È possibile creare innovazione senza una vera libertà di azione e di parola? Questa è la vera scommessa di Mohammed bin Salman con Vision 2030
Lanciata nel 2016 dal Principe Ereditario Mohammed bin Salman, Vision 2030 è molto di più di quello che sembra, ovvero una semplice strategia di politica economica. Essa è in realtà un ambizioso insieme di progetti, che riguardano tanto l’economia quanto la società saudita, con importanti risvolti politici. Messi insieme, questi progetti si propongono di cambiare il volto dell’Arabia Saudita all’esterno, di disinnescare la ‘ticking bomb’ della totale dipendenza dalle rendite energetiche all’interno e, nel contempo, modernizzare radicalmente la società saudita.
Gli obiettivi politici ed economici
Vi è poi un più profondo obiettivo politico: Vision 2030 rappresenta il tentativo di fermare lo scollamento tra la leadership e i giovani sauditi. In Arabia Saudita, il 70% della popolazione ha meno di 30 anni. Storicamente, è stata consuetudine per i cittadini sauditi trovare impiego nel settore pubblico, il cui budget dipende per oltre l’80% dalle rendite energetiche. La percentuale di sauditi con un impiego nel settore pubblico è stata tradizionalmente del 70%. Con una popolazione in forte aumento e il settore petrolifero in declino, però, il meccanismo si è inceppato. Da anni, il settore pubblico non riesce più a creare sufficienti posti di lavoro né a garantire i tradizionali altissimi standard di welfare. Risultato: da oltre un decennio, la disoccupazione giovanile è intorno al 30%. La mancanza di opportunità professionali si aggiunge alla totale assenza di una vita sociale e culturale organizzata nel Regno, senza opportunità di intrattenimento e socializzazione. Questo senso di oppressione culturale, sociale ed economica concorre alle questioni politiche e settarie per spiegare la mobilitazione popolare che ha colpito – seppure parzialmente – l’Arabia Saudita nel 2011. Vision 2030 vuole essere la risposta della leadership saudita a questi scontenti giovanili.
Dal punto di vista economico, il senso della strategia è preparare il Paese alla crescente volatilità del mercato petrolifero. Il collasso dei prezzi del petrolio della primavera 2020, scatenato dalla contrazione dell’economia globale dovuta al Covid-19, ha dato un assaggio di quanto le cose potrebbero farsi drammatiche per le casse statali di Riad. Eppure, la diversificazione economica è più facile a dirsi che a farsi. Innanzitutto, è un’impresa tanto economica quanto socio-politica. Cambiare gli indicatori economici significa alterare il dna politico-economico del ruolo dello Stato come re-distributore di rendite improduttive. Espandere le rendite statali non legate al settore energetico è un prerequisito.
Per questo negli ultimi cinque anni l’Arabia Saudita ha introdotto, per la prima volta nella sua storia contemporanea, costi amministrativi e tasse per i cittadini. Nel 2018 lo Stato ha imposto l’Iva forfettaria al 5%, triplicata al 15% come misura d’emergenza dopo lo scoppio della pandemia. Sul lungo periodo, ancora più importante di introdurre la tassazione è alleggerire il ruolo dello stato nella creazione di ricchezza e occupazione. Nello specifico si punta a far passare il contributo del settore privato al Pil dal 40 al 65% e a favorire la creazione di 1.2 milioni di posti di lavoro nel settore privato, riducendo la disoccupazione giovanile. I settori identificati come prioritari a tal proposito sono: petrolchimico, minerario (sia nell’industria estrattiva che quella metallurgica), manifatturiero (particolarmente nel comparto difesa), turismo e hospitality, logistica, finanza tradizionale e fintech, digitale (soprattutto intelligenza artificiale e cyber-security), energie rinnovabili. I giga-projects come le città futuristiche NEOMe The Line, o i mega-resort Qiddiya e Coral Bloom servono proprio come catalizzatori di interesse globale e investimenti verso questi settori.
Un cambio di strategia
Difatti, inizialmente Riad aveva pensato di finanziare una buona parte delle idee contenute in Vision 2030 con capitali esteri. Eppure, tra la contrazione dell’economia globale post-pandemia e il crescente rischio politico associato a investimenti in Arabia Saudita, i numeri sono stati finora deludenti. A inizio 2020 il volume di Investimenti Diretti Esteri (IDE) in Arabia Saudita ammontava a circa $5.5 miliardi, ben al di sotto dei $10 miliardi previsti da Vision 2030. Proprio le scelte della leadership saudita, tanto in politica estera quanto in politica interna, hanno inavvertitamente contribuito ad aumentare quei fattori di rischio percepito che scoraggiano gli investitori esteri. Ad esempio, importanti misure anti-corruzione sono sfociate nel 2017 in raid di arresti che hanno coinvolto oltre 300 tra membri della famiglia reale ed esponenti delle più influenti famiglie di business saudite, con interessi in numerosi settori e impegnati in partnership e joint venture molto significative con investitori e aziende estere. Questo ha creato un senso di forte incertezza per molti soggetti internazionali alla ricerca di partner sauditi affidabili. Ancora più eclatante è stato l’embargo contro il Qatar (2017-2021), ostacolo importante per le multinazionali la cui operatività è ripartita su più paesi all’interno del mercato unico del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). Infine, il rischio politico percepito è schizzato alle stelle dopo l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel novembre del 2018, che ha affondato la reputazione della leadership saudita e vanificato gli sforzi per modernizzare l’immagine del Paese.
Per questo il 2021 vede il principio di un cambio di strategia per Riad: puntare sui capitali domestici e su partnership pubblico-private. In questo senso il veicolo principale sarà il fondo sovrano Public Investment Fund (PIF), di cui il Principe Mohammed bin Salman è Presidente e il suo fedelissimo Yasir al-Rumayyan Governatore. Gli investimenti del PIF nell’economia saudita dovrebbero esplodere nel 2021 e 2022, navigando intorno ai 40 miliardi di dollari annui. Operazioni già eseguite negli scorsi anni, come emissioni di bond, e privatizzazioni di servizi e infrastrutture pubbliche come avvenuto con l’Initial Public Offering del 5% di Aramco del 2019, saranno dunque ripetute per rimpinguare le casse del PIF e la causa del capitalismo di Stato saudita. Nel frattempo, entro il 2024, lo stato saudita imporrà a tutte le multinazionali che vogliono concorrere ai lucrosi bandi pubblici di avere il proprio quartier generale regionale, con tanto di top management, in territorio saudita.
Turismo e intrattenimento
In questo quadro, l’importanza assegnata a settori come turismo e intrattenimento può sembrare incoerente. Eppure non è affatto casuale. È obiettivo esplicito di Vision 2030 triplicare i flussi per il turismo religioso verso il centro del mondo islamico di Mecca-Medina, aprire al turismo internazionale e creare un turismo domestico. Gli investimenti e l’attenzione dedicata a questi obiettivi, inclusa la semplificazione del sistema visti e l’introduzione di un visto turistico elettronico nel 2019, chiariscono come siano in realtà questioni strategiche. Turismo ed entertainment hanno almeno triplice valenza. Innanzitutto si ritiene che siano settori d’impiego appetibili ai giovani sauditi, particolarmente restii a lavorare in settori usuranti, come il manifatturiero. Secondariamente, offrono opportunità di spesa locale a una popolazione che mediamente spende 30 miliardi di dollari all’anno in intrattenimento e turismo all’estero. Infine, creano opportunità per un settore da sempre centrale nel Regno, quello delle costruzioni. Puntando in alto, la leadership saudita ha coinvolto colossi americani quali Disney Warner Bros e Universal e la britannica Virgin Group. Lo stato saudita ha messo a budget decine di miliardi di dollari fino al 2023. Questo budget include sia i giga-projects come Qiddiya e Coral Bloom, che la promozione di decine di concerti e iniziative culturali e l’organizzazione di competizioni sportive internazionali. Negli ultimi anni, l’Arabia Saudita ha ospitato tornei di golf, corse di Formula E e MotoGP, eventi di wrestling, tornei e partite di calcio, come la Supercoppa Italiana nel 2018. Riad è in corsa per ospitare la Coppa d’Asia, o AFC Asian Cup, nel 2027.
La liberalizzazione della società saudita si inserisce in questo quadro, con l’obiettivo di migliorare l’attrattività del Paese sia per gli investitori esteri e gli expat che dovrebbero trasferirsi e portare valore e produttività, che per i turisti o esploratori. Soprattutto, la liberalizzazione si rivolge ai giovani sauditi annoiati e alle donne oppresse. Il ritmo di queste riforme è stato veramente senza precedenti. Alla marginalizzazione della polizia religiosa nel 2016 sono seguite: l’apertura dei cinema, l’introduzione della musica nei locali pubblici, l’eliminazione della segregazione dei sessi nei luoghi di hospitality (ristoranti, caffè, hotel) e negli stadi, il rilassamento del codice d’abbigliamento, l’introduzione del diritto di guida e di viaggio autonomo per le donne. La ricezione di queste misure è stata finora, prevalentemente positiva. Le riforme a favore dei diritti delle donne, in particolare, hanno creato uno zoccolo duro di sostegno politico alla leadership di Mohammed bin Salman tra le giovani donne saudite. Torniamo dunque all’opportunismo politico su cui poggia Vision 2030, e al progetto del Principe di usare le riforme per conquistare il favore dei giovani sauditi, anche contro membri della propria stessa famiglia reale.
Per il prossimo futuro, è previsto il lancio di corsi di filosofia e pensiero critico in tutte le scuole saudite. Poi, l’apertura di sedi di Università straniere. Persino l’introduzione dell’alcol, sebbene in forma limitata e regolamentata, non è più impensabile. Né sono più inarrivabili gli obiettivi maggiori della modernizzazione: la rimozione totale del sistema di guardiania (per il quale le donne devono ottenere il permesso di un guardiano uomo per compiere alcune operazioni giudiziarie) e il raggiungimento della completa libertà religiosa, inclusa la costruzione di chiese ufficiali.
Ma di diritti non se ne parla…
Quello che invece resta assolutamente fuori discussione è un miglioramento dei diritti politici e civili in Arabia Saudita. Il processo di riforme e liberalizzazione si è, al contrario, accompagnato a una repressione massiccia di chiunque abbia espresso opposizione alle stesse riforme come a qualsiasi altra scelta della leadership e a chiunque abbia cercato semplicemente di partecipare al dibattito politico. Incarcerazioni, pressioni e sorveglianza massiccia da stato di polizia, sia fisica che online, hanno colpito attivisti, giornalisti e accademici. Anche chi faceva campagna per quei diritti delle donne che poi sono stati accordati dallo Stato, come Loujain al-Hathloul e molte altre.
Nessuna apertura si può intravedere in questo senso, e il processo di riforme saudite – in questo senso ispirato a quello cinese − è destinato a restare imposto dall’alto verso il basso. Proprio su questa contraddizione fondamentale poggia la debolezza di Vision 2030 nel lungo periodo. Si può chiedere ai sudditi sauditi di diventare soggetti fiscali e contributori attivi dello stato, negandogli però ogni possibilità di influenzarlo? Come si può introdurre corsi di filosofia e pensiero critico, o portare nel Regno un pezzo di globalizzazione con turisti, multinazionali e mega-eventi, chiedendo però alla società di non mettere mai nulla in discussione? È possibile creare innovazione senza una vera libertà di azione e, quindi, di pensiero e di parola? Questa, in fondo, è la vera scommessa di Mohammed bin Salman.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Lanciata nel 2016 dal Principe Ereditario Mohammed bin Salman, Vision 2030 è molto di più di quello che sembra, ovvero una semplice strategia di politica economica. Essa è in realtà un ambizioso insieme di progetti, che riguardano tanto l’economia quanto la società saudita, con importanti risvolti politici. Messi insieme, questi progetti si propongono di cambiare il volto dell’Arabia Saudita all’esterno, di disinnescare la ‘ticking bomb’ della totale dipendenza dalle rendite energetiche all’interno e, nel contempo, modernizzare radicalmente la società saudita.
Gli obiettivi politici ed economici
Vi è poi un più profondo obiettivo politico: Vision 2030 rappresenta il tentativo di fermare lo scollamento tra la leadership e i giovani sauditi. In Arabia Saudita, il 70% della popolazione ha meno di 30 anni. Storicamente, è stata consuetudine per i cittadini sauditi trovare impiego nel settore pubblico, il cui budget dipende per oltre l’80% dalle rendite energetiche. La percentuale di sauditi con un impiego nel settore pubblico è stata tradizionalmente del 70%. Con una popolazione in forte aumento e il settore petrolifero in declino, però, il meccanismo si è inceppato. Da anni, il settore pubblico non riesce più a creare sufficienti posti di lavoro né a garantire i tradizionali altissimi standard di welfare. Risultato: da oltre un decennio, la disoccupazione giovanile è intorno al 30%. La mancanza di opportunità professionali si aggiunge alla totale assenza di una vita sociale e culturale organizzata nel Regno, senza opportunità di intrattenimento e socializzazione. Questo senso di oppressione culturale, sociale ed economica concorre alle questioni politiche e settarie per spiegare la mobilitazione popolare che ha colpito – seppure parzialmente – l’Arabia Saudita nel 2011. Vision 2030 vuole essere la risposta della leadership saudita a questi scontenti giovanili.
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