Al momento, il parlamento è eletto dai clan: gli anziani scelgono alcuni rappresentanti e poi li votano, e il presidente è eletto dal parlamento. La riforma decisa la settimana scorsa sconvolge il sistema: introduce il suffragio per tutti i cittadini somali e non soltanto per pochi rappresentanti dei clan
Dopo oltre cinquant’anni, la Somalia potrebbe tornare a tenere elezioni democratiche. Lo ha annunciato il governo federale del Paese, spiegando che le elezioni del 2024 dovrebbero essere le prime a tenersi secondo le nuove regole, e quindi a suffragio universale diretto. “L’elezione della Repubblica federale somala deve dare ai cittadini l’opportunità di esprimere il proprio voto in maniera democratica, seguendo il principio di una persona, un voto” ha dichiarato il governo, nel giustificare il prossimo cambiamento.
La decisione è arrivata la scorsa settimana, dopo giorni di discussioni tra i principali rappresentanti politici somali. Il cambiamento è infatti frutto di un accordo tra il Presidente federale Hassan Sheikh Mohamud, il Primo Ministro Hamza Abdi Barre, il Sindaco di Mogadiscio e quattro leader degli stati federati. Tra questi, mancava tuttavia il Presidente del Puntland, regione che è governata in maniera pressoché autonoma dal potere centrale dal 1998.
Il condizionale resta tuttavia d’obbligo. In primis, perché nulla è ancora ufficiale: il coinvolgimento di tutti i leader politici lascia pensare che la decisione sia condivisa e non sia destinata ad incontrare grosse resistenze, ma prima di diventare definitiva questa dovrà essere approvata dal Parlamento somalo. Inoltre, non sarebbe la prima volta che il Paese ritorna sui propri passi. Già nel 2020 c’era stato un tentativo di riformare il sistema elettorale e di introdurre cambiamenti simili a quelli riproposti in questi giorni. Alla riforma era seguito però un lungo periodo di scontri e di crisi istituzionale, che aveva obbligato Mogadiscio a rinunciare almeno momentaneamente alle modifiche previste.
Se questa volta il suffragio universale diretto dovesse entrare in vigore, la Somalia supererebbe il proprio sistema elettorale clanico, un’eccezione a livello globale. Al momento, infatti, il parlamento è eletto dai clan presenti nel Paese: in ognuno di questi gruppi sociali, gli anziani scelgono alcuni rappresentanti, che poi votano a loro volta per stabilire la composizione del parlamento nazionale. Il presidente è in seguito eletto dal parlamento, in maniera indiretta. I clan sono determinanti anche per l’ottenimento delle diverse cariche politiche – presidente, primo ministro, speaker del parlamento – ognuna delle quali spetta ad un diverso gruppo.
La riforma in programma sconvolgerebbe il sistema, con riforme cruciali. Si introdurrebbe il suffragio per tutti i cittadini somali e non soltanto per pochi rappresentanti di clan. Si andrebbe ad eliminare la figura del primo ministro. E si andrebbe a regolare il sistema multipartitico, rendendo possibile la presenza di due sole formazioni e non di un numero illimitato di queste come adesso, nel tentativo di dare una stabilità.
La Somalia aveva già tenuto elezioni democratiche, dall’indipendenza fino al 1969. Nonostante le alte aspettative riposte dalla comunità internazionale nello stato e nelle sue possibilità di sviluppo, grazie alla sua forte omogeneità etnica, la breve esperienza democratica era stata caratterizzata da forti scontri a livello clanico. Questo aveva portato numerosi analisti a pensare che la società somala fosse intrinsecamente divisa e che non fosse possibile la creazione di un vero stato unitario.
In seguito, le elezioni erano state abolite sotto la dittatura di Siad Barre. Ma anche dopo la fine del regime e della successiva guerra civile, si era deciso di non ripristinare un sistema basato sul suffragio universale. Il conflitto somalo aveva infatti aggravato la frammentazione dello stato, portando ad una sua dissoluzione, e aveva rafforzato l’idea che la Somalia non potesse funzionare se non basandosi sul potere dei clan.
Negli anni, tuttavia, questa visione è stata contrastata da alcuni politologi, che hanno affermato come in passato i clan abbiano svolto un ruolo senza dubbio centrale per la popolazione somala, ma più che altro dal punto di vista sociale. “La maggioranza della popolazione somala conduce una vita nomade. L’appartenenza al clan è quindi come una carta d’identità, un modo per farsi riconoscere” spiegava ancora negli anni Novanta Axmed Ashkir Bootan, ex ministro dell’educazione somalo in seguito rifugiato in Italia. Diverso invece il discorso dal punto di vista politico. Bootan sottolineava come la politicizzazione dei clan fosse in realtà nient’altro che una conseguenza di precise scelte coloniali, volte a dividere la popolazione per rendere più complessa una lotta di liberazione somala.
Ancora oggi, l’importanza dei clan nella politica non sarebbe una conseguenza della divisione della società somala in gruppi in contrasto tra loro. Al contrario, la frammentazione della società sarebbe invece il frutto di giochi politici e lo strumento dei clan verrebbe usato come arma dalle diverse fazioni politiche, per mantenere il potere e escludere i gruppi rivali.
La riforma del sistema elettorale somalo rappresenta quindi un passo avanti fondamentale. Se dovesse avere successo, potrebbe portare infatti non tanto ad una reale unificazione della Somalia – una prospettiva lontana e che non rappresenta necessariamente la direzione verso cui lo stato deve andare – ma piuttosto ad una diminuzione della tensione tra i vari gruppi che compongono la popolazione.