Coronavirus: il carcere dopo l’epidemia- L’inchiesta [Parte 3]
Il coronavirus poteva essere un'occasione per ripensare le pene detentive e ricordare la tutela della dignità dei detenuti. L'ultima parte della nostra inchiesta sulla giustizia
diAndreana Esposito, Maria Lucia Pezone e Caterina Scialla 18 Maggio 2020
A police officers detain a relative of the inmates, outside the Devoto prison during a riot demanding health measures against the spread of the coronavirus disease (COVID-19), in Buenos Aires, Argentina April 24, 2020. REUTERS/Agustin Marcarian - RC25BG92YDUC
Il coronavirus poteva essere un’occasione per ripensare le pene detentive e ricordare la tutela della dignità dei detenuti. L’ultima parte della nostra inchiesta sulla giustizia
Un poliziotto blocca un parente dei detenuti fuori dalla prigione di Devoto durante una protesta per richiedere misure sanitarie contro la diffusione del coronavirus, a Buenos Aires, Argentina, 24 aprile 2020. REUTERS/Agustin Marcarian
La pandemia del Covid-19 avrebbe potuto costituire un’ottima occasione per riflettere sull’essenza della pena detentiva. Sulla sofferenza che la detenzione infligge al corpo del condannato. Sulla necessità del carcere e sull’opportunità di scoprire qualcosa meglio del carcere.
Mentre il virus ha suscitato, nella grande maggioranza dei Paesi, risposte governative di tipo paternalistico per i cittadini liberi, dove il buon padre di famiglia sa che, per il bene del figliolo, è opportuno selezionare le informazioni ed è preferibile indicare ciò che è consentito e ciò che non lo è (“non sono permessi party” ha più volte ribadito il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, illustrando l’ultimo DPCM del 26 aprile), l’attenzione per i cittadini detenuti è stata diversa. E il riflesso vendicativo che trasfigura buona parte della pubblica opinione non è mutato. Non è la dignità umana a essere stata messa al centro del dibattito pubblico quanto esigenze di tipo securitario. Si è affrontata l’emergenza senza cogliere l’occasione di ripensare il carcere.
Eppure, il richiamo forte alla dignità umana è stato presente in tutti gli interventi degli organi internazionali di tutela. Il Comitato prevenzione tortura e l’Inter-Agency Standig Commettee delle Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’Oms hanno ricordato agli Stati il dovere di rispettare i diritti umani anche nelle situazioni legate alla pandemia per il Covid-19, sollecitandoli, in particolare, a ridurre rapidamente la popolazione carceraria. Pur nelle fasi emergenziali più drammatiche, i principi guida per i legislatori e gli operatori del diritto sono quelli del rispetto della dignità umana, della solidarietà e della parità di trattamento. Sulla promiscuità carceraria è intervenuto l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelette, raccomandando l’adozione di misure alternative alla detenzione così da ridurre il numero dei detenuti, per evitare una diffusione esplosiva del virus in ambienti chiusi e sovraffollati. Almeno 125 Paesi detengono più prigionieri di quelli per i quali sono stati progettati gli istituti penitenziari, di questi 20 hanno più del doppio del numero di detenuti consentiti, secondo il World Prison Brief, database dell’Institute for Crime & Justice Policy Research dell’Università di Londra.
La social distancing, che il mondo fuori dal carcere è chiamato a osservare, è solo un’illusione per il mondo nel carcere, dove il recluso è costretto a condividere celle pensate per una sola persona. Difendersi dal rischio di infezioni è praticamente impossibile in prigione.
In molti Paesi (tra cui Argentina, Brasile, Francia, Iran, Svizzera, Thailandia e Venezuela), al primo comparire dell’epidemia, i detenuti hanno protestato contro il sovraffollamento e le cattive condizioni igieniche e sanitarie che li espongono a maggior rischio di contrarre Covid-19. In Italia, i detenuti di S. Vittore, Poggioreale e S. Maria C.V hanno reagito alle restrizioni imposte non accompagnate da informazioni chiare sulla situazione sanitaria. Negli istituti di Modena e Rieti, tra i primi a ospitare le sommosse, si sono registrati 12 decessi per abuso di sostanze sottratte dalle infermerie; da Foggia c’è stata una massiccia evasione di 72 detenuti mentre a Bologna l’amministrazione ha disposto di saldare i cancelli di accesso. Il bilancio economico è grave, 35 mln di danni alle strutture, centinaia di posti letto distrutti, 150mila euro di psicofarmaci rubati.
La pericolosità della dimensione carceraria, connotata da fatiscenza delle strutture e da sovraffollamento, è stata sottolineata anche nell’ambito del Consiglio d’Europa. Sia il Presidente dell’Assemblea Parlamentare che il Comitato europeo prevenzione della tortura hanno ricordato come alcuni diritti – come quello alla vita o il divieto di tortura e schiavitù – non possono essere sospesi in nessuna circostanza. Il principio guida cui tutti gli Stati dovrebbero attenersi è quello di adottare ogni possibile misura per la protezione della salute e della sicurezza di tutte le persone private della libertà personale nel rispetto prioritario della dignità umana. Anche per il Cpt il ricorso a misure alternative alla detenzione (quali le alternative alla custodia cautelare, la commutazione della pena, la liberazione condizionale, la messa alla prova e la detenzione domiciliare) è prioritario rispetto ad altri interventi, soprattutto in situazioni di sovraffollamento. Infine, è rimarcata la necessità di uno screening preventivo dei detenuti e la compensazione di ogni restrizione ai contatti con il mondo esterno, inclusi i colloqui visivi, con un accesso maggiore a diverse forme di comunicazione (come il telefono o Voce tramite protocollo internet o VoIP).
Prevenzione, cura, diminuzione dei numeri. Queste le indicazioni date agli Stati.
Nel Regno Unito, il Governo ha previsto, a inizio aprile, alcune misure per il rilascio, temporaneo, mediate l’impiego del braccialetto elettronico, dei detenuti a basso rischio, che hanno già scontato almeno la metà della pena detentiva. Non sono, invece, interessati dal provvedimento i reclusi ad alto rischio, cioè chi è stato condannato per reati di violenza, violenza sessuale o che rappresenta un pericolo per i minori o per la sicurezza nazionale, né chi ha commesso reati legati al Covid-19. Non è rilasciato neanche chi presenta sintomi da coronavirus o chi non è in possesso di un alloggio o di supporto sanitario. Le misure sono, tuttavia, drammaticamente inefficaci: a beneficiarne dovrebbero essere circa 4000 detenuti, cioè il 5% della popolazione carceraria nel Regno Unito (a dicembre 2019 era di 83.000 persone distribuite in modo disomogeneo nei 117 istituti detentivi). “Sarebbe indispensabile avere un detenuto per cella e quindi rilasciarne almeno tra i 10.000 e i 15.000”, precisa Richard Garside, direttore del Centre for Crime and Justice Studies. Il programma per il rilascio anticipato è stato sospeso dopo che 6 persone sono state liberate per un errore ammnistrativo.
In Francia, 83 detenuti e 204 agenti penitenziari sono risultati positivi al Covid-19. Invece, 433 detenuti e 465 agenti hanno manifestato sintomi riconducibili al virus ma non sono ancora stati sottoposti al test. Il Governo ha disposto la liberazione anticipata dei detenuti che erano a soli 2 mesi dalla fine della loro pena, dei detenuti con problemi di salute e di quelli in custodia cautelare.
In Svizzera, le autorità bernesi hanno concesso gli arresti domiciliari a 27 detenuti, appartenenti a categorie a rischio, che si trovavano in un regime di carcere aperto o di semidetenzione e ha rinunciato all’ingresso in carcere nel caso di condanna a pena inferiore a 30 giorni.
In Italia, complicato è tenere traccia dei numeri dell’emergenza, eppure carcere e coronavirus devono essere letti anche attraverso i loro numeri. Il bollettino del Garante nazionale del 28 aprile conta 53.345 detenuti a fronte di una capienza pari a 46.731 posti; la popolazione carceraria è diminuita di circa 8000 detenuti dal 1° marzo. Quasi 3000 persone stanno proseguendo l’esecuzione della pena ai domiciliari e di questi sono circa 700 i detenuti a cui è stato applicato il braccialetto elettronico.
Il dato del sovraffollamento non è l’unico significativo. A questo deve essere aggiunto l’elemento dello spazio pro-capite che deve essere garantito a ciascun detenuto per non violare l’art.3 Cedu: tre metri quadri. È inevitabile che in caso di positività di un detenuto sia difficile isolare i contagiati ai sensi dell’art. 33 dell’ordinamento penitenziario. Nelle attuali condizioni delle carceri non è possibile assicurare un’adeguata prevenzione di contagi da coronavirus: distanza di sicurezza, igiene personale, sanificazione dell’ambiente. Sono tuttora carenti i dispositivi di protezione individuale.
Intanto, i numeri del contagio sono in veloce ascesa, al momento si contano circa 150 detenuti contagiati, più di 200 positività tra agenti e operatori. La situazione è estremamente variabile nelle diverse Regioni, al 22 aprile viene denunciata la realtà del carcere di Verona dove i positivi sono 29 detenuti, 20 agenti, 2 medici e 1 infermiere. Focolai anche alle Vallette di Torino e a S. Maria C.V, a Brindisi il virus è entrato per mezzo di un nuovo arresto negativo alla tenda-triage ma poi aggravatosi. La maggior parte dei positivi è asintomatica. E la totale assenza di uno screening della popolazione carceraria porta a disistimare le reali dimensioni del fenomeno. Pur se appare diversamente, il carcere è una realtà movimentata: personale penitenziario, amministrativo e sanitario, cappellani, volontari, avvocati, magistrati, parenti, garanti. Le mura del carcere possono ritardare ma non impedire la diffusione del virus.
Le risposte, giudiziarie e governative, per fronteggiare l’emergenza non sono state lineari e spesso poco efficaci per una reale riduzione della popolazione ristretta.
Parte della magistratura ha dimostrato di gestire la pandemia in modo coerente con le raccomandazioni internazionali. Il primo intervento è stato del Procuratore generale presso la Corte di cassazione che ha invitato a interpretare gli strumenti normativi alla luce dell’emergenza sanitaria in un’ottica di valorizzazione della malattia da Covid-19 come presupposto interpretativo all’applicazione delle misure. Se la maggior parte della magistratura di sorveglianza ha negato la sospensione della detenzione, non sono mancati provvedimenti – illuminati – di accoglimento. La situazione emergenziale è stata fronteggiata attraverso gli strumenti ordinari dell’ordinamento penitenziario, ora per salvaguardare la tutela della salute collettiva, dando massima applicazione possibile a misure alternative alla detenzione, in presenza ovviamente dei presupposti di legge, così da alleviare la situazione di sovraffollamento e garantire all’interno degli istituti l’adozione delle misure necessarie per prevenire la diffusione del contagio; ora in un’ottica di tutela della salute individuale, garantendo l’immediata fuoriuscita dal carcere di detenuti più esposti alle conseguenze del virus per età e per le patologie accertate (tra cui quelle relative ad alcuni detenuti in 41 bis).
Il Governo è intervenuto con il d.l. Cura Italia (convertito in legge il 24 aprile) con misure di chiusura del carcere all’esterno e di timida apertura per i detenuti disponendo la sospensione dei colloqui in persona prevedendo, ove possibile, la prosecuzione degli stessi tramite modalità telematica, autorizzando la sospensione della concessione di permessi premio e il regime di semilibertà, nulla prevedendo riguardo il regime di lavoro esterno che risulta di fatto sospeso. È stata prevista la detenzione domiciliare speciale rivolta a quanti devono scontare un residuo di pena tra 6 e 18 mesi, a patto che siano dotati di braccialetti elettronici, al momento non disponibili, rischiando di limitarne eccessivamente l’applicabilità. Sono state previste licenze straordinarie per i semiliberi. Tutte misure dalla scarsa capacità deflattiva. Poco aggiunge, sotto questo profilo, il DPCM 26 aprile 2020, che, prescrivendo l’isolamento per i nuovi ingressi che siano sintomatici, pone raccomandazioni tese a valutare la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare per i nuovi ingressi sintomatici e riguardo ai permessi e semilibertà spinge per limitarne l’utilizzo in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, preferendo misure alternative di detenzione domiciliare.
Parole quali indulto e amnistia non sono state pronunciate, con la sola eccezione del Portogallo in cui è stato adottato un indulto, unitamente ad altre misure volte a ridurre il numero dei detenuti.
La pandemia avrebbe potuto costituire un’occasione, per ripensare a nuovi mondi penitenziari, per inventarsi politiche veramente orientate alla rieducazione della pena e alla tutela della dignità dei detenuti. Il carcere ha bisogno di cura. Sempre.
Che tardi che è. Presto che è tardi.
Leggi anche la prima e la seconda parte dell’inchiesta.
La pandemia del Covid-19 avrebbe potuto costituire un’ottima occasione per riflettere sull’essenza della pena detentiva. Sulla sofferenza che la detenzione infligge al corpo del condannato. Sulla necessità del carcere e sull’opportunità di scoprire qualcosa meglio del carcere.
Mentre il virus ha suscitato, nella grande maggioranza dei Paesi, risposte governative di tipo paternalistico per i cittadini liberi, dove il buon padre di famiglia sa che, per il bene del figliolo, è opportuno selezionare le informazioni ed è preferibile indicare ciò che è consentito e ciò che non lo è (“non sono permessi party” ha più volte ribadito il Presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, illustrando l’ultimo DPCM del 26 aprile), l’attenzione per i cittadini detenuti è stata diversa. E il riflesso vendicativo che trasfigura buona parte della pubblica opinione non è mutato. Non è la dignità umana a essere stata messa al centro del dibattito pubblico quanto esigenze di tipo securitario. Si è affrontata l’emergenza senza cogliere l’occasione di ripensare il carcere.
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