Non molto dal punto di vista delle tendenze di fondo, ma moltissimo nella filosofia sottostante alla politica economica. La prima legge di bilancio, votata nell’autunno del 2017, costituisce probabilmente il “peccato originale” della presidenza Macron. La priorità era la riforma della fiscalità del capitale, con la definizione di un tasso “flat” del 30% sui redditi da capitale (che sono anche esentati dal calcolo dell’imposta patrimoniale) che segna l’abbandono di un principio sacro per i francesi, dell’uguaglianza di capitale e lavoro rispetto all’imposta. Macron prosegue poi nella direzione tracciata da Hollande di agire sulla competitività, riducendo l’imposta sulle società e aumentando il credito di imposta introdotto dal suo predecessore. Per evitare un eccessivo aumento del disavanzo pubblico, il Governo mette contestualmente mano alla spesa pubblica, riducendo la massa salariale e alcune poste della spesa assistenziale (in particolare i sussidi per gli affitti).
L’impatto redistributivo della legge di bilancio 2018 è nettamente a favore dei redditi più elevati (il 2% più ricco), mentre tutti gli altri centili della distribuzione rimangono a reddito invariato, tranne i poverissimi (il primo ventile) e le classi medie superiori che perdono in maniere significativa. È qui che si rompe il rapporto di fiducia tra Macron e le classi popolari: dopo dieci anni di sacrifici, queste vedono il primo atto del nuovo Presidente premiare i soliti noti, e diventare quindi, nell’immaginario popolare, il “Presidente dei ricchi” a cui non viene a quel punto perdonata qualche dichiarazione maldestra immediatamente letta come un sintomo di disprezzo verso la Francia che si sveglia presto. All’inizio degli anni Novanta uno stratega di Bill Clinton coniò lo slogan “è l’economia stupido”, che si rivelò essere una letale arma politica contro George Bush, al punto di marcare gli spiriti di un’intera generazione. Un avversario di Emmanuel Macron potrebbe oggi rielaborarlo: “è la giustizia sociale stupido”.
Si aggiunga che Macron, come prima di lui Matteo Renzi, paga una pratica del potere basata sulla comunione tra il leader e la folla, un cesarismo che va a scapito dei corpi intermedi che nelle moderne democrazie liberali dovrebbero mediare e favorire i compromessi. Un approccio che, appena la marea cambia, lascia il leader, le président jupitérien, nudo di fronte all’ira della folla.
Riuscirà Macron a invertire la tendenza? La legge di bilancio per il 2019, e ancora di più le misure votate a dicembre in seguito alla rivolta dei gilet gialli, provano a placare lo scontento, aumentando il potere d’acquisto complessivo di circa 11 miliardi di euro; una somma che va a beneficio soprattutto delle classi medio inferiori, e che riequilibra parzialmente le misure del 2018. Ma queste misure, prese sull’onda della protesta popolare, rischiano di restare episodiche, perché non sembrano derivare da un cambiamento di quadro concettuale. Macron non può, al costo di rinnegare tutta la sua storia e il suo progetto politico, abbandonare l’idea che il modo migliore per favorire la crescita sia il liberare le forze più produttive, che lui identifica con i grandi capitali e i redditi più elevati. Poco importa che la teoria dello “sgocciolamento” (date ai più ricchi e la crescita generata finirà per portare benefici a tutti) sia stata confutata da tutta l’analisi recente, da Thomas Piketty ai lavori recenti di Fondo Monetario e OCSE.
L’evidenza empirica mostra in modo sempre più inequivocabile che l’aumento della disuguaglianza iniziato negli anni Ottanta non è lo specchio di una maggiore produttività delle élites, ma piuttosto di una loro maggiore capacità di estrarre rendite di posizione da una società in cui la protezione sociale diminuisce mentre la concorrenza delle classi medie dei paesi emergenti aumenta. Ciononostante, la teoria dello sgocciolamento costituisce un pilastro della concezione di Emmanuel Macron, e spiega l’ostinazione a non voler ritornare sull’abolizione della patrimoniale, una misura simbolica, la cui reintroduzione tuttavia equivarrebbe per lui a rinnegare la sua storia politica e la sua visione del mondo. È utile rimarcare che nonostante il riequilibrio recente, i grandi vincitori dei due primi anni di presidenza Macron rimangono i ricchi e i ricchissimi.
È questo il dramma della Francia di oggi: essa è stretta tra un Presidente giovane che porta un progetto di società vecchio, e un movimento di protesta eterogeneo, destrutturato, e incapace di proporre una visione politica alternativa. Il rischio è che a raccogliere i frutti di questa impasse alla fine sia Marine Le Pen.
@fsaraceno
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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