La solitudine di Macron
Paladino del Rinascimento europeo e di un'Europa della visione politica e non dei contabili, Macron non è riuscito a evitare una profonda crisi con l'Italia, nè a superare la diffidenza tedesca e del nord Europa
Paladino del Rinascimento europeo e di un’Europa della visione politica e non dei contabili, Macron non è riuscito a evitare una profonda crisi con l’Italia, nè a superare la diffidenza tedesca e del nord Europa
Questo articolo è stato pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Le prossime elezioni europee coincideranno con il secondo anniversario dell’ingresso di Emmanuel Macron all’Eliseo.
Non c’è dubbio che, con la caotica Brexit alle porte, Angela Merkel ormai sul viale del tramonto e gli altri governanti europei dalle identità confuse o miopi, il Presidente francese sia stato negli scorsi 24 mesi il vero protagonista di una critica stagione dell’Unione Europea.
Ancor più critica se valutata sullo sfondo di un malessere della società francese e del suo panorama politico che ha impedito ai suoi due predecessori, Nicolas Sarkozy e Francois Hollande, di essere rieletti al termine del loro primo quinquennato (era accaduto soltanto a Valery Giscard d’Estaing nel 1981).
Sono note le circostanze che hanno consentito l’affermazione di Macron e della sua inedita formazione politica, la Republique en Marche: il crollo del Partito Socialista, l’implosione dei Republicains (incluso l’affaire Fillon), la minacciosa avanzata del Front National, l’improvvisazione della sinistra di Jean Luc Melanchon, infine la sponda centrista di Francois Bayrou.
Il denominatore comune di tali fattori è stato ancora una volta quella “frattura sociale”, a suo tempo evocata da Emmanuel Todd e assunta da Jacques Chirac quale tema vincente per la propria elezione all’Eliseo nel 1995 ma anche all’origine della caduta di Alain Juppe due anni dopo e della successiva, logorante coabitazione con Lionel Jospin fino al 2002.
Fin dall’indomani della sua elezione è apparsa evidente in Emmanuel Macron la consapevolezza di tali sinistri precedenti dovuti alle difficoltà incontrate dai suoi due predecessori nel tentativo di rendere accettabili ad ampi settori della società francese (quasi cinque milioni di dipendenti pubblici, ceti rurali in transizione, precariato, disoccupazione giovanile, cronica turbolenza delle banlieues) le riduzioni della spesa pubblica e del cronico disavanzo previste dagli impegni europei.
In visita a Berlino il 26 maggio 2017 nella conferenza stampa con la Cancelliera, Macron affermava di aver dovuto affrontare la “collera” dei francesi e di giudicare necessaria “un’Europa al servizio dei cittadini e non viceversa”. Affermazione esplicita e coraggiosa, chiaramente diretta alla padrona di casa, accompagnata dal consueto e rituale riferimento alla fiducia riposta nel “motore franco-tedesco” quale volano dell’integrazione europea.
Quattro mesi più tardi, nel settembre 2017, tracciava alla Sorbona un affresco della necessaria riforma per una governance più politica e meno meccanica dell’Eurozona (Ministero delle Finanze europeo con un budget coordinato, un Fondo di Stabilizzazione, un ruolo potenziato del Parlamento Europeo). In altri termini, un audace tentativo di contemperare l'”Europa delle regole”(Patto di Stabilità e Crescita del 1997, Fiscal Compact del 2012) con politiche anticicliche, grazie anche alla revisione delle politiche export oriented, e dei connessi avanzi commerciali, della Germania ed al sostegno della domanda interna.
Si tratta di una sollecitazione che ribadirà nel maggio 2018 ad Aquisgrana in occasione della consegna del Premio Carlomagno. Il discorso della Sorbona, con il quale il Presidente francese si ergeva a campione di un europeismo intelligente e soprattutto dinamico, ostile ai populismi ma anche all’immobilismo “contabile”, veniva accolto da un silenzio assordante, rotto purtroppo dal risultato delle elezioni federali tedesche, con l’arretramento della Grosse Koalition e l’avanzata di AfD, e dal concomitante rifiuto della nuova cosiddetta “Lega anseatica”, capeggiata da Paesi Bassi e Scandinavi, di prendere in considerazione qualsiasi modifica dell’Eurozona.
Le relazioni transatlantiche nell’era Trump sono state l’altro teatro del protagonismo europeista del Presidente francese.
La visita a Washington dell’aprile 2018, dopo la presenza di Trump alla parata del 14 luglio 2017, aveva alimentato l’aspettativa di Parigi di ritagliarsi un ruolo di capofila europeo nella riduzione delle tensioni tra le due sponde dell’Atlantico, anche alla luce delle difficoltà di Berlino su vari temi sensibili, dai surplus nell’export al “burden sharing” nella NATO fino al gasdotto North Stream 2 dalla Russia.
Purtroppo le iniziative di Washington – dalla denuncia dell’accordo sul clima, di quello sul nucleare iraniano (con la minaccia di sanzioni “secondarie” ai partner commerciali di Teheran, fra i quali spiccava la Francia con progetti di rilievo) ed infine delle intese sulle INF (cioè dei missili intermedi reciprocamente puntati sulle città russe ed europee) – hanno rivelato i limiti delle ambizioni francesi ed anche quelli del cosiddetto “motore franco-tedesco”, alquanto logorato a fronte dell’accelerazione delle variabili geopolitiche.
Il Trattato bilaterale sottoscritto ad Aquisgrana il 22 gennaio scorso è sembrato piuttosto il frutto di un volontarismo commemorativo di quello dell’Eliseo del 1963 che non la piattaforma per mobilitare gli europei su temi delicati ed impegnativi.
È emblematico quello di una Difesa europea indipendente dalla NATO cui viceversa molti partner europei (Polonia, Baltici, Paesi Bassi, Italia, Romania) restano saldamente ancorati. La disponibilità dei Paesi neutri quali Svezia o Finlandia, per motivi diversi ma convergenti, è quantomeno dubbia. La stessa Germania, malgrado recenti segnali di insofferenza nei confronti dell’unilateralismo americano, è lontana dal condividere l’esuberanza interventista francese degli ultimi anni, dalla Libia alla Siria, dal Sahel allo Yemen: la “sindrome della Grande Svizzera”, opulenta ed ovattata, fa comprensibilmente parte del DNA tedesco per effetto delle lezioni del XX secolo.
Infatti il messaggio di Macron del 5 marzo per un Rinascimento europeo è stato accolto a Berlino, come in altre Capitali, con un misto di freddezza ed ironia. Annegret Kramp-Karrenbauer, candidata designata alla successione di Merkel, dopo aver ammonito che l’integrazione europea “passa dai comportamenti e dai risultati economici e non dalla politica” ha lanciato una sfida implicita alla credibilità dell’europeismo francese auspicando la conversione del seggio permanente di Parigi al Consiglio di Sicurezza dell’Onu in un “seggio europeo”! Dal canto suo, Sigmar Gabriel, ex vice Cancelliere socialdemocratico, dopo aver lodato il messaggio anti-populista di Macron, ha ricordato che l’Unione Europea è per Parigi un “moltiplicatore” di potenza e ha auspicato la convocazione di una Conferenza per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa che coinvolga la Russia per un superamento della crisi ucraina.
“La più recente manifestazione del commento di Gabriel è stata offerta dalla formula 3+1 esibita a Parigi il 26 marzo in occasione della visita di Xi Jinping. Dopo aver sottoscritto il giorno prima accordi e contratti per forniture del valore di circa 40 miliardi di euro nella cornice di un partenariato strategico, Emmanuel Macron ha esibito Angela Merkel e Claude Juncker quali «testimoni» di un severo approccio unitario «europeo» alle transazioni con la Cina e al programma della Via della Seta. Il concomitante Consiglio Europeo di Bruxelles lasciava comunque alla discrezione dei singoli Governi la valutazione di aderire o meno al sistema 5 G di Huawei.”
In conclusione, il ruolo di capofila del partito “europeo” in vista delle elezioni del 26 maggio ha indubbiamente conferito al Presidente francese una visibilità indiscutibile. Tuttavia la volatilità del quadro sociale francese, coniugata a un certo vuoto politico successivo alle elezioni tedesche del settembre 2017, è spesso sembrata all’origine di una improvvisazione e di un’insufficiente ricerca di preliminare concertazione con i partner europei che ha nuociuto all’efficacia delle sue iniziative.
Su questa tela di fondo vanne lette anche le difficoltà registrate nei rapporti tra Italia e Francia. Se le nervose critiche alle politiche migratorie del Governo Conte sono apparse ispirate dai riflessi “domestici” per la vicinanza tra Salvini e Le Pen, l’atteggiamento di Macron sull’accordo Fincantieri-STX, concluso nell’era Hollande dal governo Gentiloni, ha fornito la tangibile conferma che i “campioni industriali europei”, capaci di resistere ai giganti americani o cinesi, sono auspicati da Parigi solo quando sono a guida francese o franco-tedesca come nell’intesa Siemens-Alsthom nel ferroviario, peraltro bloccata dall’Antitrust europeo.
Superata l’attuale fase di surriscaldamento preelettorale, sarà forse opportuno che a Parigi come a Roma si cominci a pensare al “dopo” 26 maggio. Anche gli effetti di spesa pubblica per l’assorbimento delle tensioni sottostanti al fenomeno che ha sconvolto le piazze francesi dovrebbero suggerire un serio sforzo di riflessione congiunta sui temi della crescita nell’Eurozona, coerente con quei propositi di riforma a suo tempo giustamente manifestati dall’Eliseo.
Paladino del Rinascimento europeo e di un’Europa della visione politica e non dei contabili, Macron non è riuscito a evitare una profonda crisi con l’Italia, nè a superare la diffidenza tedesca e del nord Europa
Questo articolo è stato pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di geopolitica
Abbonati per un anno alla versione digitale della rivista di geopolitica