Per gentile concessione dell'autore e dell'editore, pubblichiamo questo articolo che apparirà sul prossimo numero di Quaderni di Casa America, la rivista di Fondazione Casa America
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo questo articolo che apparirà sul prossimo numero di Quaderni di Casa America, la rivista di Fondazione Casa America
Lula, nei suoi otto anni di Governo (2003-2010), ha fatto moltissime cose. Forte dell’alto prezzo delle materie prime “ha permesso a 28 milioni di persone di uscire dalla povertà, e a 39 milioni di entrare nel mondo del lavoro e nella classe media, nel più grande processo di ascensione sociale mai conosciuto dal Brasile”, suscitando un consenso popolare straordinario. Non va comunque taciuto che la forte attenzione ai poveri del nord-est non sia stata bilanciata da un sostegno ai ceti medi delle città industrializzate del sud, a partire da San Paolo, in particolare nei settori di sanità e trasporto (e saranno quei ceti che, più tardi, abbandoneranno il PT nel secondo Governo Dilma).
Molte altre cose – pur annunciate, come la riforma fiscale – Lula non le ha fatte. Tra queste, non ha implementato la riforma del sistema politico/elettorale brasiliano (c’era stato anche un avvicinamento alla opzione parlamentarista). Sarebbe stato importante farlo per permettere al Presidente di appoggiarsi a una maggioranza autonoma nel Parlamento, con la quale difendere e approvare le leggi e le riforme presentate, senza dover ricorrere a sistemi “obliqui” quali il mensalão, sistema che anche il PT ha utilizzato, pagandone le conseguenze, ma che non ha certo inventato, essendo vecchio di oltre un secolo.
I mandati di Lula
Nel coacervo di oltre 30 sigle che compongono il Parlamento brasiliano, il PT è pressoché l’unico partito organizzato nazionalmente. Il PSDB di FHC e Serra – e ora Doria – è cementato a San Paolo, mentre il PDT dal Rio Grande do Sul, grazie a Ciro Gomes e Lupi si sta radicando anche a Rio de Janeiro; il PMDB è un torpedone su cui salgono e scendono personaggi di ogni risma (tanto da avere dato vita all’ismo fisiologico del “peemedebismo”); la Rede è identificata con Marina Silva; il PSB stava diventando un partito nazionale con Eduardo Campos, prematuramente scomparso; la destra del PFL – ora DEM – è riuscito a far parte del primo Governo Lula e a opporsi al secondo ed ora è in mano a Rodrigo Maia; il PSL è stato il taxi che ha usato Bolsonaroper candidarsi e da cui è subito sceso; e a sinistra spiccano PSOL e PCdoB. Nonostante ciò, mentre Lula veniva eletto Presidente (2002) e poi rieletto (2006) sempre con percentuali oltre il 60%, il suo PT è rimasto stazionario attorno al 15%. Il tema della riforma politica non era, quindi, né secondario né peregrino. Ma non è stato affrontato. Forse Lula ha creduto troppo nella propria personale forza e proverbiale capacità di articolare le più imprevedibili e ardite combinazioni (l’unica mai tentata, con il PSDB).
Nel secondo mandato di Governo, mentre il consenso personale viaggiava attorno all’87%, molte “sirene” tentarono il Presidente, cercando di convincerlo a cambiare la Costituzione, che fissa il limite dei due mandati presidenziali consecutivi, per candidarsi a un terzo. La popolarità di cui godeva in quel momento gli avrebbe permesso di fare qualunque cosa, ma Lula non si fece blandire. Oltre ad avere un alto senso dello Stato e rispetto per le istituzioni, a differenza di Evo Morales, che aveva Alvaro Garcia Linera, Lula era consigliato da personalità del calibro di Zé Dirceu, Marco Aurelio Garcia, Gilberto Carvalho, Luiz Dulci, Aloizio Mercadante, Fernando Haddad… E non cedette.
Il “lulismo”
Purtroppo, però, non ebbe la medesima dirittura e lungimiranza nella scelta del candidato presidenziale a succedergli. L’assenza di riforma politica, e forse anche un appannamento di visione strategica, invece che spingerlo verso un dialogo aperto ancorché difficile con i partiti della futura maggioranza, nella consapevolezza di non essere burocraticamente “replicabile”, lo indirizzò invece verso una pratica discutibile (che ha avuto nella storia del PRI messicano la sua massima espressione), quella del dedazo. Così fu scelto da Lula il candidato a succedergli: Dilma Rousseff. Peraltro iscrittasi al PT per l’occasione. Il “lulismo” in costruzione ma non sedimentato e non corroborato da una adeguata pratica e cultura politica, stava dando frutti non previsti, e potenzialmente indigesti.
Ai malumori interni al PT, a partire da quelli pro domo sua di Tarso Genro, si sommarono il sordo rancore e l’irritazione dei partiti alleati, ma tenuti ben alla larga da questa decisione. Non molti anni dopo, questa irritazione assumerà i connotati del tradimento, dell’imboscata, della resa dei conti. Forse bisognava pensarci prima…
Inoltre, la crisi economica globale e la caduta del prezzo delle materie prime, con le note ripercussioni recessive sull’economia e devastanti sulla società, fecero il resto. Rousseff non ebbe la capacità di leggere questi processi, barricata com’era nella propria visione amministrativista del governo, e ruppe il patto sociale con l’enorme base che aveva cambiato la faccia del Brasile.
Le aspirazioni di Sérgio Moro
A quel punto il golpe mediatico-giudiziario, ordito per defenestrare Dilma nel 2016, ma soprattutto per neutralizzare e incarcerare Lula, era servito. La caccia all’uomo inscenata dal giudice/inquisitore Sérgio Moro, che asseriva ispirarsi alla italiana “Mani pulite”, avendo in Davigo il suo guru (sic!), venne cavalcata spudoratamente dai grandi mezzi di comunicazione (che, novelli Aladino, sfregarono la lampada liberando il Genio), e suffragata dalle delaçoes premiadas: era nata Lava Jato e nulla e nessuno vi si poteva opporre. Solo la tempra del metalmeccanico Lula riuscirà, e con fatica, a fronteggiarla.
Il prigioniero Lula resisteva nel carcere di Curitiba. Ma all’esterno le forze progressiste e democratiche, a partire dal PT, non compresero “cosa” davvero fosse in gioco e non seppero (o non vollero?) creare un’alleanza nuova, in grado di fermare l’offensiva della destra reazionaria e razzista.
Nelle aspirazioni di Moro, osannato dai media e da una opinione pubblica intorpidita, c’era Planalto, ma dovrà poi accontentarsi di un effimero Ministero perché sulla sua strada il Genio, ormai libero e a briglie sciolte, frapporrà un vecchio politicante fascistoide, da decenni parlamentare marginale, e in gioventù mediocre militare, di nome Bolsonaro. Insieme ai figli, anche loro personaggi senz’arte né parte, fonda un partito-clan ispirato al “populismo evangelico” e che rivendica sfacciatamente gli orrori della dittatura militare. Diventa la sintesi del risentimento collettivo di un Paese che non ha mai superato le proprie divisioni profonde – anche razziali – e i preconcetti di classe: il reato di Lula è di aver violato i privilegi secolari delle élite. Come segnala acutamente Roberto Vecchi, “il tempo brasiliano ha questa qualità (che aveva colto molto bene Lévi-Strauss nei “Tristi tropici”), quella di passare dagli entusiasmi della costruzione alla decadenza rovinosa, senza mai soffermarsi stabilmente allo stadio della modernità, che forse oggi chiameremmo sostenibilità democratica”.
Come il “berlusconismo” e il “trumpismo”
La mutazione genetica di una fetta rilevante della società brasiliana è sotto gli occhi di tutti. Così come in Italia il “berlusconismo”, soppiantando il sistema dei partiti, è penetrato molecolarmente nel tessuto sociale, o negli Stati Uniti il “trumpismo” (pur sconfitto – e a fatica – nelle urne), ha cambiato nel profondo i connotati della società, anche in Brasile i mutamenti avvenuti impediscono un’interpretazione che si affidi solo a strumenti tradizionali. Questo è il banco di prova che attende le forze progressiste e di sinistra di questi tre Paesi. La partita è solo all’inizio.
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo questo articolo che apparirà sul prossimo numero di Quaderni di Casa America, la rivista di Fondazione Casa America