Frances Haugen ha consegnato al Wall Street Journal materiali e comunicazioni interne che il network avrebbe preferito non svelare. L’ennesimo danno all’immagine pubblica del social, ma non solo. C’è anche Instagram…
Se solo Mark Zuckerberg potesse silenziare tutti coloro che hanno lavorato per lui lo farebbe. L’ultima è Frances Haugen, che Facebook aveva assunto per occuparsi di proteggere il social network dalle interferenze elettorali a ridosso e dopo il voto presidenziale del novembre 2020 e che nelle settimane scorse ha passato al Wall Street Journal una quantità di materiali e comunicazioni interne che il gruppo con sede a Menlo Park avrebbe fatto volentieri a meno di rendere pubblici. Conosciamo il nome della whistleblower che ha lasciato il gruppo nel maggio scorso perché Haugen ha deciso di rendere pubblica la sua denuncia concedendo un’intervista a 60 Minutes nella quale rende noto che domani (5 ottobre) testimonierà davanti al Congresso, cui pure ha fatto avere i file trasmessi al quotidiano economico.
Cosa ha detto Frances Haugen
L’informatica – con una lunga esperienza lavorativa in altre società della Silicon Valley e social network – ha spiegato in maniera piana la sua scelta davanti a milioni di spettatori: “Ho visto un sacco di social network, e Facebook era peggio… C’era conflitto tra ciò che era bene per gli utenti e la cosa pubblica e ciò che era bene per Facebook e Facebook ha scelto più e più volte di i propri interessi”. L’altra cosa che Haugen ha fatto è accumulare documenti in maniera sistematica in maniera da poterne diffondere una quantità tale che “nessuno potesse mettere in dubbio la veridicità delle cose che dico”.
Una spiegazione ulteriore viene dalla scelta di diffondere il materiale anziché alzare la voce all’interno dell’impresa dove lavorava: tutti coloro che lo hanno fatto hanno lasciato o sono stati degradati. Haugen era stata assunta in un dipartimento creato appositamente per monitorare e capire come affrontare i temi della violenza, del discorso d’odio e della diffusione di teorie false relativa al processo elettorale, ma dopo il voto del 2020 le viene comunicato che la sua unità sarebbe stata smantellata.
I file che Haugen ha trasmesso al Wall Street Journal parlano di molte cose diverse e sono spesso rapporti di ricerca interni sul funzionamento della piattaforma, sulle reazioni del pubblico e su cosa funzioni in termini di coinvolgimento degli utenti. Non un caso specifico, dunque, ma i saperi accumulati da Facebook stesso per aumentare gli scambi, accumulare informazioni e, in sintesi, guadagnare di più dalla quantità di dati accumulati. Una cosa che a Menlo Park sanno benissimo – in maniera empirica la sappiamo in tanti – è che i contenuti divisivi e polarizzanti e il discorso d’odio e violento tendono a mantenere più a lungo gli utenti sulla piattaforma: “Se rendessero i contenuti più sicuri le persone passerebbero meno tempo online, farebbero meno click sulle pubblicità e Facebook guadagnerebbe di meno”, spiega Haugen a 60 Minutes.
Il management di Facebook era ben conscio dei pericoli che avrebbero portato le elezioni del 2020, il 2016 e la vittoria di Trump, alimentata da teorie del complotto di ogni tipo, non fu un buon momento per la reputazione per il social network. Per questo, prima della campagna elettorale che vedeva Biden opposto al Presidente repubblicano, a Menlo Park adottarono dei protocolli di sicurezza, che però vennero immediatamente messi da parte dopo il voto. L’organizzazione e il rumore di fondo attorno all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, così come tutte le teorie del complotto sul “furto del voto” da parte democratica hanno così trovato enorme spazio sul network.
La vicenda Myanmar
Non dimentichiamo che non ci sono solo gli Stati Uniti. Molti dei disastri amplificati o resi possibili da Facebook avvengono lontano dai nostri occhi e dagli occhi dei media occidentali. Il caso più clamoroso è forse quello di Myanmar, dove una campagna sistematica e durata anni orchestrata dall’esercito ha preso di mira la minoranza musulmana Rohingya. La campagna ha contribuito a quello che alcuni definiscono un genocidio e, comunque lo si voglia chiamare, all’esodo dei Rohingya dal Paese. Dopo il colpo di Stato, i militari hanno invece oscurato il social network che funge da principale fonte di informazione per i cittadini del Paese (in molti identificano Facebook con Internet).
L’altro segnale interessante riguarda i partiti europei che in una comunicazione con il social network segnalano come la necessità di vincere la partita della propaganda online li spinga ad assumere posizioni più radicali e a usare un linguaggio più estremo. Il modo in cui la ricerca di attenzione prende forma e il funzionamento dell’algoritmo modifica dunque anche il discorso politico in generale, non solo quello delle forze più estreme.
L’impatto di Instagram sugli adolescenti
Ma i social network non sono solo discorso d’odio e propaganda politica, hanno un impatto anche su comportamenti e abitudini individuali. Non si parla dei deficit di attenzione che sperimentiamo tutti, presi dall’ossessione di controllare i nostri account, ma di qualcosa di più importante. Uno degli studi interni passati da Haugen al Wall Street Journal segnala l’impatto negativo che Instagram può avere sulle adolescenti, i cui disturbi alimentari e la cui depressione vengono accresciuti e fomentati da Instagram. In risposta alla diffusione di questo studio, il social network ne ha diffuso una versione annotata nella quale spiega che forse i suoi ricercatori esagerano nel valutare la portata del disagio adolescenziale prodotto da Instagram. Fatto sta che, quando alcuni eletti in Congresso hanno chiesto di mostrare gli studi interni sugli effetti dei social sugli adolescenti, Facebook ha mostrato solo le conclusioni positive dello studio diffuso in maniera completa da Haugen.
Si tratta di una rivelazione importante in termini giuridici: Haugen ha denunciato il social network alla SEC (Securities and Exchange Commission) che vigila sui mercati finanziari. Facebook è una società di Borsa e deve attenersi a certe regole di trasparenza; il non comunicare alcune informazioni sensibili in suo possesso (o peggio mentire) può essere una violazione della norma vigente.
La testimonianza di Haugen in Congresso non sarà la prima né l’ultima a mettere il social network in difficoltà. La novità sono la quantità di documenti interni e la platea enorme che la sua denuncia ha avuto. Altri come lei hanno pubblicato libri e dato interviste, con la differenza di non avere un archivio di informazioni da mostrare a riprova delle proprie parole.
La risposta di Facebook
La risposta di Facebook a 60 minutes è la stessa che abbiamo ascoltato da Zuckerberg in diverse testimonianze davanti al Congresso e ha due argomenti di fondo. Da un lato l’ammissione di colpa e la promessa di fare più e meglio – sappiamo di avere dei limiti, ci stiamo lavorando, abbiamo fatto enormi passi avanti – dall’altra l’importanza di non violare le libertà individuali, consentendo a tutti e ciascuno di esprimersi. Che si tratti di far circolare notizie false sui vaccini – cosa di cui li ha accusati Joe Biden diversi mesi fa – o di organizzare una rivolta contro la dittatura socialista del Presidente democratico, l’importante è che il primo emendamento che protegge la libertà di espressione venga tutelato.
Abbiamo però visto come i passi in avanti siano sempre momentanei e riguardino “il caso” del momento: prima una narrazione monta e si diffonde sul social network, poi le antenne della società civile ne parlano e solo dopo Facebook interviene. Quanto ai danni sugli adolescenti, la questione è se possibile più intricata ma altrettanto sensibile.
Gli Stati Uniti sono alle prese con un problema colossale: devono trovare il modo di regolare in qualche forma un settore economico che ha una natura diversa da, poniamo, il tabacco. L’atteggiamento delle imprese è simile (negare, fare lobby e poi accettare regole dopo aver perso cause miliardarie), ma il prodotto molto diverso. Ma la questione forse più grande è cosa succede fuori dagli Usa e dall’Europa, dove le antenne su questi temi non sono accese e, come mostra la vicenda di Myanmar, i danni prodotti possono essere peggiori.
Nelle scorse settimane Facebook ha annunciato che non perseguirà l’elaborazione di una piattaforma Instagram per ragazzini, ma è questione di tempo, e parallelamente Zuckerberg ha reso noto che il prossimo obiettivo è quello di diventare una “piattaforma metaverso”, ovvero una piattaforma di realtà virtuale e aumentata. Una piattaforma 3D. Fantastico per giocare online ad Halo o addestrare soldati, ma davvero rischioso se parliamo di comportamenti di persone normali, specie giovani e giovanissimi.
Frances Haugen ha consegnato al Wall Street Journal materiali e comunicazioni interne che il network avrebbe preferito non svelare. L’ennesimo danno all’immagine pubblica del social, ma non solo. C’è anche Instagram…
L’informatica – con una lunga esperienza lavorativa in altre società della Silicon Valley e social network – ha spiegato in maniera piana la sua scelta davanti a milioni di spettatori: “Ho visto un sacco di social network, e Facebook era peggio… C’era conflitto tra ciò che era bene per gli utenti e la cosa pubblica e ciò che era bene per Facebook e Facebook ha scelto più e più volte di i propri interessi”. L’altra cosa che Haugen ha fatto è accumulare documenti in maniera sistematica in maniera da poterne diffondere una quantità tale che “nessuno potesse mettere in dubbio la veridicità delle cose che dico”.