[ROMA] Giornalista, dopo dieci anni presso la televisione australiana SBS, dal 2011 è corrispondente dall’Italia della TV iraniana Press TV.
Australia: le rotte dell’oro azzurro
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Il 22 agosto scorso la metaniera Attalos attraccava nel porto dell’Isola del Grano, nel Kent, per consegnare al gigante tedesco Uniper oltre 170 mila metri cubi (mc) di GNL da immettere nella rete di distribuzione del gas del Regno Unito. Era la prima volta in sei anni che un cargo australiano consegnava GNL in Europa. Tre mesi più tardi un’altra nave australiana, la Woodside Rees Withers, raggiungeva il terminal di Maasvlakte, a Rotterdam, con un altro carico di GNL sempre destinato a Uniper. La nuova fornitura di combustibile super refrigerato avveniva parallelamente alla firma di un accordo di lungo termine tra l’azienda tedesca e il colosso australiano dell’energia Woodside che prevede l’approvvigionamento di un miliardo di mc di gas naturale l’anno da consegnare nei porti dell’Europa centrale e nord-occidentale fino al 2039. Si tratta di quantitativi ancora relativamente modesti ma che tracciano un nuovo corso nelle relazioni internazionali tra i grandi gruppi dell’energia. L’Europa ha bisogno di diversificare le sue fonti di gas per ridurre la dipendenza dalla Russia e l’Australia, almeno nel breve periodo, potrebbe venirle incontro con la prospettiva di giocare un ruolo sempre più strategico nella nuova, caotica catena dell’approvvigionamento energetico globale.
Canberra maggior esportatore mondiale di GNL
Nel 2019 Canberra, con 77 miliardi di metri cubi (mc) di gas consegnati, è diventata il maggior esportatore mondiale di GNL, lasciandosi alle spalle il Qatar. La crescita della domanda, grazie soprattutto alle commesse con Giappone e Cina, era già stata considerevole nel secondo decennio del nuovo secolo. La guerra in Ucraina e le speculazioni sui mercati internazionali hanno ulteriormente fatto lievitare domanda e prezzi dando una spinta ancora più decisa alle esportazioni del combustibile super refrigerato australiano. Canberra oggi si è mantenuta sugli stessi, alti, livelli: le metaniere che quest’anno sono partite dagli impianti degli stati di Western Australia, Northern Territory (NT) e Queensland hanno rifornito di oltre 80 miliardi mc di GNL il mercato asiatico − con Tokyo e Pechino che si sono accaparrate quasi 3/4 dei carichi. Ma lo scacchiere geoeconomico è in continua evoluzione e nel gioco dei riposizionamenti molti Paesi supplier di gas, ergo molte aziende, hanno dovuto (o voluto) rimodulare strategie e accordi già presi nel nome dell’emergenza energetica legata non tanto alla mancanza delle risorse quanto alle attività speculative tipiche del mercato spot (o a pronti).
I giganti del gas
Già a marzo gli Stati Uniti, ad esempio, hanno siglato accordi per la fornitura di 15 miliardi di mc di GNL all’Ue per tutto il 2022 ma per fare ciò hanno dovuto cancellare alcune importanti commesse con Giappone e Corea del Sud. Ci vorranno almeno 2-5 anni prima che Washington sia in grado di aumentare ulteriormente le forniture di gas all’Europa. Il tempo necessario per costruire nuove infrastrutture per i processi di raffreddamento e condensazione del gas estratto con il fracking (e consentire al Vecchio continente di dotarsi di un numero sufficiente di impianti di rigassificazione). Anche altri giganti del gas come Algeria e Qatar hanno dovuto modificare le rispettive strategie. Dopo le intese con il governo italiano, a fine dicembre Algeri – che ha esportato la quantità record di 56 miliardi di mc nel 2022 − ha siglato un accordo con Berlino che potrebbe vedere la rinascita del gasdotto Galsi, per il trasporto di gas, in una prima fase, e di idrogeno verde, in futuro, dal Paese nordafricano fino alla rete tedesca attraverso la Sardegna e l’Italia continentale. Il Qatar dal canto suo ha stipulato accordi quindicennali con diverse aziende tedesche per 2 miliardi di mc l’anno e contratti con la Cina per la fornitura di 4 miliardi di mc l’anno della durata di 27 anni. In prospettiva i giacimenti qatarioti sono quelli più ricchi, longevi e a basso costo estrattivo, caratteristiche che hanno spinto gli addetti ai lavori a definire il Qatar come l’Arabia Saudita del gas.
Un futuro pieno di interrogativi
In questo contesto l’Australia ha un presente luminoso, un domani rassicurante ma un futuro pieno di punti interrogativi. Mentre alla borsa di Amsterdam il prezzo del gas – grazie alla decisione (secondo alcuni tardiva) di Bruxelles di imporre un price cap − è sceso a livelli pre-conflitto russo-ucraino, il governo di Canberra stima che il prezzo medio del GNL per il 2022-23 salirà comunque fino a 22,6 dollari australiani (A$) per gigajoules con un incremento di ricavi di quasi il 40% rispetto all’anno commerciale precedente. In soldoni, il valore delle esportazioni del GNL australiano, che era già passato da 30 a 70 miliardi di A$ nell’ultimo anno finanziario, supererà 90 miliardi A$ entro il prossimo giugno. Profitti da capogiro considerando che il quantitativo di GNL esportato rimarrà più o meno invariato. Ma in una fase in cui la corsa a sostituire le fonti di approvvigionamento del gas ha spinto le potenze mondiali a farsi concorrenza a vicenda, ci si chiede se l’Australia sia pronta a cogliere le opportunità che le si potrebbero presentare con l’Ue bisognosa di ragguardevoli forniture di oro azzurro.
La situazione appare complessa
Da almeno un paio d’anni Canberra stava pianificando di costruire nuovi impianti per i terminal di ricezione del GNL ma è stata anticipata da Francia, Germania, Olanda e Italia che si stanno accaparrando tutte le FSRU – le unità galleggianti di stoccaggio e rigassificazione − necessarie per convertire il GNL, incluse quelle “prenotate” dalle aziende australiane. Inoltre gli impianti di alcuni dei principali giacimenti australiani di gas stanno invecchiando. È il caso del North West Shelf, il più grande progetto di estrazione del Paese, che ha iniziato ad esportare già dal 1989. Gran parte degli impianti in Australia hanno almeno vent’anni di attività e richiedono ingenti investimenti per la manutenzione, investimenti che il regolatore dell’energia offshore Nopsema invoca già da qualche anno. Senza contare che permangono significative barriere ambientali all’esplorazione di gas onshore in particolare sulla costa orientale.
Il fracking e l’ambiente
Le aziende australiane estraggono il gas in gran parte dal ricco deposito di giacimenti sotto le acque relativamente poco profonde nelle regioni nord-occidentali (produzione convenzionale, rappresenta oltre il 70% delle riserve) e, in maniera crescente, anche con il fracking delle giunture del carbone (gas di letto) e delle rocce scistose e argillose (produzioni non convenzionali). La fratturazione idraulica è una tecnica di estrazione vietata in alcuni stati australiani (in Tasmania e Victoria, quest’ultima ha recentemente aperto al gas da carbone) o parzialmente consentita negli altri perché i rischi associati sono molteplici. Spesso le aziende che operano in ambito “non convenzionale” trovano una forte opposizione da parte di comunità indigene, proprietari di allevamenti e aziende agricole e ambientalisti. I gruppi che si oppongono all’utilizzo del fracking sostengono che possa causare la contaminazione delle falde acquifere per via del mix di agenti chimici e liquidi inquinanti utilizzati durante la perforazione del terreno, gravi stravolgimenti del sottosuolo, alterazioni dell’ecosistema e, attraverso l’emissione di IPA (idrocarburi policiclici aromatici), possa arrecare disturbi respiratori. La situazione appare complessa.
La “svolta ecologica” di Albanese
A rendere la questione più complicata per le lobby dei combustili fossili è arrivata la vittoria dei laburisti alle elezioni dello scorso maggio. L’attuale governo federale è ideologicamente molto distante dal precedente conservatore, negazionista della crisi climatica e schierato palesemente dalla parte delle multinazionali dell’energia. All’indomani della tornata elettorale il primo ministro Anthony Albanese ha promesso una svolta ecologica che al momento tarda ad arrivare malgrado il governo abbia ribadito, durante la Cop27 di novembre, la promessa di tagliare del 43% le emissioni di carbonio entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050. Albanese non si è ancora impegnato a sospendere l’espansione di nuovi progetti carboniferi e minerari, e nemmeno a interrompere quelli esistenti.
Negli ultimi dieci anni, sono stati sviluppati quattro progetti di esportazione di GNL onshore (Pluto, Gorgon, Wheatstone e Ichthys) e uno offshore (Prelude FLNG) nell’Australia nordoccidentale per un totale di 230 mila mc di gas al giorno, mentre sulla costa che affaccia sul Pacifico sono stati completati tre progetti sull’isola di Curtis nel Queensland (Queensland Curtis, Gladstone e Australia Pacifico) con una capacità complessiva di 90 mila metri cubi al giorno.
Un tetto al prezzo del gas per il mercato interno
Malgrado l’abbondanza, solo il 20% del gas estratto è destinato ad uso nazionale. Famiglie e imprenditori australiani hanno vissuto mesi complicati nel timore che il costo di gas ed energia elettrica salisse ben oltre il 20% registrato dall’inizio del conflitto russo-ucraino. Il primo ministro Albanese è stato chiaro: il libero mercato dell’energia ha fallito in Australia e al fine di evitare ulteriori aumenti il governo Albanese ha deciso di adottare per il mercato interno un tetto al prezzo del gas di 12 A$ per gigajoules della durata di un anno e previsto un bonus di 1,5 miliardi per aiutare i consumatori a pagare le bollette. Provvedimenti definiti di stampo sovietico da alcuni media e che hanno irritato l’opposizione conservatrice e i gruppi energetici, anch’essi delusi dall’introduzione del price cap. Le aziende energetiche temono che quella del tetto ai prezzi possa diventare una misura permanente e che quote sempre maggiori di combustile gassoso vengano riservate per le esigenze del mercato interno. Senza contare che la tesoreria federale stima nuove ingenti entrate fiscali: l’autorevole think tank The Australia Institute ha chiesto di tassare il 100% dei profitti come compensazione degli aumenti dei costi in bolletta, “causati dalle stesse aziende produttrici di gas”. Con questi presupposti sarà difficile per Woodside, Santos, Origin Energy, Caltex e le altre big del GNL downunder colmare il vuoto di approvvigionamento di gas previsto a livello globale a partire dal 2024.
Ristabilizzare le relazioni con la Cina
A meno che il panorama geoenergetico non subisca un ulteriore, radicale stravolgimento e l’Australia perda un buyer della portata della Cina per motivi politici. Negli anni passati, quelli con l’ultraconservatore Scott Morrison alla guida del governo australiano, le relazioni tra i due Paesi sono piombate al punto più basso, con Pechino che ha sempre evitato incontri ufficiali con Canberra a causa dello stretto allineamento militare di quest’ultima con gli Stati Uniti. Oggi il governo Albanese sembra propenso ad allentare la tensione in vista di una normalizzazione delle relazioni, prova ne è la visita ufficiale del ministro degli esteri australiano Penny Wong a Pechino a fine dicembre.
La Cina, impegnata a ridurre la propria dipendenza dal carbone, dal 2018 è diventata la maggiore importatrice di gas naturale a livello mondiale. Gli accordi pluriennali siglati con la Russia prima dell’inizio del conflitto in Ucraina (prevedono la costruzione di gasdotti che collegheranno le regioni russe più orientali con la Cina nord-orientale per trasportare 10 miliardi di mc di gas l’anno) e poi con il Qatar potrebbero far pensare a un tentativo di smarcamento dalle considerevoli forniture di gas (e carbone) australiani.
Australia, elezioni in un mondo instabile
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“Abbiamo avuto siccità, alluvioni, incendi e pandemia. Ora dobbiamo vedercela con la Guerra”. Con queste parole, usate come per evocare le piaghe bibliche, il Primo Ministro uscente australiano Scott Morrison ha aperto la campagna elettorale lo scorso aprile dopo aver indetto le elezioni federali per il 21 maggio. Devoto della chiesa pentecostale Horizon Church – quella che teorizza la teologia della prosperità individuale − Morrison, in corsa per la riconferma, ha fatto capire da subito quale sia la strategia dei Liberals per sconfiggere i Labor e ottenere un quarto mandato consecutivo: persuadere gli australiani che la coalizione dei conservatori sia la sola forza politica in grado di gestire con mano ferma gli interessi geopolitici e l’economia del Paese in una situazione di emergenza sanitaria e di estrema instabilità, regionale e globale. I sondaggi, per ora, gli stanno dando ragione. Il significativo vantaggio di cui, per quasi un anno, ha goduto il partito laburista nelle rilevazioni sulle intenzioni di voto si sta gradualmente assottigliando. Secondo i media australiani Morrison sarebbe addirittura in vantaggio sullo sfidante Anthony Albanese. L’inasprimento del conflitto in Ucraina, il controllo del Pacifico e il progressivo deterioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, con cui ormai, anche il Governo australiano è ai ferri corti, hanno avuto un ruolo fondamentale in questo spostamento di preferenze. Economia interna, diversificazione dei mercati per l’export e riposizionamento strategico-militare nel sud-est asiatico sono diventati così i temi elettorali sui quali si scontreranno Morrison e Albanese, con la questione ambientale ancora una volta relegata a un ruolo marginale.
Il Covid ha avuto un impatto molto pesante sull’economia australiana. Se dal punto di vista sanitario la scelta del Governo Morrison di adottare restrizioni che hanno a lungo paralizzato le aziende ha portato effetti positivi − in pratica l’Australia azzerò i contagi già verso la fine del 2020 − da quello economico è stata una mezza catastrofe. Il Pil ha fatto registrare un calo del 7% dopo le chiusure di inizio pandemia, con 2.7 milioni di persone, su una popolazione di 25 milioni, rimaste senza lavoro o con un numero di ore lavorative drasticamente ridotto. A seguito della rimozione delle misure di contenimento della pandemia, l’economia australiana, trainata dall’esportazione di materie prime e da stanziamenti governativi per il rilancio di quasi 300 miliardi di dollari australiani, si è scrollata di dosso in breve tempo la recessione e ha ricominciato a dare segnali positivi, con il tasso di disoccupazione che in pochi mesi è sceso di due punti percentuali (dal 6% al 4%). In questa fase si è registrato lo strappo definitivo con Pechino, con cui Canberra è legata a doppio filo da decenni. Nell’aprile del 2020 Morrison ha invocato una commissione internazionale che indagasse sulle origini del Covid nel Paese del Dragone, il più grande partner commerciale dell’Australia, destinazione del 35% dell’export del Paese (ferro, carbone, gas, lana) per un valore di oltre 100 miliardi di dollari nel 2019. Inoltre, sempre nei mesi della prima ondata di Covid in Australia, una commissione parlamentare ha stabilito che i rischi economici associati alla dipendenza da un unico mercato, quello cinese, fossero troppo alti e che occorresse diversificare le esportazioni. Così nel giro di due anni Canberra ha intrapreso la strada del decoupling siglando accordi di libero scambio con una decina di Paesi dell’Asia orientale e del Pacifico e, soprattutto, con l’India (l’AI-ECTA, dazi commerciali praticamente azzerati, secondo gli esperti gli scambi tra i due Paesi passeranno dagli attuali 27 miliardi di dollari a oltre 45 miliardi nei prossimi cinque anni) e il Regno Unito (l’A-UKFTA, l’accordo elimina le tariffe dal 99% delle esportazioni australiane, favorendo le vendite di vino, carne bovina e zucchero australiani, merci recentemente boicottate dalla Cina).
In realtà, le relazioni tra i due uffici diplomatici, si erano già complicate dal 2013, quando il governo laburista, in carica da sei anni, fu sconfitto alle elezioni dai conservatori, tradizionalmente più allineati con gli interessi statunitensi nel Sud-est asiatico (al punto tale che lo stesso ex-quattro volte Primo Ministro liberale John Howard ha definito l’Australia “il vice-sceriffo americano nella regione del Pacifico”). Tre anni più tardi i media australiani denunciarono che partiti di maggioranza e opposizione avevano ricevuto cospicui finanziamenti cinesi e che dei parlamentari laburisti si facevano pagare le fatture di viaggi ed impegni istituzionali da finanziatori molto vicini al partito comunista cinese. Quelle rivelazioni innescarono uno scambio di ritorsioni sempre più dure a iniziare dal 2018, quando il governo australiano scelse per motivi di sicurezza nazionale di vietare l’utilizzo di tecnologia Huawei e ZTE per la costruzione della rete 5G – e prese parte insieme a India, Giappone e Stati Uniti al processo di rivitalizzazione del dialogo sulla sicurezza nella regione indo-pacifica conosciuto come Quad (Quadrilateral Security Dialogue), un’iniziativa in chiave anti-cinese voluta soprattutto da Tokyo e Washington che alcuni media locali etichettarono come un possibile primo passo verso una Nato asiatica. Pechino non è rimasta a guardare, imponendo durissime sanzioni sull’importazione di alcuni prodotti agricoli australiani (vino, orzo, carne) e facendo irritare Canberra per la firma di un MoU con il premier dello stato del Victoria nell’ambito della Belt and Road Initiative, bypassando completamente il governo federale. Tensioni e rappresaglie che hanno portato a un punto di non ritorno: la firma del trattato Aukus, lo scorso settembre, che ha sancito la nascita di un’alleanza trilaterale con Usa e Uk volta a contenere le mire di Pechino e rafforzare la presenza americana nella regione (con il crescente rischio di utilizzo di armi atomiche visto che la difesa australiana verrà dotata di sottomarini a propulsione nucleare). La recente firma di un accordo sulla sicurezza tra Pechino e le Isole Salomone, a meno di un paio d’ore di aereo da Cairns, ha indispettito non poco l’Australia (e di riflesso gli Stati Uniti) preoccupati che i cinesi possano disporre di una base militare addirittura nel Mar dei Coralli.
Queste tematiche si sono inserite di prepotenza nel dibattito elettorale tra Liberali e Laburisti, mentre l’australiano medio si domanda se il già elevato costo della vita aumenterà in maniera ancora più decisa a causa degli effetti della pandemia, delle sanzioni cinesi, della guerra in Ucraina (il costo delle scuole per l’infanzia, quello del gas per uso domestico e dell’elettricità e dei servizi medici e ospedalieri è aumentato tra il 75 e il 100% nel periodo 2009-2019). I media australiani scrivono che il candidato laburista Albanese avrà qualche possibilità di vincere le elezioni solo se, al contrario di Morrison − che sta tentando di dare una connotazione cachi (come il colore delle uniformi delle forze armate di terra delle nazioni di mezzo mondo) alla tornata elettorale − riuscirà a tenere il focus del dibattito sui temi che stanno più a cuore alla gente: l’economia, i cambiamenti climatici e la gestione delle catastrofi naturali che da anni stanno tormentando il Paese e che hanno visto Morrison in grande difficoltà durante gli incendi del 2019 e le alluvioni di quest’anno.
Albanese, 59 anni, da 26 in politica, è stato vice Primo Ministro per soli due mesi nel 2013 e due volte ministro federale (sviluppo regionale e trasporti). Di origini italiane, è un figlio dell’amore fugace sbocciato su una nave carica di emigrati europei, tra una irlandese e un barlettano negli anni ‘60. La sua posizione sulla questione dei cambiamenti climatici non differisce di molto da quella dell’avversario. I laburisti hanno detto che non si opporranno all’utilizzo del carbone, la principale risorsa mineraria australiana, vero pilastro del sistema economico nazionale, e anche se chiamati a governare, difficilmente prenderanno le distanze dalle politiche sull’ambiente dei conservatori. L’Australia è e rimarrà uno dei Paesi che più ostacola l’azione della comunità internazionale in senso ambientale e che si oppone alla conversione ecologica. Ora, in tempo di guerra, più che mai.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.