Le sfide macroeconomiche e di governance del post Covid dovranno rilanciare la crescita e orientarla verso la transizione ecologica
Dopo essere state investite dalla pandemia del Covid, le economie dei Paesi avanzati sono salite su un ottovolante. L’impatto sulla crescita è stato devastante. La chiusura amministrativa di interi settori dell’economia e il tracollo di consumi e investimentihanno provocato un immediato crollo del Pil, che ha fatto impallidire quello osservato in occasione della crisi finanziariaglobale. Altrettanto spettacolare, ben oltre le attese degli istituti di previsione, è stato il rimbalzo estivo. La ripartenza ha in qualche modo mostrato la giustezza della scelta dei Governi di sostenere redditi e posti di lavoro, consentendo a consumi e investimenti di ripartire non appena le restrizioni sono state revocate. L’autunno e la seconda ondata poi hanno di nuovo precipitato la situazione. Le ultime previsioni disponibili per la zona euro (quelle della Bce del dicembre 2020) hanno rivisto al ribasso la crescita per il 2021: +3,9%, dopo il -7,3% del 2020 (per l’Italia si dovrebbe stare intorno al -9% e +3,5% per 2020 e 2021 rispettivamente). Non si dovrebbe tornare ai livelli del 2019 prima della fine del 2022, e ben dopo per alcuni paesi tra cui il nostro.
Quello che è più preoccupante, tuttavia, non è tanto il calo del Pil, ma il possibile effetto permanente della crisi. Nonostante l’impegno dei Governi, molte imprese falliranno. Questo, insieme al crollo degli investimenti degli scorsi mesi, porterà in dote un calo dello stock di capitale e quindi del reddito potenziale (la capacità massima di produzione dell’economia); il capitale non si ricostituisce in un giorno, per cui serviranno anni prima di lasciarsi alle spalle la crisi. Nei prossimi anni quindi la politica economica dovrà avere come obiettivo principale il sostegno dell’investimento, sia pubblico che privato. In questo senso è rassicurante che l’Europa abbia deciso di incentrare la propria politica di rilancio su di un massiccio programma di investimenti (il programma Next Generation EU).
Come notava la capo economista dell’Ocse Laurence Boone in un’intervista recente al Financial Times, sarà importante mantenere il sostegno delle politiche economiche invariato anche una volta che l’economia sarà ripartita, in modo da garantire un flusso stabile di investimento pubblico e privato. Dopotutto, nota a ragione Boone, anche durante la crisi finanziaria globale le politiche economiche inizialmente erano state espansive. La svolta affrettata verso l’austerità è avvenuta, soprattutto in Europa, in un secondo momento (a partire dal 2010). Quindi, una prima sfida consisterà nel resistere alle sirene dell’austerità che inevitabilmente torneranno a farsi sentire quando la crescita riprenderà e l’enorme stock di debito accumulato in questi mesi incomberà sul dibattito pubblico.
La gestione del debito
Proprio la gestione dello stock di debito costituisce la seconda grande sfida dei prossimi anni. L’emissione netta da parte dei governi dell’area dell’euro ha raggiunto in soli sei mesi, tra marzo e agosto del 2020, lo stesso livello che raggiunse in un anno e mezzo dopo la crisi finanziaria globale (tra settembre 2008 e febbraio 2010). Tuttavia, non ci si dovrebbe inquietare oltremisura della sostenibilità delle finanze pubbliche. Intanto, vale la pena ricordare che lo Stato non deve “ripagare” il debito, ma solo rifinanziarlo a scadenza. Questo vuol dire che ogni livello di debito è sostenibile fin tanto che le entrate fiscali coprono le spese per gli interessi e il debito non è su una traiettoria esplosiva. Nei prossimi anni questo sarà di fatto garantito dalla Bce, che con il suo programma di acquisti di titoli ha da un lato creato domanda per il debito pubblico e dall’altro rassicurato i mercati rendendo la probabilità di default nulla. Ricordiamo che nel 2020 tutte le aste per le emissioni italiane hanno visto una domanda da parte dei risparmiatori abbondantemente superiore all’offerta. Ma anche quando l’ombrello della Bce verrà chiuso è probabile che i tassi di interesse rimarranno bassi ancora a lungo. I Paesi avanzati infatti flirtano da anni con la “stagnazione secolare”, una situazione in cui il risparmio tende a essere eccessivo e l’investimento compresso. Questo porta ad una cronica insufficienza di domanda aggregata e quindi ad inflazione strutturalmente bassa e tassi di interesse vicini allo zero. Questa tendenza alla stagnazione secolare sarà probabilmente la malattia delle economie avanzate dei prossimi anni; ne abbiamo visto un’anteprima nel lungo periodo di deflazione giapponese.
In questa situazione di tassi strutturalmente bassi il debito non sarà un problema (lo prova proprio il Giappone, con un debito monstre di più del 200% del Pil); dovrà anzi essere parte della soluzione, andando a finanziare quell’investimento che potrà contribuire a sfuggire dalla trappola della stagnazione secolare. Vale la pena infine di ricordare, poiché molti parlano ancora oggi di necessari sacrifici futuri, che mai, nella storia recente, il debito accumulato in circostanze eccezionali è stato “ripagato” con avanzi di bilancio che avrebbero richiesto decenni di politiche restrittive. Circostanze eccezionali hanno richiesto misure eccezionali (il caso inglese del secondo dopoguerra è paradigmatico) molte delle quali sono state evocate in questi mesi: dall’inflazione (se si riuscirà ad averla!) alla repressione finanziaria, all’emissione di obbligazioni perpetue o ancora alla monetizzazione. E per molte di queste, nella situazione corrente di tassi e inflazione cronicamente bassi, i costi sarebbero di gran lunga inferiori a quelli di un’austerità che devasterebbe economie rese fragili da due crisi globali in poco più di dieci anni.
Infine, occorrerà fare tesoro dei successi (e dei molti errori) degli scorsi anni per mettere mano alla riforma delle istituzioni europee.
Rilanciare la crescita
La necessità di sostenere l’investimento pubblico influenzerà, si spera, il dibattito sulla revisione delle regole di bilancio europee lanciato dalla Commissione nel febbraio 2020 (ricordiamo che qualche settimana dopo la Commissione ha per la prima volta nella sua storia attivato la clausola di sospensione generalizzata del Patto di stabilità, per consentire ai Paesi membri di contrastare la pandemia). La Commissione stessa riconosce oggi che le regole europee hanno reso la politica di bilancio un fattore di instabilità e non di stabilizzazione: in primo luogo il quadro attuale è eccessivamente complesso, arbitrario, difficile da far rispettare; poi, e soprattutto, il Patto di stabilità ha spinto i Paesi europei a fare politiche pro-cicliche (in particolare tra il 2010 e il 2013) e a penalizzare l’investimento pubblico. Ci sono molte proposte di riforma sul tavolo. Quella a cui va la preferenza di chi scrive, la golden rule, ha lo scopo di preservare l’investimento pubblico consentendo di finanziarlo con debito, mentre le spese correnti devono essere coperte dalle entrate correnti. Gli eventi di questi mesi hanno mostrato come rispetto alla versione di cui si parla da decenni (e che fu applicata nel Regno Unito alla fine degli anni Novanta), la golden rule oggi dovrebbe essere “aumentata” per consentire di finanziare qualunque spesa (ad esempio nella sanità) capace di incrementare il capitale materiale e immateriale.
Nella zona euro, poi, occorrerà correggere alcune storture che rendono i Paesi membri vulnerabili alla speculazione. La Fed americana, la Bank of Japan o la Bank of England ci mostrano come lo scudo della Banca centrale sia fondamentale per rendere il debito pubblico sicuro, quindi appetibile, quindi a buon mercato. Occorrerà trovare un modo di consentire alla Bce di intervenire sui mercati in modo meno barocco di come, a causa dei vincoli posti dai trattati, ha dovuto fare fino ad ora. Il sacrosanto bisogno di evitare il comportamento opportunistico di governi irresponsabili (che giustifica il divieto di finanziamento diretto) non può essere soddisfatto rendendo tutti vulnerabili alla speculazione, e quindi incapacitati di usare la politica di bilancio.
Le sfide dei prossimi anni ruoteranno intorno alla capacità di ricostruire uno stock di capitale (materiale e immateriale) che consenta di rilanciare la crescita e di canalizzarla verso la transizione ecologica. Le politiche macroeconomiche, la gestione dell’eredità della crisi, le riforme della governance, dovranno tutte essere tese a perseguire questo obiettivo a livello europeo e di singoli Stati membri.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
Le sfide macroeconomiche e di governance del post Covid dovranno rilanciare la crescita e orientarla verso la transizione ecologica
Dopo essere state investite dalla pandemia del Covid, le economie dei Paesi avanzati sono salite su un ottovolante. L’impatto sulla crescita è stato devastante. La chiusura amministrativa di interi settori dell’economia e il tracollo di consumi e investimentihanno provocato un immediato crollo del Pil, che ha fatto impallidire quello osservato in occasione della crisi finanziariaglobale. Altrettanto spettacolare, ben oltre le attese degli istituti di previsione, è stato il rimbalzo estivo. La ripartenza ha in qualche modo mostrato la giustezza della scelta dei Governi di sostenere redditi e posti di lavoro, consentendo a consumi e investimenti di ripartire non appena le restrizioni sono state revocate. L’autunno e la seconda ondata poi hanno di nuovo precipitato la situazione. Le ultime previsioni disponibili per la zona euro (quelle della Bce del dicembre 2020) hanno rivisto al ribasso la crescita per il 2021: +3,9%, dopo il -7,3% del 2020 (per l’Italia si dovrebbe stare intorno al -9% e +3,5% per 2020 e 2021 rispettivamente). Non si dovrebbe tornare ai livelli del 2019 prima della fine del 2022, e ben dopo per alcuni paesi tra cui il nostro.
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