Giornalista freelance, reporter e analista geopolitico.
Angela Merkel: l’egemone riluttante
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Passati quasi 16 anni dall’ingresso di Angela Merkel alla cancelleria si può oggi dire che la bambina sia diventata signora. Das Mädel, appunto “la bambina”, era il soprannome dispregiativo con cui la chiamava Helmut Kohl, che ai tempi dell’unificazione tedesca mai avrebbe pensato che quella allora giovane donna sarebbe diventata Cancelliera e poi signora d’Europa. Eppure così è stato. Sotto di lei negli ultimi 15 anni la Germania ha acquisito una posizione di assoluta centralità nello spazio europeo. Merkel si è affermata come abilissima equilibrista governando la crescita economica e politica della Bundesrepublik e tenendo sempre in considerazione i vincoli geopolitici a cui la Germania è legata. Tuttavia l’attuale congiuntura internazionale chiama Berlino a compiere scelte strategiche a cui non è più abituata. Per evitare di dovere scegliere Merkel ha fatto un passo indietro, cedendo la presidenza della Cdu e rinunciando alla ricandidatura a Cancelliera in occasione delle elezioni del prossimo settembre. Aprendo così delle incognite sul futuro tedesco e di tutta l’Europa.
Le priorità geopolitiche della Germania
Le traiettorie geopolitiche della Germania dipendono molto dalla sua conformazione territoriale. La barriera orografica alpina a sud e la concorrenza inglese e americana sui mari a nord e ovest conferiscono al nucleo strategico tedesco la vocazione ad estendersi verso est. Cosa che ha generato le grandi catastrofi del Novecento ma dopo il 1989 anche una pacifica espansione commerciale in direzione orientale. Tollerata dagli Stati Uniti purché Berlino rimanesse priva di un proprio pensiero strategico e militare e restasse così saldamente ancorata ai vincoli posti dalla pax americana. Così, all’inizio del 2000 la Repubblica Federale aveva raggiunto uno status apparentemente perfetto: libera da preoccupazioni militari, leader economico nello spazio europeo, forte di una politica commerciale incentrata sull’export distribuito lungo le rotte marittime protette dalla marina statunitense. In questo contesto molti osservatori la definirono come una potenza civile: un’entità post-storica che rifiuta di concepirsi come nazione, interessata solo alla crescita economica, priva di una propria strategia geopolitica, difesa dagli americani e liberata dalla propria identità nazionale perché ormai sciolta nel sistema valoriale occidentale. Si tratta di un’operazione storica e psicologica considerata necessaria per redimere definitivamente i tedeschi dai disastri del Novecento e resa possibile dall’appartenenza allo spazio di influenza statunitense.
Ciò nonostante la salita al potere di Merkel nel 2005 inaugurò una fase di transizione tutt’oggi in corso che segna un progressivo svincolamento dall’idea di potenza civile a favore dello sviluppo di una strategia geopolitica tedesca. Cosa che non combacia con le priorità geopolitiche degli Stati Uniti, da sempre ostili all’affermazione di una grande potenza europea egemone nella Ue e che possa avere terreni di collaborazione con Russia e Cina. L’iniziatore di questa transizione fu Gerhard Schröder, che prima di cedere il posto a Merkel formalizzò con Vladimir Putin il progetto del gasdottoNord Stream, confermando così la Germania come principale distributore degli idrocarburi russi in Europa. E ponendo così l’Unione europea nelle condizioni di sviluppare attraverso Berlino una politica energetica e orientale più autonoma dagli interessi americani. Con l’aumento delle tensioni tra Washington e Mosca divenne però evidente che la Germania (e l’Europa) non avrebbe potuto giovarsi contemporaneamente della copertura militare americana e dei commerci con Mosca. Emergeva così la divergenza tra l’appartenenza al mondo occidentale e gli interessi di un’ampia parte del mondo industriale germanico che trae vantaggio dalla Ostpolitik commerciale.
Un secondo momento di transizione è iniziato con la crisi economico-finanziaria nel 2008. L’aumento del distacco tra la locomotiva tedesca e le altre economie europee ha condotto Berlino a legarsi ancora di più ai mercati orientali, soprattutto alla Cina che dal 2016 è diventata il suo primo partner commerciale. Inoltre la gestione della crisi ha spinto Merkel a un protagonismo politico in seno alla Ue mai sperimentato prima: dalla crisi finanziaria a quella dell’euro, dalla guerra in Ucraina alla crisi migratoria, fino all’odierna pandemia di Covid-19. Da allora ci si chiede se il gigante economico tedesco stia diventando tale anche sul piano geopolitico. In questo contesto alcuni osservatori definiscono la Bundesrepublik come un “egemone riluttante”: una potenza geo-economica che esita a farsi geopolitica perché ancorata ai propri vincoli storici e psicologici. Cioè principalmente all’agganciamento agli Stati Uniti e al senso di colpa per i crimini commessi nel Novecento in nome della geopolitica.
Dove sta andando la Germania?
Arrivato il 2021, alla luce dell’inasprimento delle tensioni tra Stati Uniti e Russia e in vista delle elezioni, è quindi inevitabile chiedersi: dove va la Germania? Qual è la sua natura? Potenza civile o potenza geopolitica? Sul piano interno il Paese è profondamente spaccato in due correnti di pensiero che dividono anche i partiti. Da una parte gli occidentalisti tout court che credono nell’idea di potenza civile; dall’altra chi rivendica un percorso geopolitico indipendente dagli Stati Uniti. Entrambe sono il prodotto dell’impronta che Merkel ha dato alla Germania. Il ricollocamento della Cdu su posizioni valoriali progressiste voluto dalla Cancelliera ha dato spinta a destra all’affermazione della Afd (11%), l’unico partito che compattamente aspira al ritorno della potenza geopolitica tedesca in chiave nazionalista. Ad esso si contrappone soprattutto il partito dei Verdi, l’unico invece compattamente anti-russo, post-storico e filo-occidentale che è oggi la seconda forza del Paese (20%) e che cresce anche grazie alle sue campagne di delegittimazione dei nazionalisti. Gli altri partiti sono tutti spaccati. Lo sono le sinistre della Spd (16,5%) e della Linke (6%), i liberali della Fdp (8%) e anche la Cdu che però resta il primo partito nazionale (33%) grazie al consenso recuperato con l’approccio pragmatico e concreto di Merkel durante la pandemia.
Alla luce delle debolezze delle sinistre e dei liberali e dell’inconciliabilità con le posizioni radicali della Afd l’attuale congiuntura politica favorisce un’alleanza di governo tra Cdu e Verdi. Questa è già attiva in sei Land federali e in alcune città ma inedita a livello nazionale e non priva di incognite. Le posizioni post-nazionali e progressiste dei Verdi sono difficilmente conciliabili con quelle di una parte importante, se non maggioritaria, dei cristiano-democratici che credono nell’esistenza della Leitkultur, una cultura guida conservatrice se non nazionalista che definisce la germanicità. Una coalizione così eterogenea rischia di essere priva di minimi comuni denominatori e di minare la compattazione interna, requisiti indispensabili per un soggetto geopolitico compiuto. Ciò indebolirebbe quindi il protagonismo internazionale tedesco, rafforzando invece l’agganciamento della Bundesrepublik all’Occidente.
Non si tratta però di una questione solo tedesca, bensì europea. Questi nuovi equilibri mettono infatti sotto scacco l’impostazione che ha segnato il successo politico di Angela Merkel in seno alla Ue. In Europa la Cancelliera ha sempre assunto un atteggiamento battezzato appunto merkelismo: attendista, realista e sganciato da ogni ideologia, esso valuta di volta in volta le diverse situazioni da fronteggiare. Rinviando alle calende greche ogni preciso posizionamento geopolitico della Bundesrepublik e quindi anche della Ue. L’inasprimento delle tensioni interne e internazionali chiama però la Germania a superare questa ambiguità e a definire la propria collocazione geopolitica. Cosa che la Cancelliera ha sempre fatto di tutto per evitare. Arrivati a questo punto Merkel si è quindi chiamata fuori, rinunciando alla ricandidatura alle prossime elezioni e cedendo la leadership della Cdu ad Armin Laschet, suo delfino. Il quale si pone in diretta continuità con il merkelismo e tenterà quindi di rinviare ancora la questione geopolitica prolungando il più possibile l’attuale fase di transizione. Un compito che non gli sarà certo facile.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.