Dopo l’annuncio del ritiro militare internazionale, i Talebani avanzano, forti dello scarso entusiasmo dell’esercito nazionale afghano e della frammentazione degli avversari sul campo
I passi formali per il ritiro americano dall’Afghanistan che si concluderà il 31 agosto avvengono in un clima complicato. I Talebani avanzano, il Governo di Kabul appare debolissimo e a Washington ci sono voci discordanti sul cosa fare da domani.
Il comandante delle forze Usa in Afghanistan, il generale Scott Miller, ha lasciato la sua posizione e a gestire il ritiro sarà al suo sostituto Frank McKenzie che gestirà le operazioni dal quartier generale del Comando Centrale a Tampa, in Florida.
Nel suo discorso di addio, Miller ha dato voce ai timori dei militari, che hanno come mestiere quello di guardare alla situazione sul campo, ha avvertito che la violenza incessante in Afghanistan sta rendendo sempre più difficile un accordo politico e ha detto di aver detto ai rappresentanti Talebani “che è importante che le parti militari stabiliscano le condizioni per una soluzione pacifica”, ma che con i livelli di violenza che si osservano in queste settimane “sarà molto difficile raggiungere un accordo politico”.
Il Governo di Kabul – che naturalmente in pubblico sostiene il contrario – non è affatto contento dei ritiro e non sembra avere molti alleati nel Paese. Da quando Biden ha confermato il ritiro, pur posponendolo di qualche mese rispetto alla data fissata precedentemente da Donald Trump, i Talebani hanno conquistato il 10% del territorio e oggi controllano più di un terzo dei 421 distretti dell’Afghanistan.
In un’intervista con Associated Press, il signore della guerra Ata Mohammad Noor, che governa la sua provincia da Mazaar-e-Sharif, spiega che l’esercito è demoralizzato, male utilizzato e sostiene che il Presidente Ashraf Ghani sia isolato e incapace di “fare squadra”. La forza dei Talebani, infatti, oltre allo scarso entusiasmo dei militari inquadrati nell’esercito – cui viene pagato lo stipendio in ritardo e che spesso si arruolano per quello – è anche nella frammentazione dei suoi avversari sul campo. Dopo l’annuncio del ritiro fatto da Biden, “Noor è stato uno dei primi a premere per la creazione di nuove milizie, definendole il braccio di una “rivolta del popolo”. Il mese scorso, il Governo ha lanciato un programma di mobilitazione, aiutando ad armare e finanziare i volontari sotto comandanti locali” leggiamo nell’intervista. Naturalmente, con un esercito in ritirata e il rilancio di diversi eserciti tribali o privati, nemici dei Talebani ma non alleati tra loro, la situazione non può che rimanere caotica.
Le colpe degli Stati Uniti
Tutto, inutile sottolinearlo, nasce dall’errore fatale degli Stati Uniti all’indomani della conquista del Paese. In una storia della guerra (“American War in Afghanistan”) appena pubblicata da Carter Malkasian, già assistente per la strategia del Capo di Stato maggiore dal 2015 al 2019 e precedentemente suo collaboratore in Afghanistan, troviamo una spiegazione del disastro americano. In estrema sintesi, gli Stati Uniti non avevano un piano quando hanno invaso il Paese e la loro attenzione sull’Afghanistan post talebano è stata presto deviata dalla guerra all’Iraq; nei primi anni l’impegno alla costruzione di forze armate regolari è stato minimo e si è appaltato troppo ai signori della guerra (i cui abusi sono stati una delle ragioni per cui i Talebani sono arrivati al potere); gli Stati Uniti non hanno capito e non capiscono ancora le implicazioni culturali e politiche delle divisioni tribali, del nazionalismo afgano che Malkasian sostiene essere più forte del sentimento religioso: i Talebani generano consenso perché rappresentano lo spirito nazionale contro gli invasori.
La situazione sul campo lascia, insomma, molte perplessità anche a Washington. Che fine faranno i diritti delle donne? E le scuole? Che figura ci fa Washington, impegnata com’è nel tentare di ricostruire la sua immagina di prima potenza mondiale? Biden sostiene che la sua sia una politica estera “per la classe media” e, naturalmente, la classe media Usa se ne infischia dei diritti delle donne in un piccolo Paese lontano. Biden era per un ridimensionamento dell’avventura afghana già quando era vicepresidente, ma perse quella battaglia (come ricorda l’ex capo del Pentagono Robert Gates nel suo libro “Duty” del 2014, nel quale offre un giudizio pessimo delle qualità del Presidente come analista di politica estera). L’ex vice di Obama, insomma, l’idea di ritirarsi l’aveva da tempo e ha ribadito il concetto nel suo discorso al Paese in materia. Alla domanda se stava dichiarando “missione compiuta”, Biden ha risposto: “Non c’è nessuna missione compiuta. La missione è stata compiuta in quanto abbiamo preso Osama bin Laden, e il terrorismo non proviene più da quella parte del mondo. Non siamo entrati per fare nation building e non voglio mandare un’altra generazione di uomini e donne in guerra quando una soluzione militare non è possibile”.
Gli Stati Uniti si sono impegnati a spendere 4,4 miliardi di dollari all’anno per finanziare le forze di sicurezza dell’Afghanistan fino al 2024. Attraverso l’assistenza militare e la cooperazione, Washington può sperare di complicare la vita ai Talebani e rallentare la loro avanzata, in maniera da rendere più necessari e utili anche a loro i colloqui di pace mediati dall’Iran.
E qui c’è un altro nodo di politica estera. Un nodo per Washington, ma anche per altri. I vicini dell’Afghanistan avrebbero tutti interesse a un Paese stabilizzato e non in mano ai Talebani – eccezion fatta forse per il Pakistan. Le potenze regionali però non sono esattamente i migliori amici di Washington: Russia e le ex Repubbliche sovietiche, Cina e Iran vanno coinvolti e per farlo servirà un grande sforzo diplomatico.
Dopo l’annuncio del ritiro militare internazionale, i Talebani avanzano, forti dello scarso entusiasmo dell’esercito nazionale afghano e della frammentazione degli avversari sul campo