Sotto la spinta degli Stati Uniti, 130 Stati hanno firmato un accordo per imporre la tassa minima globale del 15% alle grandi multinazionali. Una vittoria per Biden…
Giovedì scorso un gruppo di 130 Paesi ha firmato un accordo per imporre una tassa minima globale del 15% alle grandi aziende multinazionali, a prescindere dalla località in cui operano.
L’accordo è stato raggiunto su supervisione dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e su spinta degli Stati Uniti, e rappresenta pertanto una vittoria per l’amministrazione del Presidente Joe Biden, che l’ha descritto come un esempio di quella “politica estera per la classe media” che ha promesso di implementare.
A detta di Washington, questa tassazione – che si applicherà alle società con profitti di 24 miliardi di dollari all’anno, almeno inizialmente – permetterà di compensare l’impatto della delocalizzazione sulle città industriali americane, che ha provocato recessione economica e sentimenti di frustrazione e risentimento tra gli abitanti. Al di là degli entusiasmi, per quanto in parte giustificati – la segretaria al Tesoro Janet Yellen ha parlato di “una giornata storica per la diplomazia economica” –, l’accordo è comunque ancora lontano dall’entrata in vigore. Ci sono poi degli aspetti critici da tenere in considerazione, che potrebbero ridurre la portata della misura. D’altro canto, la nuova tassa globale dice molto sul metodo e sugli obiettivi generali dell’amministrazione Biden.
Chi ha firmato l’accordo, e chi no
Tra i 130 Paesi firmatari dell’accordo, che rappresentano insieme circa il 90% del Pil mondiale, quelli che si sono fatti notare di più sono la Cina, l’India e la Russia. Sia perché due di questi – Pechino e Nuova Delhi – sono economie molto grandi, sia perché tutti e tre avevano espresso un certo scetticismo riguardo alla proposta.
Altrettanto rilevante, per quanto forse scontata, è l’identità delle nove nazioni contrarie: tra queste ci sono l’Irlanda, l’Ungheria, l’Estonia, le Barbados e Saint Vincent e Grenadine. Sono tutti Paesi dai regimi fiscali estremamente bassi, che puntano ad attirare le grandi multinazionali.
La minimum tax era già stata definita nelle sue linee generali al vertice del G7 e verrà ulteriormente dettagliata alla riunione del G20 a Venezia, la settimana prossima, per essere finalizzata all’incontro del G20 di Roma, a ottobre. La tassa potrebbe entrare in vigore nel 2023. L’implementazione da parte dell’Unione europea potrebbe tuttavia essere complicata dall’opposizione di Irlanda e Ungheria; la Francia si è impegnata a convincerle.
Il valore della tassa per gli Stati Uniti
Secondo le stime dell’Ocse, la tassa minima globale permetterà ai Governi di recuperare proventi fiscali “elusi” per 150 miliardi di dollari. Queste entrate andranno a rimpinguare – per una parte non troppo determinante, in realtà – i bilanci statali dopo i massicci piani di spesa per la ripresa dalla pandemia. La segretaria Yellen ha detto che le multinazionali che si sono spostate nei paradisi fiscali hanno sottratto agli Stati Uniti i soldi necessari agli investimenti nell’educazione e nelle infrastrutture: a queste ultime Biden ha dedicato un piano da duemila miliardi che servirà a rendere l’America più competitiva e a vincere la corsa industriale con la Cina.
Nelle intenzioni di Washington, la tassa minima globale al 15% andrà a mettere fine alla “corsa al ribasso” sulle aliquote fiscali e alla “competizione internazionale autolesionista sulla tassazione”. Nel 2017, durante la presidenza di Donald Trump, il Congresso americano approvò una legge per abbassare l’imposta per le grandi aziende dal 35 al 21%. Biden ha scelto invece un approccio diverso, ricercando un accordo di ampio respiro per ribadire il messaggio che “l’America è tornata” e guida il mondo verso nuovi standard di riferimento internazionali.
L’accordo raggiunto giovedì permette agli Stati Uniti anche di armonizzare le varie tassazioni sulle grandi compagnie tecnologiche, praticamente tutte americane (come Google, Amazon, Facebook e Apple). La norma prevede che le cosiddette Big Tech debbano pagare le tasse nei Paesi in cui vendono beni e servizi, anche se non vi hanno sede. In cambio, le nazioni europee dovranno rimuovere le proprie web tax: la più battagliera su questo fronte era stata la Francia.