Nel 99% dei Paesi latinoamericani la democrazia esiste solo sulla carta, sempre più distante dalla democrazia piena, minacciata dal conflitto in corso tra le istituzioni
Nel 99% dei Paesi latinoamericani la democrazia esiste solo sulla carta, sempre più distante dalla democrazia piena, minacciata dal conflitto in corso tra le istituzioni
Da quando la via del golpe non è più percorribile in America Latina, i rischi per la democrazia riconquistata in quasi tutto il continente passano attraverso le frequenti forzature messe in atto dai tre poteri dello Stato. Mantenere la separazione e l’autonomia dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario richiede un grande sforzo, soprattutto nei sistemi presidenziali, laddove ci sono forti tradizioni populiste. Nella mentalità di molti Presidenti eletti direttamente dal popolo, infatti, il Parlamento deve essere sempre allineato alle loro politiche. E, se in un determinato momento accade che la maggioranza parlamentare non coincide con quella che ha espresso l’esecutivo, il Parlamento tende a essere delegittimato. La stessa difficile relazione si ripropone con il potere giudiziario. Diversi presidenti sono riusciti a modellare la Corte Suprema dei rispettivi Paesi a loro immagine e somiglianza, una mossa utile per modificare costituzioni e leggi elettorali, o per garantirsi l’immunità. Nel rapporto tra il potere esecutivo e quello giudiziario, però, a volte gli abusi sono di segno opposto: può accadere che spezzoni della magistratura agiscano per scardinare i Governi per conto di poteri forti dell’economia o di altre fazioni politiche.
Si percepisce, insomma, un crescente fastidio a sottostare ai “fondamentali” della democrazia liberale, soprattutto per quanto riguarda il bilanciamento e l’autonomia fra i tre poteri dello Stato. Gli ultimi anni offrono un ricco campionario di forzature, strappi e tentativi (riusciti o falliti) da parte di un potere di prevaricare sull’altro. L’elenco è lungo. Cominciando dal Sudamerica, in Venezuela nel 2017 Nicolás Maduro insediò un Parlamento parallelo (l’Assemblea Costituente), che finì per assorbire i poteri di quello legittimo, che nel 2015 era democraticamente passato sotto il controllo delle opposizioni. Quella mossa diede il via a una serie di colpi di scena, tentativi di golpe, nomine di presidenti provvisori, limitazioni degli spazi di libertà per le opposizioni, che hanno finito per delegittimare l’intero sistema istituzionale e politico che regge il Paese bolivariano.
Bolivia
Altro caso da manuale è stata la traumatica vicenda che ha coinvolto la Bolivia a partire dalle elezioni contestate del 2019, con la fuga all’estero del Presidente eletto Evo Morales e il Governo provvisorio di Jeanine Áñez, fino all’insediamento di Luis Arce dopo regolari elezioni nel novembre 2020. Le cause poco raccontate di questo pasticcio andrebbero rintracciate in quanto accaduto nel 2016, quando i cittadini respinsero un referendum indetto da Morales per modificare la Costituzione nel punto che fissava un limite ai mandati presidenziali. Malgrado il chiaro segnale dato dal popolo boliviano, Morales riuscì a ottenere una sentenza incredibile dalla Corte Costituzionale, a maggioranza vicina a lui: i diritti umani del cittadino Morales prevalevano sul dettato costituzionale, quindi si dava via libera alla sua quarta candidatura.
Ora che la vicenda si è conclusa e che il partito di Morales, il MAS, è tornato legittimamente al Governo, la magistratura indaga in carcere Jeanine Áñez (l’ex Presidente provvisoria del Paese durante l’interregno) e alcuni suoi Ministri per “colpo di Stato”, oltre che per le sanguinose repressioni delle manifestazioni pro-Morales avvenute durante il suo mandato. Ma non risultano indagini a carico del vertice dello Stato Maggiore dell’esercito, che “suggerì” a Morales di dimettersi e lasciare la Bolivia, né di Luis Camacho, leader dei settori oltranzisti ostili a Morales e sicuramente di spirito golpista, ora governatore di Santa Cruz.
Brasile
Arrivando in Brasile, chi aveva avanzato dubbi sulla legittimità dei procedimenti giudiziari nei confronti dell’ex Presidente Inácio Lula da Silva attribuisce valore storico a due recenti sentenze della Corte Suprema. La prima ha cancellato le condanne a Lula per corruzione passiva perché la Corte giudicante non aveva giurisdizione sul suo caso: i processi quindi andranno rifatti. La seconda stabilisce che il giudice Sergio Moro, coordinatore del pool della mega inchiesta Lavajato ed ex ministro della Giustizia di Jair Bolsonaro, fu “parziale” nel condurre l’inchiesta su Lula. La vicenda costò all’ex presidente operaio 580 giorni di prigione e una condanna a 17 anni in secondo grado. L’inchiesta Lavajato si era caratterizzata per le pressioni esercitate sulla corte giudicante, gli arresti spettacolari, la costruzione e manipolazione di prove, le forzature sulla giurisdizione usate per impedire la candidatura di Lula da Silva alle elezioni presidenziali del 2018, aprendo la strada al trionfo di Bolsonaro.
Questi fatti, che prima erano sospetti privi di conferme, ora fanno parte della storia brasiliana: li confermano le sentenze della Corte Suprema e le intercettazioni dei messaggi con i quali Moro faceva pressione sulla Corte giudicante del caso Lula. I primi sondaggi dicono che Lula vincerebbe le elezioni del 2022: ciò ha generato una situazione di caos nel Governo di Bolsonaro, già sotto tiro per la disastrosa gestione della pandemia, dando il via all’ennesimo rimpasto dell’esecutivo e alle tensioni con i vertici militari. Ma la storia recente brasiliana ci racconta un altro caso di guerriglia tra i poteri. È quello di Dilma Rousseff, mai accusata formalmente di corruzione eppure destituita da una procedura di impeachment nel 2016 per ripicca politica, mentre molti tra i parlamentari che complottarono contro di lei oggi sono in galera per corruzione.
Argentina
In un quadro simile, non stupisce che in Argentina i dieci procedimenti giudiziari avviati per corruzione contro l’ex presidente, e oggi vicepresidente, Cristina Fernández Kirchner siano letti da una parte dell’opinione pubblica come la prova che la Kirchner sia alla testa di una grande rete di corruzione, e dall’altra come la manifestazione di un complotto ordito dai giudici per eliminarla dalla politica. I processi finora non hanno portato a condanne, anche grazie all’immunità di cui gode l’imputata, che intanto spinge perché venga varato un indulto: ma senza ammettere la propria colpevolezza.
America Centrale
In America Centrale, Honduras e Nicaragua sono i Paesi dove per la democrazia si sono registrati i passi indietro più significativi. L’Honduras, dal golpe del 2009 contro il Presidente Manuel Zelaya non è mai riuscito a recuperare un livello di democrazia soddisfacente e per molti osservatori il Partido Nacional al Governo basa la sua posizione sulla frode elettorale. Nel Nicaragua di Daniel Ortega, ormai un veterano della manipolazione della Costituzione, il Governo sta discutendo una legge che criminalizza la dissidenza politica e che rischia di eliminare la stampa libera in nome della difesa dal terrorismo. Gli oppositori potrebbero essere qualificati come “agenti stranieri” e sanzionati pesantemente.
Il conflitto tra le istituzioni
La grieta, la spaccatura che divide in due molte società latinoamericane, non riguarda dunque solo la contrapposizione tra partiti con diverse idee politiche, ma prende anche la forma di un conflitto tra le istituzioni che insieme dovrebbero garantire il meccanismo della democrazia e invece risultano separate da un abisso sempre più largo e profondo. È l’eterna questione della “qualità democratica”. Della distanza, cioè, tra la democrazia sulla carta, che esiste per il 99% dei Paesi latinoamericani, e una democrazia piena. Il populismo, il caudillismo, la corruzione, l’esasperazione della lotta politica minano l’equilibrio democratico e alimentano la guerriglia tra poteri. Il problema si è presentato in tutta la sua potenzialità distruttrice anche là dove meno ce lo si aspettava: negli Stati Uniti, durante le ultime settimane del Governo di Donald Trump. Ovviamente da queste situazioni tutti escono indeboliti, e in molti Paesi torna a riaffacciarsi la nostalgia per l’uomo forte. Ma il paradosso, o forse la speranza, è che nessuno sarebbe più disposto a sacrificare i diritti acquisiti in democrazia, per tornare a un passato che ha prodotto solo lutti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Nel 99% dei Paesi latinoamericani la democrazia esiste solo sulla carta, sempre più distante dalla democrazia piena, minacciata dal conflitto in corso tra le istituzioni
Da quando la via del golpe non è più percorribile in America Latina, i rischi per la democrazia riconquistata in quasi tutto il continente passano attraverso le frequenti forzature messe in atto dai tre poteri dello Stato. Mantenere la separazione e l’autonomia dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario richiede un grande sforzo, soprattutto nei sistemi presidenziali, laddove ci sono forti tradizioni populiste. Nella mentalità di molti Presidenti eletti direttamente dal popolo, infatti, il Parlamento deve essere sempre allineato alle loro politiche. E, se in un determinato momento accade che la maggioranza parlamentare non coincide con quella che ha espresso l’esecutivo, il Parlamento tende a essere delegittimato. La stessa difficile relazione si ripropone con il potere giudiziario. Diversi presidenti sono riusciti a modellare la Corte Suprema dei rispettivi Paesi a loro immagine e somiglianza, una mossa utile per modificare costituzioni e leggi elettorali, o per garantirsi l’immunità. Nel rapporto tra il potere esecutivo e quello giudiziario, però, a volte gli abusi sono di segno opposto: può accadere che spezzoni della magistratura agiscano per scardinare i Governi per conto di poteri forti dell’economia o di altre fazioni politiche.
Questo contenuto è riservato agli abbonati
Abbonati per un anno a tutti i contenuti
del sito e all'edizione cartacea + digitale della rivista di
geopolitica