L’evacuazione dei collaboratori afghani dopo il ritiro degli Stati Uniti e degli alleati Nato ha dato luogo al più imponente ponte aereo della storia
L’evacuazione dei collaboratori afghani a seguito della uscita dal Paese degli Stati Uniti e degli Alleati e partners della Nato ha dato luogo al più imponente ponte aereo della storia, seguito con il fiato sospeso dal mondo intero.
Essa ha riguardato, in via prioritaria, i cittadini dei nostri rispettivi Paesi o stabili residenti che si trovavano in Afghanistan per motivi di lavoro. Categorie piuttosto estese, dato anche l’alto numero di doppi cittadini, specie americani e inglesi nel Paese. Vi sono stati molti casi complessi, specie quando una parte della famiglia, generalmente il padre, aveva acquisito la cittadinanza straniera mentre gli altri membri della famiglia erano solamente cittadini afghani. In televisione si vedevano le file di persone e gli aerei. Non si vedeva quello che c’era dietro, cioè il lavoro consolare e migratorio delicato sempre e ancor più in emergenza. Vi erano aspetti migratori complessi, ad esempio quando si trattava di capi famiglia con due o tre mogli e figli da ciascuna.
Far partire dall’Afghanistan i nostri cittadini era un “dovere d’ufficio”. La loro sicurezza preoccupava nelle nuove condizioni in cui si trovava il Paese, ma coloro che rischiavano di più erano i cittadini afghani. Quelli che avevano lavorato per noi per lunghi anni e che avevano assistito la Nato e i suoi Stati membri nello sforzo bellico e che poi hanno sostenuto l’esercito afghano nella sua guerra contro i Talebani.
Perché era necessario evacuarli con noi? Perché, al di là delle dichiarazioni concilianti dei Talebani vittoriosi, una larga fascia di essi e dei loro aderenti, seguaci e simpatizzanti considerano chi ha lavorato per gli infedeli e contro la jihad non semplicemente nemici sconfitti, ma mussulmani fuorviati nella migliore delle ipotesi. E apostati nella peggiore, che devono pagare con la vita propria e dei propri familiari il peccato commesso e reiterato. Negli ultimi mesi di guerra i Talebani hanno proclamato periodicamente il perdono per tutti coloro che avevano lavorato per la Repubblica afghana o per gli stranieri ma i numerosi proclami sulla amnistia generale non hanno convinto nessuno. Pochissimi afghani hanno voluto assumersi il rischio di verificare la buona fede dei mullah.
Del resto, la popolazione aveva esempi quotidiani dell’atteggiamento dei Talebani e del loro comportamento. In particolare nei territori che essi hanno controllato o in cui hanno avuto una forte presenza per vari anni prima dell’offensiva finale e dai quali giungevano racconti inquietanti. E anche volendo concedere ai nuovi padroni il beneficio del dubbio, il movimento non è né monolitico né controllato in toto dai suoi vertici. La linea di comando e controllo era e resta tenue, con una certa distanza tra centro e periferia. Era quindi imperativo evacuare dall’Afghanistan coloro che erano stati in prima linea nella lotta al movimento ed estrarre in via prioritaria quelli che erano in vero pericolo.
L’evacuazione è stata improntata a due semplici principi, ai quali si sono attenuti tutti. Primo, essa non era una iniziativa volta a permettere una vita migliore a coloro che venivano trasportati fuori dal Paese, bensì il meccanismo attraverso il quale mettere in sicurezza i nostri colleghi e collaboratori afghani. Secondo, i cittadini afghani evacuati dovevano essere realmente in pericolo, ad evitare che persone che non lo fossero impedissero a coloro che lo erano di raggiungere la sicurezza. Lo sforzo quotidiano è stato veramente notevole. Ho visto casi di individui di cui ci si è occupati per giorni, tenacemente, fino a quando non sono stati messi in sicurezza. In alcune istanze, poche, ciò non è riuscito, lasciando il recupero per una fase successiva ancora in corso.
I collaboratori dei contingenti militari erano stati già evacuati a cura delle rispettive nazioni nel corso del ripiegamento della missione militare Nato. Ciascuno a cura del contingente nazionale dal quale era stato assunto e per il quale lavorava. Pertanto, in linea generale il personale della categoria nota al grande pubblico come quella degli “interpreti”, poi estesasi a ricomprendere tutti i collaboratori dei vari contingenti, era stato messo in salvo già prima del termine della missione militare. Cioè prima della fine di luglio. In aeroporto, dal 15 agosto ne abbiamo avuti alcuni, ma la quasi totalità degli evacuandi era costituita da personale afghano che, a vario titolo, era stato strettamente associato alle Ambasciate o a enti governativi stranieri; oppure esponenti della società civile particolarmente esposti per le posizioni avanzate che avevano preso, per la retorica anti-talebana o per la vicinanza a questa o a quella Ambasciata o organizzazione internazionale.
Non vi era un criterio univoco al quale uniformare l’individuazione degli evacuandi, tolto quello securitario. Ciascun Paese adottava i propri, a seconda delle indicazioni politiche provenienti dalle rispettive Capitali. Successe così che ci ritrovammo con un misto di persone di differente estrazione: personale locale delle Ambasciate, esperti che lavoravano su progetti di cooperazione allo sviluppo (in particolare in campo sociale), personalità della cultura, giornalisti, attivisti dei diritti umani e così via. Oltre a funzionari ed esponenti del Governo caduto, autorità locali invise ai Talebani, alcuni esponenti di reparti militari afghani più in vista. Accanto alle priorità costituite dagli impiegati locali, ciascun Paese ha preso in carico personalità esterne la cui esistenza in Afghanistan avrebbe potuto essere minacciata da un regime intollerante al dissenso, al progresso, all’arte, ai diritti civili e politici. Alcuni sono stati particolarmente attivi sugli esponenti femminili, altri sui giornalisti, altri ancora su attivisti civili e così via. Ciascun Paese assumeva in proprio la responsabilità finale della individuazione, scrutinio di sicurezza, trasporto e ospitalità degli individui e delle famiglie scelte. Con il risultato di coprire uno spettro amplissimo di categorie e persone. Tutte accomunate dalla paura per il futuro e per l’incolumità propria e per quella dei propri familiari.
La comunità internazionale ha pertanto fatto il proprio dovere, nella massima misura consentita dalle circostanze, nei confronti dei propri collaboratori afghani. Si sarebbe potuto fare prima e meglio se le circostanze fossero state diverse e se non avessimo dovuto agire circondati dalle macerie di un esperimento politico male avviato e finito ancora peggio. L’evacuazione è ancora in corso, con modalità diverse rispetto ad agosto e con l’assistenza di Qatar e Pakistan, i due Paesi che ho visitato recentemente e che saranno strumentali, il secondo in particolare, per il successo di questa seconda fase dell’operazione.
L’evacuazione dei collaboratori afghani dopo il ritiro degli Stati Uniti e degli alleati Nato ha dato luogo al più imponente ponte aereo della storia
L’evacuazione dei collaboratori afghani a seguito della uscita dal Paese degli Stati Uniti e degli Alleati e partners della Nato ha dato luogo al più imponente ponte aereo della storia, seguito con il fiato sospeso dal mondo intero.