La caduta di Kabul offre a Pechino nuovi argomenti per la sua retorica antiamericana. Ma oltre alle opportunità, l’arrivo dei Talebani presenta anche delle incognite
Umiliazione. Si tratta di una parola chiave nella storia recente della Cina, portatrice di ricordi mai del tutto dimenticati e che il Presidente Xi Jinping ha anzi spesso utilizzato per alimentare orgoglio e nazionalismo.
Il secolo dell’umiliazione è finito da tempo e Pechino non perde occasione per ribadire come le potenze occidentali non possano in alcun modo alterare la sua traiettoria, o meglio la sua ascesa. Ora la stessa parola domina i racconti e le analisi sull’Afghanistan dei media di Stato cinesi. Ma stavolta non è la Cina a venire umiliata, bensì gli Stati Uniti. Così come lo erano stati in Vietnam. Un parallelo, quello tra Saigon e Kabul, che viene utilizzato da Pechino per sottolineare la presunta “inaffidabilità” (altra parola chiave) degli Stati Uniti. Prima ancora delle considerazioni geopolitiche e strategiche, il caos in Afghanistan sta fornendo alla Cina nuovo materiale per rafforzare la sua narrativa secondo la quale gli Usa hanno perso la leadership mondiale e il modello globale a guida americano non esiste più.
L’11 settembre prima, la crisi finanziaria poi, infine Capitol Hill. Il Partito comunista intravede nel grande rivale i segnali di una decadenza irreversibile. E li espone a uso e consumo del pubblico interno ed esterno. Obiettivo: rafforzare la propria presa sulla popolazione cinese presentando un paragone favorevole con il modello altrui e allo stesso tempo provare ad ampliare le crepe di sfiducia che il ritiro dall’Afghanistan può aprire a livello internazionale. Un ritiro deciso da Donald Trump e al quale Joe Biden si è attenuto, rispettando peraltro le promesse elettorali. Ma la figuraccia fatta sulla presunta, e prontamente smentita, capacità delle forze militari governative di controllare l’avanzata talebana è tutta del Presidente democratico.
L’insistenza retorica sull’inaffidabilità statunitense serve anche sul fronte taiwanese. Sottolineare la mancata difesa degli alleati da parte di Washington a Kabul significa dire a Taipei: “Molleranno presto anche voi quando decideremo di attaccare”. Un messaggio che sta avendo qualche breccia a Formosa, anche per il suo insistente veicolamento da parte del Guomindang, il partito di opposizione che contesta alla Presidente Tsai Ing-wen un eccessivo avvicinamento agli Stati Uniti, che sembra aver causato una irreparabile frattura (quantomeno a livello diplomatico e ufficiale) con la Repubblica Popolare. Ma le due situazioni sono molto lontane l’una dall’altra. Anzi, il disimpegno americano dal Medio Oriente è motivato anche (o soprattutto) dall’intenzione di concentrarsi su quello che anche il Pentagono ha individuato come rivale strategico numero uno: la Cina, appunto.
Non solo opportunità per la Cina
In realtà, oltre alle opportunità il caos afgano presenta anche qualche timore per Pechino. Soprattutto quello che il corridoio di Wakhan, sottile lingua di territorio che va dal cuore della parte orientale dell’Afghanistan allo Xinjiang. Lungo il percorso, peraltro, separa altri due territori disputati: a nord confina infatti con il Gorno-Badachshan, regione autonoma del Tagikistan nella quale negli anni Novanta si è combattuta una guerra, e a sud con il Gilgit-Baltistan, la sezione di Kashmir controllata dal Pakistan. Pechino teme che in quella lingua di terra possano in qualche modo ritrovare terreno fertile i gruppi armati uiguri, che potrebbero essere in grado di infiltrare lo Xinjiang attraverso il confine condiviso di circa 70 chilometri.
Anche per questo, da tempo la Cina ha allacciato i contatti con i Talebani, riconoscendoli come forza da tenere in considerazione ben prima della presa di Kabul nel giorno di Ferragosto. Già nel 2019 c’erano stati incontri ufficiali, ribaditi nelle scorse settimane. I Talebani cercano l’aiuto della Cina per ottenere un riconoscimento internazionale e yuan freschi da investire nella ricostruzione del Paese. Dall’altra parte Pechino chiede il controllo del territorio e la non proliferazione dei gruppi terroristici, nonché il mancato coinvolgimento nella questione uigura. Non si tratta di una novità strategica, la Cina parla sempre con tutte le parti in causa per tenersi pronta a qualsiasi eventualità.
È accaduto per esempio in Myanmar, dove il Governo aveva costruito rapporti proficui non solo con la giunta militare ma anche (e soprattutto, in realtà) con la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi. Allo stesso modo, Xi Jinping aveva parlato con l’ormai ex Presidente Ghani meno di un mese prima della sua fuga dal palazzo presidenziale. Ora, però, i Talebani sono l’unica forza con la quale costruire “relazioni amichevoli”, sperando che siano in grado di garantire quello che è il perenne mantra e necessità della strategia cinese, soprattutto in Asia: stabilità. Ecco perché ora la portavoce del Ministero degli Esteri, Hua Chunying, dice che il governo cinese è pronto a “rispettare la volontà del popolo afgano” e a sviluppare i rapporti coi talebani.
Senza gli Usa, la Cina avrà più spazio nella regione ma anche più responsabilità.
La caduta di Kabul offre a Pechino nuovi argomenti per la sua retorica antiamericana. Ma oltre alle opportunità, l’arrivo dei Talebani presenta anche delle incognite
Umiliazione. Si tratta di una parola chiave nella storia recente della Cina, portatrice di ricordi mai del tutto dimenticati e che il Presidente Xi Jinping ha anzi spesso utilizzato per alimentare orgoglio e nazionalismo.