L’intoppo diplomatico tra gli Stati Uniti ed El Salvador
Il rifiuto del Presidente Bukele di incontrare l'inviato speciale Usa mette in luce le possibili difficoltà che Biden potrebbe avere con il Centro America nella gestione dei flussi migratori
Il rifiuto del Presidente Bukele di incontrare l’inviato speciale Usa mette in luce le possibili difficoltà che Biden potrebbe avere con il Centro America nella gestione dei flussi migratori
Questa settimana un apparentemente piccolo – ma significativo – intoppo diplomatico tra gli Stati Uniti ed El Salvador ha fatto emergere le difficoltà che l’amministrazione di Joe Biden potrebbe incontrare con i Governi centroamericani nella gestione dei flussi migratori.
Cosa è successo
È successo che mercoledì 7 aprile il Presidente di El Salvador, Nayib Bukele, si è rifiutato di incontrare l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Triangolo del nord (ovvero Guatemala, Honduras ed El Salvador), Ricardo Zúñiga. E si è rifiutato principalmente per ripicca. A inizio febbraio infatti, in piena campagna elettorale salvadoregna – elezioni che peraltro stravinse –, Bukele andò a Washington con l’obiettivo di farsi fotografare insieme a qualche membro importante della nuova amministrazione. Nessuno, però, accettò di riceverlo.
Ad alimentare l’irritazione di Bukele ha contribuito poi il portavoce del dipartimento di Stato americano, che il 5 aprile, durante una conferenza stampa, ha detto che l’amministrazione Biden si aspetta da lui che “ripristini una forte separazione dei poteri”: Bukele ha mostrato tendenze autoritarie e ha approfittato della crisi pandemica per accumulare potere nelle sue mani.
I migranti alla frontiera degli Stati Uniti
Prima di arrivare ad El Salvador, l’inviato Zúñiga era stato in Guatemala. Il suo viaggio nel Triangolo del nord dell’America centrale è direttamente legato al problema migratorio che l’amministrazione Biden ha difficoltà a gestire in patria. I migranti che entrano irregolarmente in territorio statunitense dal confine con il Messico provengono principalmente dai paesi di questa regione: Honduras, Guatemala, El Salvador.
Joe Biden dice di voler ricostruire il sistema dell’immigrazione americano, eliminando in particolare le politiche più crude implementate dal suo predecessore Donald Trump: la separazione dei migranti minorenni dalle loro famiglie, innanzitutto. Ma deve fare i conti con un aumento straordinario dei flussi in entrata. Nel mese di marzo le autorità statunitensi hanno preso in custodia 172.331 migranti, di cui 18.890 erano bambini e ragazzi minorenni non accompagnati: l’ultima volta che la U.S. Border Patrol, la polizia di frontiera, aveva fatto più arresti era il marzo del 2001.
Flussi migratori così tanto voluminosi rappresentano un’enorme sfida logistica, specialmente per quanto riguarda i minori non accompagnati, che richiedono un trattamento particolare, vista la loro vulnerabilità. Ma per Biden il problema è anche politico – i Repubblicani che lo attaccano da una parte, e i Democratici di sinistra dall’altra – ed economico: stando al Washington Post, l’amministrazione Biden spende almeno 60 milioni di dollari a settimana per la gestione dei minori non accompagnati che si trovano nelle strutture del dipartimento della Salute.
Le cause delle migrazioni
Alcuni commentatori sostengono che la crescita dei flussi sia dovuta al cosiddetto “effetto Biden”: i migranti, cioè, si metterebbe in viaggio verso gli Stati Uniti perché convinti che Biden sia più accogliente di Trump, e che dunque li farà entrare. È un’interpretazione semplicistica. D’altra parte, Joe Biden ha detto che l’aumento delle migrazioni è coerente con i pattern stagionali e l’ha paragonato ai picchi registrati nei due anni precedenti. Anche questa spiegazione è però troppo superficiale: gli ultimi dati raccontano al contrario una situazione anormale alla frontiera.
Le migrazioni sono fenomeni complessi, e spiegarne le cause – sono sempre più di una – è difficile. Ci sono prima di tutto i fattori di spinta (push factors). I centroamericani, cioè, partono perché spinti dalle condizioni interne ai loro paesi di origine: la violenza, la corruzione, gli eventi climatici estremi che danneggiano i raccolti agricoli e cancellano fonti di reddito importanti.
Ci sono poi i fattori di attrazione, o pull factors: sia quelli tradizionali (l’attrattività generale degli Stati Uniti, il sogno americano, la possibilità di una vita migliore per sé e i propri figli), sia quelli temporanei (la convinzione, genuina o indotta dai trafficanti, che Biden sia più permissivo).
A questi fattori si sommano i pattern stagionali: di solito i flussi migratori verso gli Stati Uniti sono più numerosi in primavera perché c’è una maggiore domanda di lavoratori stagionali.
In ultimo, da tempo si sta osservando un cambiamento nelle modalità di migrazione: prima i migranti erano per la quasi totalità adulti singoli, che cercavano di entrare negli Stati Uniti per trovare lavoro; adesso invece si registra un aumento delle famiglie con figli che cercano di ottenere l’asilo politico, innescando procedure legali diverse e più lunghe.
Cosa vuole fare Biden, e perché sarà difficile
Biden ha detto di voler risolvere la questione migratoria alla radice, andando cioè a migliorare la situazione – in termini di sicurezza, stabilità politica e opportunità economiche – in America centrale. Per il momento, ha chiesto al Messico di continuare a svolgere il suo ruolo tradizionale di “respingitore”: il paese ha aumentato il numero delle forze dell’ordine schierate al confine con il Guatemala per rimandare indietro i migranti che cercano di passare, nel loro viaggio verso nord.
Il Messico però ha altri obiettivi. Il presidente Andrés Manuel López Obrador – che ha rilanciato la tesi dell’“effetto Biden” sulle migrazioni – vorrebbe infatti realizzare un piano di investimenti per lo sviluppo del Messico meridionale e dell’America centrale, con il contributo economico degli Stati Uniti. Trump non aveva intenzione di partecipare all’iniziativa, ma Biden potrebbe. López Obrador vuole inoltre da Washington un nuovo programma per i lavoratori stagionali che possa consentire a 600mila-800mila messicani e centroamericani all’anno di entrare negli Stati Uniti e lavorare per un certo periodo di tempo.
Oltre ad ottenere uno sforzo contenitivo alla frontiera meridionale messicana, Joe Biden ha affidato alla vicepresidente Kamala Harris il dossier migratorio, che prevede lo sviluppo dei contatti diplomatici con il Messico e con Honduras, Guatemala ed El Salvador.
Al di là delle ripicche di Bukele, potrebbe non essere semplice per l’amministrazione Biden ottenere la collaborazione del Triangolo del nord: oltre alle tendenze autoritarie, c’è anche una diffusa corruzione politica. La regione non ha inoltre un vero interesse nel disincentivare l’emigrazione: le rimesse che i centroamericani negli Stati Uniti rimandano in patria sono una fonte di valuta straniera fondamentale per i governi della zona, oltre a contribuire notevolmente ai vari Pil.
Il rifiuto del Presidente Bukele di incontrare l’inviato speciale Usa mette in luce le possibili difficoltà che Biden potrebbe avere con il Centro America nella gestione dei flussi migratori
Questa settimana un apparentemente piccolo – ma significativo – intoppo diplomatico tra gli Stati Uniti ed El Salvador ha fatto emergere le difficoltà che l’amministrazione di Joe Biden potrebbe incontrare con i Governi centroamericani nella gestione dei flussi migratori.
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