La Cina è il primo partner commerciale, quasi il 42% dell’export totale di Taiwan lo scorso dicembre, e in crescita annua del 19% circa. L’85,6% dei taiwanesi vuole lo status quo. Ma la narrazione identitaria è in aumento, complice la politica internazionale
Pechino vuole la “riunificazione”. Washington vuole impedirla. Da una parte annunci più o meno virulenti sul possibile utilizzo della forza e incursioni aeree, dall’altra vendita di armi e un’ambiguità strategica che con Joe Biden sta diventando sempre meno ambigua. La sfida su Taipei appare sempre più LA sfida dei prossimi anni. Eppure, mentre si analizzano mosse e volontà delle due potenze, resta spesso sfumato un aspetto fondamentale: che cosa vuole Taiwan. Aspetto che resta spesso sfumato in una narrazione binaria che non coglie la complessità di quella che viene descritta come “isola” ma che è in realtà un insieme di 166 isole. E non sempre c’è di mezzo il famoso Stretto. A Kinmen, avamposto militare bersaglio dei bombardamenti di Mao Zedong negli anni Cinquanta, la metropoli cinese di Xiamen dista solo due chilometri e mezzo. Luogo sospeso nello spazio e nella storia dove assume un senso concreto il nome ufficiale di Taiwan: Repubblica di Cina. Da qui Chiang Kai-shek sognava di lanciare la riconquista della madrepatria. Negli anni il desiderio ha lasciato posto alla paura di subire un’invasione. Ma la gente del posto non crede all’ipotesi: “La guerra? Discorsi da politici, nella realtà i rapporti tra Kinmen e Xiamen sono sempre stati ottimi”, ripete la grande maggioranza.
Anche a Taipei e nelle principali città taiwanesi non si respira un clima da bunker. Oltre la metà dei taiwanesi ritiene “improbabile” una guerra con la Repubblica Popolare entro i prossimi dieci anni. Le incursioni dei velivoli di Pechino nello spazio di identificazione di difesa aerea sono percepite più come una parata militare che come preparativi di invasione. Nemmeno all’inizio di ottobre, quando si sono verificate 156 incursioni in quattro giorni, il sentimento prevalente era di “paura”. Tra gli over 30 si ricorda la terza crisi sullo Stretto del 1995-1996 come un momento di vera crisi. Tra i più giovani prevale la rabbia. D’altronde, più Pechino mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Lo si evince dai sondaggi annuali della National Chengchi University sui rapporti intrastretto. I numeri mostrano che la stragrande maggioranza dei taiwanesi, l’85,6%, vuole lo status quo, pur con diverse sfumature. Il 28,8% vuole lo status quo per decidere successivamente, il 25,8% per andare verso l’indipendenza, il 5,6% per andare verso l’unificazione. Dal 2019 il secondo dato è aumentato molto, mentre il terzo è diminuito. Alla base la crescente assertività di Xi Jinping sulla “riunificazione” e il possibile utilizzo della forza e la repressione di Hong Kong. Il prepensionamento del modello “un paese, due sistemi” ha reso sempre meno appetibile un possibile accordo con Pechino, che aveva intenzione di offrire lo stesso paradigma a Taipei.
Il 25,5% vuole invece lo status quo a tempo indefinito. È quello che dice di volere la Presidente Tsai Ing-wen, che seguendo la teoria dei due Stati concepita da Lee Teng-hui ritiene non ci sia bisogno di una dichiarazione di indipendenza in quanto Taiwan è già indipendente de facto come Repubblica di Cina. Il Guomindang, principale partito d’opposizione, non si è mai discostato dal principio della “unica Cina” e dal “consenso del 1992” nel quale si era formalizzato con Pechino l’accordo sul disaccordo in merito a chi fosse quella legittima. Il Partito democratico progressista invece sostiene che di fatto esistono due Cine. Restando in un comunque insidioso perimetro che non prevede la dichiarazione di indipendenza come Repubblica di Taiwan, Tsai sta insistendo su una costruzione identitaria taiwanese nella quale emerga non solo l’alterità politica nei confronti della Repubblica popolare, ma anche quella etnico-linguistica e persino storica. Ecco allora i finanziamenti a film e serie tv che evidenziano (e talvolta mitizzino) il multiculturalismo taiwanese e rimandano al progressismo di Taipei in materia di diritti civili.
Nel frattempo, le relazioni commerciali proseguono spedite. La Repubblica popolare è saldamente il primo partner commerciale di Taiwan. A novembre 2021, le esportazioni taiwanesi verso la Cina hanno pesato da sole il 41,2% del totale. E il volume è in crescita del 18,9% su base annuale. Si parla di possibili divieti di esportazione per prodotti tecnologici verso Pechino ma in realtà è già da diverso tempo che gli Stati Uniti premono Taiwan per bloccare l’export, in particolare di semiconduttori. Il colosso taiwanese TSMC è leader mondiale nella fabbricazione e assemblaggio di chip e ne controlla oltre il 50% dello share globale. Eppure, dopo il ban trumpiano del 2020 per i rifornimenti a Huawei il posto del gigante di Hsinchu è stato preso da un altro competitor taiwanese, MediaTek, che ha conquistato una posizione dominante nella catena di approvvigionamento dei marchi cinesi di smartphone. TSMC ha appena chiuso altri accordi con Oppo.
Ad aprile sono state interrotte le spedizioni alla Tianjin Phytium Information Technology, impegnata nello sviluppo dei supercomputer, solo dopo ripetute insistenze di Biden. Taipei è titubante sul recidere quel cordone tecnologico e a realizzare il decoupling desiderato dalla Casa Bianca. Da una parte per gli interessi commerciali delle sue aziende, dall’altra per motivi politici. In assenza di dialogo tra i governi, infatti, i colossi tecnologici svolgono una funzione semidiplomatica. Non è un caso che proprio TSMC e Foxconn abbiano trattato con la cinese Fosun Pharma l’acquisto di dieci milioni di dosi di Pfizer all’alba della campagna vaccinale taiwanese.
Rimuovere quella leva diplomatica toglierebbe un asset importante a disposizione di Taipei nel gioco a specchi con Pechino. Anche per questo, oltre che a fronte del crescente pressing militare cinese, a Washington viene chiesta una maggiore chiarezza strategica. In questo senso va letto l’annuncio di una “non notizia”: la presenza di un contingente militare statunitense in territorio taiwanese, dato di fatto conosciuto anche da Pechino e mantenuto implicito per decenni. Seguendo Xi, anche Taipei ha alzato i giri della retorica del conflitto intrastretto. Se una volta ai media taiwanesi, a partire dall’agenzia di stampa CNA, veniva indicato di non dare risalto alle manovre militari cinesi per non generare insicurezza o far apparire debole il governo, ora dall’esecutivo arrivano indicazioni opposte.
I recenti report del Ministero della Difesa avvisano con un’urgenza in precedenza sconosciuta delle capacità militari di Pechino. Obiettivo: stimolare la prontezza a combattere dei taiwanesi e, soprattutto, a chiedere aiuto all’esterno durante una finestra d’opportunità diplomatica fertile come quella attuale. Con le opportunità ci sono però anche i rischi, che per i taiwanesi sono rappresentati più dall’arsenale normativo a disposizione di Pechino che non da quello militare. Sanzioni e blacklist annunciate di recente spaventano più degli aerei militari perché possono colpire le imprese e i tanti cittadini taiwanesi residenti oppure operanti oltre lo Stretto. Il patron di Far Eastern Group ha per esempio già dovuto disconoscere l’indipendenza taiwanese dopo che la sua azienda era stata multata per aver finanziato un evento pubblico al quale aveva partecipato il premier taiwanese Su Tseng-chang, inserito nella lista nera di Pechino. Il rischio che si estenda l’interpretazione dell’appoggio al cosiddetto “secessionismo” esiste.
Ma questa misura potrebbe creare una frattura ancora più profonda tra le due sponde dello Stretto. Più il tempo passa e più la narrazione identitaria sembra avere presa. Basta guardare ai dati secondo i quali ormai il 65% dei cittadini si considera “solo taiwanese”, con poco meno del 30% “sia taiwanese sia cinese” e il 2,6% “solo cinese”. Nel 1992 a definirsi “solo taiwanese” era il 17,6%. Un trend che pare inarrestabile e che mette in difficoltà il Guomindang. I nazionalisti hanno appena cambiato leader e hanno aperto un ufficio a Washington per cercare di lanciare la corsa verso le elezioni del 2024. Sarà forse l’ultima spiaggia per loro e per il riavvio del dialogo politico tra Taipei e Pechino.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Pechino vuole la “riunificazione”. Washington vuole impedirla. Da una parte annunci più o meno virulenti sul possibile utilizzo della forza e incursioni aeree, dall’altra vendita di armi e un’ambiguità strategica che con Joe Biden sta diventando sempre meno ambigua. La sfida su Taipei appare sempre più LA sfida dei prossimi anni. Eppure, mentre si analizzano mosse e volontà delle due potenze, resta spesso sfumato un aspetto fondamentale: che cosa vuole Taiwan. Aspetto che resta spesso sfumato in una narrazione binaria che non coglie la complessità di quella che viene descritta come “isola” ma che è in realtà un insieme di 166 isole. E non sempre c’è di mezzo il famoso Stretto. A Kinmen, avamposto militare bersaglio dei bombardamenti di Mao Zedong negli anni Cinquanta, la metropoli cinese di Xiamen dista solo due chilometri e mezzo. Luogo sospeso nello spazio e nella storia dove assume un senso concreto il nome ufficiale di Taiwan: Repubblica di Cina. Da qui Chiang Kai-shek sognava di lanciare la riconquista della madrepatria. Negli anni il desiderio ha lasciato posto alla paura di subire un’invasione. Ma la gente del posto non crede all’ipotesi: “La guerra? Discorsi da politici, nella realtà i rapporti tra Kinmen e Xiamen sono sempre stati ottimi”, ripete la grande maggioranza.
Anche a Taipei e nelle principali città taiwanesi non si respira un clima da bunker. Oltre la metà dei taiwanesi ritiene “improbabile” una guerra con la Repubblica Popolare entro i prossimi dieci anni. Le incursioni dei velivoli di Pechino nello spazio di identificazione di difesa aerea sono percepite più come una parata militare che come preparativi di invasione. Nemmeno all’inizio di ottobre, quando si sono verificate 156 incursioni in quattro giorni, il sentimento prevalente era di “paura”. Tra gli over 30 si ricorda la terza crisi sullo Stretto del 1995-1996 come un momento di vera crisi. Tra i più giovani prevale la rabbia. D’altronde, più Pechino mostra i muscoli e più i taiwanesi se ne allontanano. Lo si evince dai sondaggi annuali della National Chengchi University sui rapporti intrastretto. I numeri mostrano che la stragrande maggioranza dei taiwanesi, l’85,6%, vuole lo status quo, pur con diverse sfumature. Il 28,8% vuole lo status quo per decidere successivamente, il 25,8% per andare verso l’indipendenza, il 5,6% per andare verso l’unificazione. Dal 2019 il secondo dato è aumentato molto, mentre il terzo è diminuito. Alla base la crescente assertività di Xi Jinping sulla “riunificazione” e il possibile utilizzo della forza e la repressione di Hong Kong. Il prepensionamento del modello “un paese, due sistemi” ha reso sempre meno appetibile un possibile accordo con Pechino, che aveva intenzione di offrire lo stesso paradigma a Taipei.