Il Presidente della Repubblica Popolare sbarca a Riad per rafforzare i legami con i Paesi del Golfo e rilanciare l’economia cinese martoriata dalle severe misure contro il Covid-19. Un evento diplomatico di alto livello che desta qualche preoccupazione a Washington
Incontri con la casa reale dei Saud, con i leader dei Paesi del Gulf Cooperation Council e con gli alti rappresentanti degli Stati arabi: in pochi giorni a Riad, in Arabia Saudita, si condenseranno una serie di impegni strategici per il Presidente Xi Jinping, impegnato nel rafforzamento della presenza cinese nell’area e desideroso di superare la crisi generata dal Covid-19, ancora motivo di forte discussione tra la popolazione della Repubblica Popolare viste le misure limitanti imposte dal Governo verso i cittadini.
Il viaggio nella penisola araba segue quello del 2016: un contesto ben diverso rispetto a 6 anni fa che, tuttavia, nonostante il rallentamento economico del gigante asiatico evidenziato dai grandi numeri, racconta di un volume d’affari tra Pechino e Riad che nel 2021 ha toccato gli 87.31 miliardi di dollari. Come riferisce l’agenzia di stampa Xinhua, è in tutta l’area araba che il peso cinese aumenta a dismisura, una percentuale cresciuta del 37% rispetto al 2020, arrivando all’anno scorso a 330 miliardi di dollari. Dati già sufficienti a far capire l’importanza della visita del Presidente Xi, che siglerà con l’Arabia Saudita 20 nuovi accordi iniziali del valore di circa 30 miliardi di dollari e un piano per armonizzare l’implementazione della Vision 2030 fortemente voluta da Mohammed bin Salman, in parallelo alla diversificazione progettuale della Belt and Road Initiative cinese. Tra il 2005 e il 2020 l’interesse di Pechino si è focalizzato proprio nel Regno dei Saud, dove ha investito più del 20% delle risorse totali impiegate nel mondo arabo.
Un fatto non casuale, che vede il Partito Comunista Cinese crescere nella competizione con gli Stati Uniti, in difficoltà nel tenere un equilibrio tra le spinte democratiche che vorrebbero lo stop alla fornitura di armi a Riad, vista la scarsa capacità di gestione dei diritti umani — caso Khashoggi, intervento nella guerra in Yemen —, e i bisogni di realpolitik, che ancora sostengono la vicinanza della Casa Bianca ai Saud. Certamente, né Re Salman né il figlio Mohammed temono uscite critiche da parte di Xi su tali questioni, tantomeno ci si aspetta che i regnanti sauditi accennino al trattamento degli Uiguri nello Xinjiang, nonostante la minoranza appartenga alla stessa religione, quella musulmana.
Nel Vicino e Medio Oriente, la Cina rappresenta sempre più un modello di riferimento, da leggere in una più ampia ottica internazionale di riorientamento degli interessi statunitensi nell’area dell’Indo-Pacifico. Se realmente avverrà una diminuzione della presenza Usa, chi prenderà il posto di Washington? Con la Russia in forte difficoltà con l’aggressione all’Ucraina e l’Unione Europea incapace di offrire risposte chiare e univoche, Pechino sembra pronta a candidarsi per colmare l’eventuale gap che si verificherà, laddove tale scenario dovesse concretizzarsi. La Repubblica Popolare si muove da tempo: accordi non solo con i sauditi (storici alleati degli Stati Uniti), e con il Qatar (nonostante Doha sia Major Non-Nato Ally di Washington), ma anche con Israele, che quest’anno ha visto la celebrazione dei 30 anni di relazioni tra Pechino e Tel Aviv. Seminare nel momento giusto porterà a un prolifico raccolto.