Dal Myanmar alla Thailandia, i regimi del Sud-est asiatico sotto attacco "spengono" Internet. In Cambogia si teme l'effetto domino e ci si premunisce con il modello web cinese
Dal Myanmar alla Thailandia, i regimi del Sud-est asiatico sotto attacco “spengono” Internet. In Cambogia si teme l’effetto domino e ci si premunisce con il modello web cinese
“Se si aprono le finestre per fare entrare aria fresca, è necessario aspettarsi che entrino anche alcune mosche”. Parola di Deng Xiaoping. La celebre citazione del “piccolo timoniere” della Repubblica popolare, successore di Mao Zedong, viene considerata alla base dell’approccio cinese al mondo di Internet.
In Cina, intorno alla Rete è stata costruita negli anni una grande muraglia virtuale, la cosiddetta “Great Firewall“. Obiettivo: evitare il ronzio di idee ostili o contrarie al Partito comunista e “garantire la sicurezza nazionale”, proteggendo gli utenti cinesi dalle influenze esterne. Il tutto creando un ecosistema autoctono e autosufficiente di siti, app e servizi, aggirabile con l’utilizzo di vpn la cui gradazione di libertà di movimento viene manovrata dalle autorità di volta in volta. Di recente, il modello cinese sembra sempre più appetibile anche in altri Paesi.
Con la pandemia da coronavirus si sono accentuate tendenze autoritarie in Asia, in particolare nel Sud-est. L’onda lunga delle proteste di Hong Kong del 2019 è arrivata negli scorsi mesi in Thailandia e in Indonesia. Poi in Myanmar, dopo il golpe militare dello scorso 1° febbraio. Le motivazioni e gli obiettivi delle proteste sono diverse, ma alla base c’è una comune rivendicazione giovanile di maggiore democrazia e libertà. Ambizioni che passano anche attraverso il web, i social network e gli hashtag come #MilkTeaAlliance, che unisce idealmente gli attivisti dei diversi Paesi dell’area.
Con l’aumento generale di accesso alla Rete, sono in aumento anche le limitazioni delle libertà digitali. Anche dove le proteste non si sono ancora diffuse, proprio con l’obiettivo di prevenire che il ronzio delle “mosche” pro democrazia possa farsi sentire. Succede per esempio in Cambogia, dove l’esecutivo ha emesso nei giorni scorsi un decreto che istituisce un protocollo Internet per il controllo e il monitoraggio del traffico online. Tutte le reti dovranno collegarsi a un gateway al quale dovranno fornire moduli compilati con identità e generalità degli utenti. Il mancato allacciamento al gateway, che dovrà avvenire entro un anno, potrebbe comportare la sospensione delle licenze operative ai fornitori di servizi e persino il blocco dei conti bancari. L’intenzione annunciata è quella di “prevenire e disconnettere tutte le connessioni di rete che minacciano sicurezza, ordine sociale, moralità, tradizioni e costumi” cambogiani. L’operatore del gateway dovrà aggiornare le autorità sul traffico con report regolari. Secondo il Centro cambogiano per i diritti umani la nuova legge avrà ripercussioni non solo sulla protezione dei dati e la privacy, ma anche sulla libertà di parola.
Il nuovo sistema cambogiano ha subito portato a dei paragoni con la Great Firewall cinese. Phnom Penh appare da tempo sempre più integrata negli ingranaggi del Dragone. Basti pensare al viaggio del Primo Ministro Hun Sen a Pechino a inizio febbraio 2020, unico leader straniero a compiere un simile gesto nelle primissime fasi della pandemia. La presenza dei progetti della Belt and Road hanno cambiato il volto di diverse aree della Cambogia. La cooperazione è profonda anche sul piano sanitario: Pechino ha da poco donato al vicino un milione di dosi del suo vaccino di Sinopharm. Collaborazione anche in campo militare, nonostante l’annullamento delle esercitazioni congiunte Golden Dragon, in programma tra il 13 e il 27 marzo, per i rischi legati al Covid (anche se c’è chi ritiene che possa anche essere un segnale di disponibilità al dialogo con l’amministrazione Biden). Da tempo si rincorrono voci, ufficialmente smentite, sull’utilizzo dei porti cambogiani da parte di mezzi navali militari dell’Esercito popolare di liberazione.
Hun Sen è al potere da 36 anni, il che lo rende uno dei leader mondiali più longevi. La mossa sembra una precauzione di fronte al diffondersi delle proteste nei Paesi limitrofi. L’esposizione dei giovani cambogiani alle rivendicazioni dei coetanei stranieri è aumentata negli ultimi anni, visto che tra il 2014 e il 2020 gli internauti sono passati da cinque a oltre venti milioni.
Fenomeno comune al Vietnam, dove lo scorso anno Facebook ha superato i 60 milioni di utenti. Anche qui il Governo, impegnato in una campagna di repressione del dissenso che ha portato in carcere oltre a diversi rivali politici dei leader anche attivisti e giornalisti, ha reagito con una stretta sul web. In particolare sui social media, costretti a sottoscrivere un accordo per la rimozione dei contenuti ritenuti sovversivi. Dopo l’accordo, Facebook avrebbe cancellato il 95% dei post segnalati dalle autorità, YouTube il 90%.
Laddove l’espressione del dissenso è più evidente, più forte è anche la repressione. Per esempio in Thailandia, dove sono state approvate nuove leggi per colpire chi critica online il Governo e la monarchia. Oppure in Myanmar, dove il Tatmadaw ha bloccato a intermittenza l’accesso a Internet dall’inizio della disobbedienza civile e delle manifestazioni contro il golpe militare e l’arresto dei leader democratici tra cui Aung San Suu Kyi.
Lo stesso accade in India, dove le autorità hanno più volte limitato la navigazione in alcune aree di Nuova Delhi (e non solo) per rispondere alle proteste di massa dei contadini contro la riforma agraria del Primo Ministro Narendra Modi. Nel mirino dei Governi, per esempio quello di Bangkok, sono finite anche le app di messaggistica come Telegram. Ma le giovani generazioni continuano a trovare nuovi strumenti per scambiarsi opinioni e organizzare proteste e manifestazioni. Per esempio Signal, che garantisce livelli di privacy più alti delle concorrenti, oppure Bidgefy, dove si possono mandare e ricevere messaggi anche offline. Regimi militari e governi autoritari già minacciati dalle proteste reagiscono con vecchie ricette repressive. Chi invece per il momento vuole prevenirle pensa a modelli più sofisticati di controllo del mondo digitale, come quello cinese. In ogni caso, scacciare il “ronzio” non sarà un esercizio indolore.
Dal Myanmar alla Thailandia, i regimi del Sud-est asiatico sotto attacco “spengono” Internet. In Cambogia si teme l’effetto domino e ci si premunisce con il modello web cinese
“Se si aprono le finestre per fare entrare aria fresca, è necessario aspettarsi che entrino anche alcune mosche”. Parola di Deng Xiaoping. La celebre citazione del “piccolo timoniere” della Repubblica popolare, successore di Mao Zedong, viene considerata alla base dell’approccio cinese al mondo di Internet.
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