L’impero dei chip oggi è in Asia, con le aziende taiwanesi che controllano il 65% della produzione e quelle sudcoreane il 16%. Ma il confronto geopolitico cavalcato dagli Stati Uniti sta distruggendo il mercato. “La globalizzazione e il libero commercio sono quasi morti” ha dichiarato il fondatore del colosso tech taiwanese TSMC
Se i semiconduttori sono il petrolio del futuro, questo petrolio scorre soprattutto in Asia orientale. In particolare tra Taiwan e Corea del Sud. Entrambe al centro di tensioni diplomatiche e geopolitiche, entrambe destinatarie di pressioni politiche. Sia Taipei sia Seul hanno rinviato il più in là possibile il momento in cui sarebbero state costrette a operare una scelta di campo. Ma quel momento sembra essere ormai arrivato, con gli Stati Uniti che col passaggio da Donald Trump a Joe Biden non hanno solo mantenuto, bensì intensificato, le manovre per provare a isolare la Repubblica Popolare Cinese nel mercato strategico dei microchip. Il divieto alle esportazioni verso Huawei imposto nel 2020 alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, comunemente nota come TSMC, erano solo l’inizio di un processo che si è inasprito negli scorsi mesi e ha acquisito velocità dopo la guerra in Ucraina. I semiconduttori non servono solo a far funzionare computer e smartphone, ma anche armi e mezzi militari. La carenza di chip riscontrata durante le prime fasi della pandemia di Covid-19 e l’invasione russa hanno accelerato la presa di coscienza globale, in primis delle grandi potenze, di quanto sia cruciale il controllo del settore. Ed ecco che i colossi taiwanesi e sudcoreani sono entrati sempre di più nei radar strategici della Casa Bianca e non solo.
D’altronde la dipendenza globale da Taipei e Seul è enorme, pur in un settore composto da molteplici step che hanno origine negli Stati Uniti con il design e passano immancabilmente dai Paesi Bassi per la litografia ultravioletta della ASML. Le aziende taiwanesi controllano oltre il 65% dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio dei semiconduttori. La TSMC da sola pesa oltre il 50%. Il primo competitor è la sudcoreana Samsung col 16% del mercato. Il dominio è ancora più esteso dal punto di vista qualitativo: i produttori taiwanesi detengono il 92% della manifattura di chip sotto i dieci nanometri. Praticamente la totalità di questi se si aggiungono quelli sudcoreani.
Si tratta di un settore fondamentale sia per Taipei sia per Seul e sotto molteplici punti di vista. Innanzitutto economico. I semiconduttori rappresentano da soli il 15% del Pil taiwanese e sono il prodotto che più contribuisce alle esportazioni della Corea del Sud. E Pechino gioca un ruolo fondamentale in entrambi i casi. La Cina rappresenta d’altronde oltre un quarto della domanda annuale globale di apparecchiature per semiconduttori. Secondo le stime di Tony Phoo della banca Standard Chartered, circa il 60% dei chip prodotti da Taiwan viene venduto proprio sull’altra sponda dello Stretto. Circa il 45% della domanda di chip di memoria della Cina continentale è coperto da semiconduttori sudcoreani. Ma, per quanto importanti, non si tratta solo di numeri. Mantenere aperto il flusso di microchip verso la Repubblica Popolare consente di non chiudere il flusso diplomatico, nel caso di Seul, e non cancellare una possibile leva nei rapporti bilaterali, nel caso di Taipei.
Sia la TSMC sia Samsung sono state coinvolte in investimenti faraonici negli Stati Uniti. A inizio dicembre, il Presidente americano Joe Biden ha visitato lo stabilimento del colosso taiwanese in costruzione in Arizona. La TSMC ha peraltro annunciato che triplicherà gli investimenti negli Usa portandoli a sfiorare i 40 miliardi di dollari, con l’avvio dei lavori per un secondo stabilimento “gemello” che fabbricherà semiconduttori a 3 nanometri, la tecnologia più alta a disposizione in questo momento. L’impianto dovrebbe entrare in funzione nel 2024. La Samsung sta invece costruendo una fonderia in Texas. Durante la visita della scorsa primavera a Seul, il primo luogo in cui si è recato Biden è proprio il mega impianto dell’azienda sudcoreana dove si è tenuto un primo simbolico incontro con l’allora neo presidente Yoon Suk-yeol. L’altra sudcoreana SK Siltron è invece attiva nel Michigan. Nei mesi scorsi Chey Tae-won, presidente della casa madre SK Hynix, ha avuto un incontro virtuale con Biden per annunciare investimenti per 22 miliardi di dollari in semiconduttori, batterie per veicoli elettrici e tecnologie verdi negli Stati Uniti, tra cui un nuovo impianto di semiconduttori.
Sia Taiwan sia la Corea del Sud sono coinvolte nel programma Chip 4 lanciato dalla Casa Bianca e che coinvolge anche il Giappone. Il piano è stato citato più volte da Nancy Pelosi durante la sua contestata visita a Taipei, come esempio di cooperazione win-win tra Washington e Taiwan. Eppure, nella Repubblica di Cina (nome col quale Taiwan è indipendente de facto) sono in molti a storcere il naso di fronte al tentativo americano di portarsi in casa la produzione più avanzata di semiconduttori. Il timore è quello di perdere quel cosiddetto “scudo di silicio” che si ritiene possa fungere da potenziale (e molto parziale, c’è da dire) deterrente nei confronti di una possibile azione militare di Pechino. Non è un caso che la TSMC mantenga in attività una fonderia a Nanchino e ha interrotto le spedizioni di chip alla Tianjin Phytium Information Technology, una delle entità cinesi che stanno sviluppando i cosiddetti “supercomputer” con possibili applicazioni anche in campo militare, solo dopo che le è stato intimato dall’amministrazione Biden.
La funzione di quello “scudo di silicio” va vista anche al contrario: per molti taiwanesi rappresenta anche una parziale garanzia della volontà di Washington di difenderli, allo scopo di impedire che le fonderie della TSMC finiscano sotto il controllo del Partito Comunista Cinese. I produttori locali hanno sottolineato più volte che pensare di raggiungere l’autosufficienza sull’intero ciclo di produzione di semiconduttori è un “esercizio futile”. Taiwan ha costruito nel corso dei decenni un sistema integrato di ricerca, sviluppo e produzione che non può semplicemente essere trasferito altrove. Anche qualora ci fosse la volontà di farlo. Cosa che di certo non hanno le aziende. “Il confronto geopolitico sta distorcendo l’intero mercato”, ha lamentato di recente CC. Wei, amministratore delegato della TSMC. “La situazione ha distrutto tutta la produttività e l’efficienza portate dalla globalizzazione”, ha aggiunto Wei. “Queste barriere compromettono seriamente i benefici di un’economia libera. È una situazione davvero negativa”. Ma qualunque manager delle aziende di semiconduttori taiwanesi ripete: “Non vogliamo interrompere il rapporto commerciale con la Cina continentale”.
La stessa cosa succede in Corea del Sud. “Samsung e SK non vorrebbero mai il disaccoppiamento tecnologico con la Cina”, dice Hwang Jihwan, professore di relazioni internazionali alla University of Seoul. Eppure, entrambe le aziende hanno iniziato ad approntare piani di emergenza qualora fossero costrette a recidere quel cordone tecnologico e a chiudere gli stabilimenti che hanno attivi sul territorio cinese.
“La Corea del Sud ha avuto grandi benefici dall’ascesa economica cinese e non vorrebbe mai il disaccoppiamento economico. Ma se sarà costretta a scegliere, non potrà che scegliere di seguire Washington per i legami fondamentali anche e soprattutto in materia difensiva”, spiega Hwang. Un panorama ancora più concreto a Taiwan, dove l’amministrazione della Presidente Tsai Ing-wen non ha dialogo politico da oltre sei anni con Pechino e che, dopo le esercitazioni militari della scorsa estate, vede la tutela difensiva americana come ancora più fondamentale. La leva americana non è solo difensiva, ma anche tecnologica. Nessuno può produrre in massa chip all’avanguardia senza le attrezzature e la tecnologia statunitensi.
Eppure, la stessa Taipei preferirebbe non recidere quel legame. Anche perché in assenza di dialogo politico i colossi tecnologici svolgono il ruolo di ambasciatori. Qualche esempio? Nella primavera del 2021, quando una brillante eradicazione iniziale del Covid-19 aveva portato a un posticipo della campagna vaccinale taiwanese, furono proprio la TSMC e la Foxconn (uno dei principali fornitori di Apple e attiva con impianti giganteschi nella Repubblica Popolare) a sbloccare una pericolosa impasse (prima delle spedizioni di AstraZeneca soprattutto dal Giappone) acquistando su indicazione del governo dieci milioni di dosi di vaccini Pfizer da Fosun Pharma, azienda con sede a Shanghai che deteneva l’esclusiva per la distribuzione del siero anche su Taiwan. Sempre in rappresentanza del governo di Taipei, lo scorso novembre Morris Chang (fondatore della TSMC) ha partecipato al summit dell’APEC a Bangkok. Evento nel quale colui che viene considerato “l’imperatore dei chip” ha anche avuto un breve colloquio bilaterale col Presidente cinese Xi Jinping. L’incontro più rilevante tra rappresentanti delle due sponde dello Stretto dal 2015, quando andò in scena il primo e finora unico summit tra leader col vertice tra Xi e l’allora Presidente taiwanese Ma Ying-jeou a Singapore.
“Un decoupling completo è irrealistico”, ha ammesso a ottobre il vice ministro dell’Economia Chen Chern-chyi. I partiti di opposizione hanno espresso riserve sui piani americani della TSMC. La maggioranza ha provato a tranquillizzare minimizzando il numero degli ingegneri TSMC che andranno a lavorare negli Stati Uniti e in Giappone, dove è in costruzione un altro impianto del colosso. La ministra dell’Economia Wang Mei-hua ha affermato che la TSMC ha più di 50.000 ingegneri sull’isola e che quelli inviati all’estero fanno parte dei piani di espansione globale dell’azienda e non hanno nulla a che fare con la fuga dei cervelli. Il ministro degli Esteri Joseph Wu ha dovuto invece garantire che non ci sono “accordi segreti” con Washington che mettono a repentaglio la leadership taiwanese nel comparto dei semiconduttori. Non a caso è stato poi annunciato che a breve inizieranno i lavori di costruzione di un impianto di produzione di chip a 1 nanometro a Hsinchu, per ribadire che le tecnologie più avanzate resteranno a Taiwan.
Anche la Corea del Sud pesa con attenzione le sue mosse. Fino a qualche tempo fa aveva sempre cercato di mantenersi in equilibrio tra Washington e Pechino, complice anche la presidenza di Moon Jae-in che, cercando con insistenza il riavvio del dialogo con la Corea del Nord, aveva bisogno della mediazione cinese. Il passaggio di consegne al conservatore Yoon, fautore di una linea meno conciliante, ma soprattutto la rottura operata già a fine 2019 da Kim Jong-un e gli effetti collaterali della guerra in Ucraina hanno portato Seul a compiere passi importanti e forse decisivi in direzione degli Usa. Pechino non ha per ora alzato il tiro sulla Corea del Sud come ha invece fatto col Giappone, già da tempo ormai completamente allineato a Washington e in aperta fase di riarmo e superamento della costituzione pacifista impostagli dall’attuale alleato dopo la Seconda guerra mondiale. Ma la “giapponesizzazione” della postura sudcoreana può portare a un inasprimento delle frizioni con la Cina. Cosa che senz’altro succederebbe nel caso in cui da Seul non arrivassero più microchip. Pechino sta provando a evitarlo e negli scorsi mesi ha anche annunciato un fondo e condizioni agevolate per la cooperazione in materia di semiconduttori aperto anche alle aziende sudcoreane.
Persino in Giappone, che sembra essere l’elemento più convinto a seguire la strategia a stelle strisce, c’è qualche perplessità sulle misure della Casa Bianca in materia di semiconduttori e sulle loro conseguenze sull’economia nazionale: le apparecchiature per la produzione di chip sono la seconda fonte di esportazione di Tokyo, e un terzo di esse è destinato proprio alla Cina. Gli Usa sembrano però aver ormai optato per il confronto totale, quantomeno sul fronte dei semiconduttori. E ai partner asiatici, se e quando arriverà il momento di una scelta definitiva, non resterà che seguire. “La globalizzazione e il libero commercio sono quasi morti”, ha amaramente dichiarato Morris Chang, proprio dall’Arizona dopo aver incontrato Biden. Il dado, pardon, il chip sembra proprio tratto.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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