Il modello neo-comunista cinese sta portando il Vietnam a diventare la 19esima economia mondiale e a ereditare da Pechino il ruolo di “fabbrica del mondo”
Il modello neo-comunista cinese sta portando il Vietnam a diventare la 19esima economia mondiale e a ereditare da Pechino il ruolo di “fabbrica del mondo”
Efficace gestione sanitaria, ripartenza economica, continua crescita delle esportazioni, promozione del multilateralismo, stabilità politica, un leader che rompe il vincolo dei due mandati, stretta anti corruzione e repressione del dissenso. Ingredienti che fanno subito venire in mente la Cina. In questo caso si parla però del Vietnam, ambizioso vicino del Dragone la cui rilevanza in ambito regionale e internazionale è in costante aumento. Per Hanoi i tempi dell’invidia verso le cosiddette “tigri asiatiche” sembrano ormai un lontano ricordo.
In questo primo anno (e spiccioli) di pandemia, in occidente la parola “modello” è stata accompagnata quasi sempre dall’aggettivo “cinese”, o al limite “coreano”. Molto meno da “vietnamita”. Eppure, secondo uno studio del Lowy Institute, la performance di contenimento del Covid-19 del Vietnam è la seconda migliore al mondo. Meglio ha fatto, secondo il principale think tank australiano, solo la Nuova Zelanda. A febbraio 2021 i contagi totali erano poco più di duemila e i morti appena 35. Numeri impressionanti in positivo, peggiorati solo da una terza ondata esplosa a fine gennaio in concomitanza con il 13esimo congresso del Partito comunista. Successo simile a quello di Taiwan, ma ancor più difficile visto che il Vietnam non è un’isola, e che nasce soprattutto grazie alla prevenzione. Memore della Sars, Hanoi ha iniziato a chiudere scuole e uffici già a gennaio 2020. I protocolli approntati nel 2003, ai quali lavorò prima di morire l’italiano Carlo Urbani, sono stati riutilizzati alle prime avvisaglie epidemiche in arrivo da Wuhan. La chiusura dei confini e lockdown mirati hanno consentito di tenere sotto controllo il virus, con una pronta riapertura quando l’andamento dei contagi ha consentito di portare avanti tracciamento e test. Il tutto sfruttando la presenza capillare dello Stato, e del Partito, sul territorio: altro punto in comune con la Cina.
La sollecita risposta al rischio sanitario ha consentito al Vietnam di rilanciare prontamente l’economia. Proprio come Pechino, nel momento di maggiore crisi globale Hanoi ha avviato una sua versione della “diplomazia delle mascherine“, con l’invio e la vendita di materiale sanitario che ha raggiunto anche l’Italia. Alla fine del 2020 la crescita del pil è stata persino maggiore di quella cinese: +2,9% contro +2,3%. Si tratta in realtà del dato più basso degli ultimi decenni, anche se secondo le stime nel 2021 si tornerà a crescere oltre il 6%, in linea con la media rispettata dal 2011 al 2019. I semi del progresso sono stati gettati nel 1986, con il lancio delle riforme del Doi Moi, programma che ha consentito il passaggio da una pianificazione centralizzata a un’economia di mercato a orientamento socialista, con qualche anno di ritardo dalla “grande apertura” di Deng Xiaoping. Da allora molto è cambiato. Il Vietnam, sempre con qualche anno di ritardo rispetto alla Cina, è entrato nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2007 e nel nuovo millennio ha elevato 45 milioni di persone da una condizione di povertà assoluta.
La politica economica del Vietnam
Il basso costo del lavoro, nonché la guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, sono stati elementi a favore di Hanoi, che ha accolto e continua ad accogliere la delocalizzazione di linee produttive in fuga dai dazi di Washington. A inizio febbraio, per esempio, la sudcoreana LG ha annunciato un investimento di 750 milioni di dollari nella città portuale di Hai Phong con la creazione di cinquemila nuovi posti di lavoro, portando il totale dei suoi interessi nel Paese a 3,5 miliardi. Modernizzazione economica e digitalizzazione sono due parole chiave della strategia economica vietnamita. Basti pensare che l’export di prodotti elettronici è aumentato del 56% nel 2020. Ma l’economia dipende ancora troppo dalle esportazioni, trainate peraltro dalle multinazionali straniere. Con la Cina impegnata a promuovere la “doppia circolazione” e i consumi interni, il Vietnam sta già raccogliendo, almeno parzialmente, il testimone dalla “fabbrica del mondo” sul lato produttivo. Il Governo sa, però, che per mantenere le previsioni del quadruplicamento del volume del pil entro il 2035, che dovrebbe portare l’economia vietnamita a diventare la 19esima al mondo, è rischioso dipendere solo dal commercio internazionale.
Il Partito pare intenzionato, così come accade in Cina, a controllare più direttamente la politica economica del Paese, convinto che la stabilità politica possa favorire la crescita. I segnali che arrivano dal 13esimo congresso (che ha tra l’altro approvato il nuovo piano quinquennale che prevede di portare il reddito pro-capite da 2500 a 4mila dollari annui) sono chiari. Nel nuovo politburo, composto da 18 membri, non figura nessun esponente della Banca centrale. In compenso la carica di presidente dell’Assemblea nazionale (uno dei quattro pilastri del sistema politico vietnamita insieme a quelle di segretario generale del Partito, presidente della Repubblica e primo ministro) verrà ricoperta da Vuong Dinh Hue, ex vice Primo Ministro e segretario del Partito ad Hanoi con una lunga carriera nella finanza alle spalle. Grande abilità in campo economico era stata dimostrata anche dall’ex primo ministro Nguyen Xuan Phuc, che si dovrà però accontentare della presidenza, ruolo più cerimoniale e meno politicamente incisivo di quello di segretario generale. Ruolo che, contro ogni pronostico, continuerà a ricoprire Nguyen Phu Trong. Sarà il suo terzo mandato, nonostante i 76 anni (dopo i 65 non si potrebbe venire confermati in cariche apicali), la salute precaria e il fatto che dai tempi di Le Duan (il successore di Ho Chi Minh) fosse rispettato il vincolo dei due mandati. Trong, in modo simile a Xi Jinping, ha costruito la sua reputazione su una ostentata inflessibiltà in materia di sicurezza e di anticorruzione, promossa attraverso la spietata campagna della “fornace ardente” che gli ha consentito di sbarazzarsi dei rivali politici sconfitti al 12esimo congresso del 2016. Il mancato accordo sul nome del suo successore, con il delfino Tran Quoc Vong rimasto fuori persino dal politburo, ha fatto sì che Trong restasse al suo posto.
La campagna anticorruzione proseguirà, come segnala anche la nomina (inusuale, visto che di solito si sceglieva tra i vice) a Primo Ministro di Pham Minh Chinh, ex generale di polizia proveniente dal potente ministero di pubblica sicurezza, e l’aumento di esponenti di esercito e forze dell’ordine nel politburo. Si teme che possa proseguire anche la repressione del dissenso, complice anche lo scollamento tra l’età sempre più alta dell’elite del Partito e una popolazione molto giovane, con oltre la metà dei 96 milioni di vietnamiti che hanno meno di 35 anni. Secondo i dati di 88 Project, in cinque anni si è passati da 86 a 256 attivisti in carcere. Con gli arresti di dissidenti politici in costante aumento, anche le pene si sono fatte più severe. Per restare agli scorsi mesi, sono stati arrestati Pham Chi Dung, presidente dell’Associazione dei giornalisti indipendenti poi condannato a 15 anni di carcere, e altri due reporter che dovranno scontare 11 anni. Poco prima era stato condannato anche il poeta Tran Duc Tach. Sempre più vietnamiti hanno accesso a internet ma i social non sono luoghi del tutto sicuri. Su richiesta del Governo, Facebook (che ha superato i 60 milioni di utenti locali) ha cancellato il 95% dei post ritenuti sovversivi, youTube circa il 90%.
Il tema dei diritti umani, insieme a quello della tutela dei lavoratori, resta il principale fattore di rischio nei rapporti con Stati Uniti e Unione europea. Eppure, complici le necessità commerciali del Vecchio Continente e quelle geopolitiche di Washington, si può prevedere che i rapporti con il Vietnam continueranno a essere approfonditi. Negli scorsi anni, Hanoi ha firmato accordi di libero scambio con l’Ue e (di recente) con il Regno Unito post Brexit. Sotto la sua presidenza di turno Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) è stata sottoscritta la Regional Comprehensive Economic Partnership, che istituisce la più grande area di libero scambio al mondo e di cui fanno parte oltre ai 10 Paesi Asean anche Cina, Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.
I rapporti con la Cina
I rapporti con Pechino sono complessi e ancora influenzati dal millennio di dominazione cinese. La politica vietnamita con il gigante della porta accanto è tradizionalmente bifronte. A un confronto anche teso su dossier politicamente delicati come il Mar Cinese meridionale (o mare Asiatico orientale come lo chiamano ad Hanoi) e il delta del fiumeMekong, si accompagna una strettissima cooperazione economica. Nel corso dei decenni si sono verificati anche due scontri militari, nel 1974 e nel 1988, che hanno portato la Cina a espandere il proprio controllo sulle isole Paracelso e l’arcipelago delle Spratly.
Il Vietnam resta ancora oggi il Paese Asean più deciso nel rispondere all’assertività di Pechino. Nel 2014 la presenza di una piattaforma petrolifera nelle acque contese ha portato a proteste anti cinesi di massa e nel 2019 c’è stato un nuovo confronto nella Vanguard Bank, area ricca di risorse naturali come gas e petrolio. Subito dopo l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, l’incrociatore Russell è transitato al largo delle Spratly e il Jonh McCain al largo delle Paracelso, mentre si è tenuta un’esercitazione congiunta delle portaerei Nimitz e Roosevelt nel mar Cinese meridionale. Segnale che Washington intende mostrare ai partner asiatici il suo impegno a mantenere “libera e aperta la regione dell’Indo Pacifico”, leit motiv della prima telefonata tra il neo segretario di Stato Usa Antony Blinken e il Ministro degli Esteri vietnamita Pham Binh Minh. Ulteriore messaggio in arrivo da Washington, la mancata applicazione di sanzioni nonostante le accuse di manipolazione valutaria.
Ma chi pensa che il Vietnam sia pronto a farsi “arruolare” in chiave anti cinese si sbaglia. Nonostante le pressioni contrapposte, Hanoi ha sempre saputo mantenere un’autonomia strategica. I legami economici con Pechino sono d’altronde fortissimi: il Dragone è il principale partner commerciale di Hanoi e il suo secondo mercato di esportazione dopo gli Stati Uniti (verso i quali nel 2020 si è registrato un surplus commerciale record, 63 miliardi di dollari contro i 47 del 2019). Nel quinquennio appena trascorso i rapporti sono stati riequilibrati sul fronte diplomatico, anche perché Trong e Phuc sono considerati delle “colombe” sul fronte dei rapporti con Pechino. Questo non ha impedito al Vietnam, complice la presenza sempre più ingombrante del vicino e il progressivo inserimento nei suoi ingranaggi dei limitrofi Cambogia e Laos, di promuovere un’estroversione sullo scenario internazionale utile a renderla indispensabile ai partner regionali, in primis Giappone e India, e occidentali. E se davvero è ormai la nuova tigre asiatica, Hanoi vuole ruggire sempre più forte. Possibilmente senza essere costretta a scegliere, né a tirare fuori gli artigli per difendersi.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
Efficace gestione sanitaria, ripartenza economica, continua crescita delle esportazioni, promozione del multilateralismo, stabilità politica, un leader che rompe il vincolo dei due mandati, stretta anti corruzione e repressione del dissenso. Ingredienti che fanno subito venire in mente la Cina. In questo caso si parla però del Vietnam, ambizioso vicino del Dragone la cui rilevanza in ambito regionale e internazionale è in costante aumento. Per Hanoi i tempi dell’invidia verso le cosiddette “tigri asiatiche” sembrano ormai un lontano ricordo.
In questo primo anno (e spiccioli) di pandemia, in occidente la parola “modello” è stata accompagnata quasi sempre dall’aggettivo “cinese”, o al limite “coreano”. Molto meno da “vietnamita”. Eppure, secondo uno studio del Lowy Institute, la performance di contenimento del Covid-19 del Vietnam è la seconda migliore al mondo. Meglio ha fatto, secondo il principale think tank australiano, solo la Nuova Zelanda. A febbraio 2021 i contagi totali erano poco più di duemila e i morti appena 35. Numeri impressionanti in positivo, peggiorati solo da una terza ondata esplosa a fine gennaio in concomitanza con il 13esimo congresso del Partito comunista. Successo simile a quello di Taiwan, ma ancor più difficile visto che il Vietnam non è un’isola, e che nasce soprattutto grazie alla prevenzione. Memore della Sars, Hanoi ha iniziato a chiudere scuole e uffici già a gennaio 2020. I protocolli approntati nel 2003, ai quali lavorò prima di morire l’italiano Carlo Urbani, sono stati riutilizzati alle prime avvisaglie epidemiche in arrivo da Wuhan. La chiusura dei confini e lockdown mirati hanno consentito di tenere sotto controllo il virus, con una pronta riapertura quando l’andamento dei contagi ha consentito di portare avanti tracciamento e test. Il tutto sfruttando la presenza capillare dello Stato, e del Partito, sul territorio: altro punto in comune con la Cina.
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