[ROMA] Insegna Scienza della Politica a La Sapienza. Ha curato “Radicali, all’azione! Organizzare i senza-potere” di Saul Alinsky (con Alessandro Coppola, Ed. dell’Asino).
Dove ha sbagliato l’America?
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Potrebbe essere una domanda banalissima, in fondo, quella da porsi. Cosa è andato storto? Dove hanno sbagliato gli Stati Uniti? Perché il mondo non assomiglia a quello che gli americani avevano immaginato, e di riflesso gli europei, dopo la fine della Guerra fredda?
Sarebbe presuntuoso cercare di dare una risposta definitiva a questa domanda (storici ed esperti di relazioni internazionali la pongono da molto più tempo, all’interno di un dibattito complesso e per nulla concluso). E sarebbe molto complicato sciogliere i nodi che legano la questione della “fine del secolo americano”, intesa come perdita di capacità di imporre al mondo un modello di governance congeniale agli obiettivi degli Stati Uniti, con quella della crisi “di sistema” dell’architettura istituzionale americana e della sua identità politica. E comunque vale sempre il principio di cautela: poco più di venti anni fa pareva del tutto plausibile discutere di “nuovo secolo americano”; adesso diamo per scontato l’esatto contrario: serve mantenere un equilibrio.
E poi: quanto le crisi interne sono anche causa delle crisi di proiezione esterna di un Paese? E quanto la crisi della democrazia americana è dentro una crisi più generale delle democrazie occidentali? Siamo così certi che la crisi del primato americano non sia anche la crisi di tutto l’Occidente? Quanta alterità esprime, per davvero, l’Europa rispetto al caso americano? A queste domande non si potrà dare risposta nelle prossime righe, ma appare sempre più complesso dividere i destini dell’Europa da quelli americani. E forse nemmeno una forte volontà politica degli europei potrebbe rendere praticabile questa divaricazione.
Senza voler rubare il lavoro agli storici, e cimentandosi in una storia del presente (pratica sempre avventurosa) si può ragionare su una periodizzazione di questo trentennio a guida americana, quello successivo alla formidabile vittoria sull’antagonista sovietico. Un trentennio da ripartire in tre fasi. Il primo periodo è quello della “certezza del primato”, che va dalla Guerra del Golfo del 1990 all’11 settembre del 2001; il secondo è quello della “messa alla prova del primato”, che va dal 12 settembre 2001 all’elezione di Barack Obama; il terzo è quello del “ridimensionamento del primato”, che va dal 20 gennaio 2009 – giorno di insediamento di Barack Obama, a oggi.
Gli anni della “certezza del primato”, dalla Guerra del Golfo all’11 settembre 2001. Nel mainstream accademico e in quello degli opinionisti globali pochi contestavano l’idea che il nuovo secolo sarebbe stato un “secolo americano” (il secolo della “Nazione indispensabile”, de “l’Impero benevolente”, de “l’Iperpotenza”, per citare Hubert Vedrine). Il 1990, con la guerra in Iraq, aveva segnato la prima guerra del Nuovo Ordine Globale: a guida americana, sotto egida dell’Onu, sostenuta e finanziata da tutti.
Nel gioco dell’equilibrio fra il “dentro” e il “fuori”, però, il Presidente che si era trovato a essere il vincitore della Guerra fredda, George H. Bush, si trovò a essere percepito come inadeguato per far vincere l’America sul fronte interno, quello del benessere e della prosperità. Nel 1992 Bill Clinton incarnò la biografia ideale del primo Presidente del dopo Guerra fredda, e lo fece in una campagna elettorale basata sui temi dell’economia. Era un baby boomer che non era legato, rispetto alla generazione politica precedente, ai codici e alle prassi del “Cold War Warrior”: erano gli anni in cui gli americani avevano paura di aver vinto la Guerra Fredda, ma non il dopo Guerra Fredda. L’ascesa economica del Giappone − poi naufragata in una grande stagnazione − fece paura però solo all’inizio dei Novanta: Clinton incarnò di fatto una presidenza che confermava le ragioni del Primato attraverso il boom dell’economia digitale, ovvero l’ipoteca americana sul mondo del futuro.
Così sicura di sé − a casa propria, ma anche nell’organizzazione dei nuovi modelli della governance globale − da teorizzare le nuove forme dell’interdipendenza globale, praticarla, imporla agli europei attraverso la Nato (gli europei erano incapaci di risolvere i problemi di casa propria, come dimostrava la crisi balcanica), gestire l’ingresso della Cina nel WTO. Dove sbagliò, però, l’Amministrazione di allora? Forse nel più antico dei peccati di qualsiasi vincitore, il peccato di hybris. Nonostante il campanello di allarme dell’attentato di al-Qaeda alle ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam del 1998, con 224 morti (ma solo 12 americani), gli Usa non lessero fino in fondo la natura dei cambiamenti in atto.
Gli anni della “messa alla prova del primato”, dall’11 settembre all’elezione di Barack Obama. Si è trattato di una tempesta perfetta. L’11 settembre rappresentava una sfida di enorme portata: rispondere in modo adeguato e con successo significava ristabilire le ragioni del primato, ma la risposta venne lasciata in mano a un interprete non attrezzato per la sfida, ovvero un Presidente come George W. Bush. Il quale conosceva poco il mondo, tanto da fare affidamento su di una compagnia di giro scombinata come quella dei Cheney, dei Rumsfeld e dei neo-conservatori.
Un mix di vecchio cinismo repubblicano e di dottrinari ideologici. Il cinismo repubblicano − rilanciare la macchina a tutto motore per ricordare al mondo chi comanda, cancellando gli orpelli del multilateralismo degli anni Novanta e ridando linfa al vecchio “complesso militare-industriale” − si scontrò con l’impossibilità di condurre due guerre contemporaneamente. La dottrina del primato militare americano si basava sull’assunto che gli Usa fossero in grado di vincere due guerre nello stesso momento, in due diversi quadranti geo-strategici: sappiamo come è andata sia in Iraq che in Afghanistan. La macchina della forza si è inceppata, nonostante la palese superiorità degli americani rispetto a qualsiasi competitor.
Dall’altra parte, si è inceppata anche la macchina della produzione di ideologia che ha sostenuto l’idea del rilancio del primato americano di marca repubblicana: l’idea neo-conservatrice che il Paese del “Destino Manifesto” potesse portare a termine, da solo, la missione di democratizzare il mondo si palesa nella sua inconsistenza. Per i neo-conservatori il multilateralismo degli anni Novanta era solo un artificio dei democratici, un simbolo della loro debolezza: per esempio, si concedeva credito all’Europa, i cui governi erano rei di aver combattuto la battaglia per la libertà e la democrazia troppo spesso in modo ambiguo. Il Paese, così, si ingolfa in due lunghe guerre − che stancano presto gli americani − mentre esplode la crisi economica e finanziaria del 2007/2008. Non solo traballa l’edificio che dovrebbe aiutare a gestire il mondo fuori dai confini, ma trema dalle fondamenta il cuore stesso del sistema americano, quello che garantisce il benessere dei suoi cittadini. Nel 2001 il sistema doveva ideare il modo per rispondere a un test di maturità; nel 2008 il test non è stato superato e si è aperto un nuovo, gigantesco, fronte.
Gli anni del “ridimensionamento del primato”, dalle elezioni di Barack Obama a oggi, ci costringono a mettere insieme Biden, Trump e lo stesso Obama. Obama diviene presidente sotto la spinta di una grandissima speranza − vi ricordate lo slogan “Hope”, utilizzato durante la campagna elettorale del 2008? − cioè quella di far dimenticare le presidenze di George W. Bush e invertire la rotta. La rotta però è cambiata. Intanto è cambiata la domanda di molti attori interni al sistema politico americano: Obama proietta il desiderio di una maggiore attenzione agli equilibri interni del Paese, di una maggiore cura delle patologie del Paese, a partire dalle grandi diseguaglianze, l’assenza di diritti, di un welfare accettabile.
È da Obama in poi che la classe dirigente americana e i suoi elettori si fanno dichiaratamente più “insulari”, ridimensionando nei fatti l’internazionalismo liberale dei Novanta − e il suo parente cattivo, l’interventismo neo-conservatore − una volta per tutte. Ci si occupa del malato America perché troppo poco si è fatto per lui: un approccio che può essere declinato, in forme molto diverse, tanto a destra che a sinistra. Nel mentre, l’America acuisce tensioni mai risolte in questi ultimi 50 anni: Trump scatena il revanscismo bianco “offeso” dalla vittoria di Obama, mentre gli afroamericani e altri segmenti sociali si radicalizzano (come se Obama avesse aperto il vaso di Pandora delle domande inespresse di cambiamento, nonostante il suo pragmatismo e il suo moderatismo). Per certi versi Obama − è una battuta, ma non troppo − è una sorta di piccolo Gorbaciov afroamericano: permette di intravedere un processo di autoriforma del sistema che galvanizza molti dentro e fuori il suo Paese, ma che si risolve in un potente rinculo dell’azione riformatrice e in un’ondata di caos.
Biden è ancora dentro questo paradigma, in questo conflitto. In modo magari goffo, ma al primo posto pare esservi l’obiettivo di rimettere la casa “in ordine”, quasi fosse condizione necessaria, sebbene non sufficiente, per affrontare il nuovo nemico esterno. L’America deve guardare molto più di prima dentro se stessa perché, come alcuni autori hanno sostenuto, si trova sull’orlo del collasso dell’ordine costituzionale. Il livello delle fratture interne alla società rende gli Stati Uniti un luogo esplosivo; le modalità e le abitudini istituzionali utilizzate per tenere a bada alcune faglie di conflitto non esistono più da almeno 30 anni. Le necessità strategiche di contenimento della Cina − che si diano per buone o meno − potrebbero rappresentare un collante, ma sarebbero un collante debole: la Guerra fredda del Novecento non ha nulla a che vedere con la condizione attuale, a partire dal dato dell’interdipendenza economica che caratterizza Cina e Stati Uniti.
Diceva proprio Hubert Vedrine, un anno fa: “Gli Stati Uniti hanno cominciato a cambiare molto tempo fa, gli americani si erano resi conto ben prima di Trump che continuare a fare i gendarmi del mondo non funzionava più. Già con Obama abbiamo imparato a conoscere una forma di disimpegno. Da anni abbiamo di fronte un’America che è diventata dura anche con i suoi alleati. Le sanzioni extraterritoriali, per esempio, sono uno scandalo assoluto: e non le ha decise Trump. L’idea che la Cina sia la sfida principale era già un’idea di Obama. Trump ha dato l’impressione di seminare distruzione e caos perché è violento, aggressivo, volgare, spesso scioccante, ma i problemi che sono apparsi con lui esistevano già prima”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.