Il regno saudita vuole restare leader nella fornitura di energia e si prepara a diventare “il più grande esportatore di idrogeno sulla terra”
Dicono che sia spesso il dettaglio a fare la differenza. Vale nella moda, ma anche nella geopolitica. Quando lo scorso gennaio il Ministero dell’Energia dell’Arabia Saudita ha presentato il suo nuovo logo, stava in realtà mostrando molto più di una semplice grafica. Dietro all’immagine – una palma stilizzata all’interno di una mappa approssimativa del regno dai confini blu e verdi, circondata da un cerchio dagli stessi colori – c’era la volontà di Riad di raccontare la propria strategia per la transizione energetica. La pandemia di coronavirus ha accelerato un processo che ci consegnerà, tra “soli” ventinove anni, un mondo meno dipendente dai combustibili fossili, dove saranno le fonti rinnovabili a fare la parte del leone. E l’Arabia Saudita, il più grande esportatore di petrolio, non sta remando contro, ma nella stessa direzione.
Se il petrostato per eccellenza si riscopre sostenibile non è solo per amore verso il pianeta – o almeno non soprattutto –, ma perché vuole garantirsi la rilevanza geopolitica e la sopravvivenza economica anche in un futuro a basse emissioni di CO2. Nel 2050, la data ultima generalmente fissata per il raggiungimento della “neutralità carbonica”, il greggio non sarà certo sparito e continueremo ad averne bisogno, sia per l’energia che per la produzione di plastica o di asfalto. Ma non c’è dubbio che la sua domanda andrà riducendosi. Riad deve correre ai ripari, o sarà una catastrofe: dall’oro nero dipende non soltanto l’economia ma la tenuta della monarchia stessa, visto che il contratto sociale tra la dinastia e la popolazione si fonda sulla redistribuzione delle rendite petrolifere.
Riad corre ai ripari
Non significa però che l’Arabia Saudita sia già condannata, né che i suoi giacimenti perderanno ogni valore. Riad ha bisogno di prezzi del greggio di 80 dollari al barile per far quadrare il proprio bilancio pubblico, ma d’altro lato può contare su riserve enormi e su costi di produzione bassissimi (meno di tre dollari al barile) per continuare a operare anche in un mercato ristretto e conquistare le quote degli esportatori meno competitivi.
I depositi di fonti fossili possono poi servire a produrre l’idrogeno, di cui si parla come del combustibile del futuro. Il suo utilizzo non genera infatti CO2 ma vapore acqueo, e quindi può permettere la decarbonizzazione di quelle industrie e di quei trasporti (camion, navi e aerei) che non si riesce a elettrificare, oltre a svolgere una funzione di accumulo di energia per affiancare la generazione rinnovabile intermittente. Ma l’idrogeno è davvero “pulito” a seconda di come lo si ottiene: il metodo attualmente più diffuso ed economico è però inquinante, richiede l’utilizzo di combustibili fossili, libera CO2. C’è in realtà un processo che permette di ricavare idrogeno dagli idrocarburi senza rilasciare anidride carbonica nell’atmosfera, ma catturandola e stoccandola sottoterra. L’idrogeno prodotto in questo modo è detto “blu”. Ed ecco spiegato uno dei due colori del nuovo logo del Ministero saudita.
Quello che Riad vuole comunicare, con le figure e con i fatti, è che un mondo carbon neutral continuerà ad aver bisogno di lei e della sua energia. Secondo le previsioni di BloombergNEF, entro il 2050 l’idrogeno potrebbe soddisfare il 24% del fabbisogno energetico globale e creare un mercato da 700 miliardi di dollari all’anno. Lo scorso settembre c’è stata la primissima spedizione di ammoniaca blu – un gas contenente idrogeno ma più semplice da trasportare –, partita dall’Arabia Saudita e diretta in Giappone: 40 milioni di tonnellate in tutto, che verranno bruciate nelle centrali giapponesi per generare elettricità quasi senza emissioni (anche il vapore acqueo è un gas serra). A sentire i politici sauditi, il carico di settembre è solo il primo di una lunga serie, perché il Paese ambisce a diventare “il più grande esportatore di idrogeno sulla Terra”, come annunciato dal ministro dell’Energia Abdulaziz bin Salman.
Non c’è solo il blu. L’idrogeno davvero pulito, nonché quello che suscita maggiore interesse, è chiamato “verde” e si ottiene da un processo di elettrolisi che utilizza l’energia elettrica generata da fonti rinnovabili: è ancora più costoso e richiede grossi investimenti in macchinari. L’Arabia Saudita – e il logo del Ministero lo dichiara – vuole comunque essere leader sia dell’uno che dell’altro.
Per creare idrogeno blu, il regno può attingere a vasti giacimenti di gas naturale. Per quello verde, invece, ha a disposizione ettari ed ettari di terreni liberi e soleggiati dove installare impianti fotovoltaici. Finora Riad non ha sfruttato granché il proprio potenziale solare per la produzione di energia, ma le cose dovrebbero presto cambiare perché entro il 2030 le rinnovabili dovranno generare il 50% dell’elettricità. La capacità rinnovabile attuale è minima, neanche un gigawatt; il Ministro Abdulaziz dice però che prossimamente le installazioni solari procederanno a un ritmo di 5-7 GW all’anno. L’Arabia Saudita ha firmato sette accordi per la produzione di elettricità dal sole in varie parti del Paese, per 3,6 GW in tutto. A colpire sono soprattutto i costi di generazione, che in qualche caso fissano un nuovo minimo mondiale: circa un centesimo di dollaro per kilowattora. Disporre di tanta ed economica elettricità rinnovabile significa poter poi creare – e vendere – idrogeno a un prezzo competitivo.
Il progetto per l’idrogeno verde
Oltre ad aver spedito il primo carico di ammoniaca blu, l’Arabia Saudita sta anche costruendo uno dei più grandi impianti per l’idrogeno verde al mondo, alimentato da 4 GW di energia solare ed eolica. Il progetto si chiama Helios Green Fuels, vale 5 miliardi di dollari e sorgerà a Neom, la smart city nel deserto promossa dal principe ereditario Mohammed bin Salman, nel 2025. Produrrà 650 tonnellate al giorno di idrogeno dall’elettrolisi, che potrà essere convertito in ammoniaca verde da caricare sulle navi. L’IRENA, l’Agenzia internazionale dell’energia rinnovabile, dice che oggi produrre un chilo di idrogeno verde costa all’incirca 5 dollari. Secondo la società di servizi finanziari S&P Global, però, dovrà raggiungere almeno i 2-2,5 dollari al chilo entro il 2030 perché possa veramente imporsi come alternativa ai combustibili tradizionali. Le stime prevedono che per quella data l’idrogeno verde di Helios avrà un prezzo di 1,5 dollari al chilo. La Germania – che, come tutta l’Unione europea, deve raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050 – si è già mossa per garantirsi l’idrogeno saudita e lo scorso marzo ha firmato una dichiarazione di intenti con Riad per la generazione e il trasporto dell’elemento.
L’idrogeno dal gas naturale rappresenta per Saudi Aramco, la compagnia petrolifera statale saudita, un’opportunità per ripensare il proprio modello di business senza doverlo stravolgere. La società ha sottoscritto un memorandum con Hyundai Heavy Industries, la grande azienda sudcoreana di costruzioni navali, sull’ammoniaca blu. A marzo l’amministratore delegato Amin Nasser ha detto che Aramco vuole “espandere e intensificare” la cooperazione sull’idrogeno blu con la Cina.
Riad è il primo fornitore di petrolio di Pechino: la transizione energetica che la Repubblica popolare ha imboccato – e che la porterà, al 2060, ad azzerare le proprie emissioni nette di gas serra – potrebbe non cancellare del tutto questo rapporto, ma modificarlo. La Cina è ad oggi il maggiore produttore di idrogeno ma della variante “grigia”, quella ricavata dagli idrocarburi senza catturare la CO2. Il Paese ha una corposa domanda industriale e di mobilità da soddisfare e da adeguare agli obiettivi di decarbonizzazione: i colossi cinesi del settore, a partire da Sinopec, hanno infatti già virato verso l’idrogeno più pulito. Il passaggio a un’economia low-carbon migliorerà probabilmente l’autosufficienza sull’energia di Pechino, riducendone la dipendenza dall’esterno. La sicurezza energetica della Cina è, per Nasser, la priorità di Saudi Aramco “per i prossimi cinquant’anni e oltre”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
Il regno saudita vuole restare leader nella fornitura di energia e si prepara a diventare “il più grande esportatore di idrogeno sulla terra”
Dicono che sia spesso il dettaglio a fare la differenza. Vale nella moda, ma anche nella geopolitica. Quando lo scorso gennaio il Ministero dell’Energia dell’Arabia Saudita ha presentato il suo nuovo logo, stava in realtà mostrando molto più di una semplice grafica. Dietro all’immagine – una palma stilizzata all’interno di una mappa approssimativa del regno dai confini blu e verdi, circondata da un cerchio dagli stessi colori – c’era la volontà di Riad di raccontare la propria strategia per la transizione energetica. La pandemia di coronavirus ha accelerato un processo che ci consegnerà, tra “soli” ventinove anni, un mondo meno dipendente dai combustibili fossili, dove saranno le fonti rinnovabili a fare la parte del leone. E l’Arabia Saudita, il più grande esportatore di petrolio, non sta remando contro, ma nella stessa direzione.
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