Dalla spaccatura tra i militari al ruolo delle potenze straniere. Le tensioni tra esercito e forze paramilitari esplose nei giorni scorsi rappresentano la punta dell’iceberg di uno stallo generale che impedisce la stabilità della nazione
Il Sudan sembra essere lontanissimo da una parvenza di stabilità, tanto auspicata dalla comunità internazionale e dagli attori stranieri in causa nel processo di pacificazione della nazione. Una stabilità che è parsa a più riprese vicina, ma che inesorabilmente ripiombava nel caos con proteste, manifestazioni e violenze contro civili e organizzazioni per la democrazia, sullo sfondo della diatriba cruciale sviluppatasi negli ultimi mesi: quella tra il capo delle forze armate, il Generale Abdel Fattah al-Burhan e il responsabile del gruppo paramilitare delle Forze di Supporto Rapido, RSF, il Generale Mohammed Hamdan Dagalo.
Lo scontro tra l’esercito e i paramilitari per il controllo del Sudan rappresenta un nuovo apice di violenza: secondo Sudan Doctors’ Syndicate, sarebbero almeno 97 le persone inermi uccise tra sabato e domenica, centinaia i feriti. Numerosi i combattenti che, secondo il gruppo, avrebbero perso la vita, con le accuse di inizio dell’attacco che si rimpallano tra le forze vicine ad al-Burhan e quelle in supporto a Dagalo. Ci sarebbero contatti tra i due che, come dichiarato da Volker Perthers, inviato delle Nazioni Unite per il Sudan, nel tardo pomeriggio di ieri avrebbero concordato per una pausa dei combattimenti di circa 4 ore per permettere il soccorso umanitario a chi in difficoltà.
Khartoum, ancora una volta, nella morsa della violenza e di un futuro incerto. Eppure, negli anni passati, la situazione sembrava volgere verso un percorso ben differente, col Paese cancellato dalla black list degli Stati Uniti di nazione sponsor del terrorismo con la cacciata di Omar al-Bashir. La fine della dittatura venne accolta positivamente dall’intera comunità internazionale, con gli Usa di Donald Trump molto attivi nell’aiutare Khartoum a superare il burrascoso passato. La nazione ha inoltre avviato il dialogo con Israele per il riconoscimento reciproco, una delle richieste imposte dall’allora amministrazione repubblicana a Washington per permettere l’arrivo degli aiuti economici.
La liquidità degli eventi non permette valutazioni positive, da analizzare anche nell’ottica della presenza delle forze straniere coinvolte. Non solo Usa e Israele, infatti, sono protagonisti delle vicende politiche nel Paese arabo-africano; anche la Russia, che storicamente ha mantenuto rapporti con la nazione specie nel periodo di al-Bashir, procede verso tentativi di riallaccio stretto dei rapporti con i decisori a Khartoum. Recentemente, come raccontato da eastwest, la giunta militare ha dato il via libera all’accordo di 25 anni con Mosca — sottoscritto ai tempi dell’ex dittatore — per la costruzione di una base navale della Federazione nel Mar Rosso, a Port Sudan.
Parliamo di un tratto di mare strategico per il commercio internazionale, dove passa il 30% del traffico container mondiale, che potenzialmente proietta la forza russa verso l’Oceano Indiano. In cambio, il Sudan riceverà armi e munizioni belliche, mentre la Russia potrà inviare 300 militari, mantenere simultaneamente fino a 4 navi, compresa una a propulsione nucleare, e stabilizzarsi per un periodo di 25 anni. Se le parti non solleveranno obiezioni, l’agreement si prolungherà di altri 10 anni.
Da segnalare anche il ruolo di Egitto, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti nella stabilità del Sudan. Proprio nei giorni degli ultimi scontri, truppe egiziane che regolarmente svolgono esercitazioni con i colleghi sudanesi si trovavano in una base militare nel Paese. I paramilitari hanno affermato che il personale del Cairo sarebbe stato rimpatriato immediatamente. Sia al-Burhan che Dagalo intrattengono rapporti con i leader sauditi ed emiratini, tanto che elementi del gruppo paramilitare hanno partecipato alla guerra civile in Yemen sul fronte opposto ai filo-iraniani, ovvero con la coalizione guidata da Riad. Quella del Sudan è una storia insanguinata dal forte sapore geopolitico, anch’essa specchio della modifica dello status quo a livello internazionale.