[Roma] Economista e sinologo, presidente del think-tank Osservatorio Asia e vicepresidente dell’Associazione Italia- Asean. Autore di numerose pubblicazioni, ha incarichi di docenza sull’economia dell’Asia Orientale in diversi Master post-universitari.
La nuova centralità cinese
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L’irrigidimento delle posizioni cinesi – sia esso una decisione o una conseguenza – è un fatto oggettivo. La crescita dell’antagonismo con Washington – indipendentemente dalle responsabilità da attribuire − è innegabile. Le tensioni nel Mar Cinese meridionale – causa o effetto dell’assertività di Pechino − continuano a provocare apprensione. Per sciogliere o almeno allentare questi interrogativi è utile porsene un altro, meno eclatante ma più fertile per la comprensione. Xi Jinping sta guidando la Cina, fino a cambiarla, oppure il Paese ha bisogno di un uomo forte e lui rappresenta la migliore soluzione? La risposta ovviamente è complessa e pesca delle verità in entrambe le soluzioni avanzate. Tuttavia gli osservatori internazionali – anche tra i più avvertiti – hanno largamente evidenziato la prima risposta. Probabilmente l’impatto mediatico impone scorciatoie analitiche o titoli eccessivamente sintetici, dove prevale la personalizzazione: Xi Presidente a vita, uomo solo al comando, onnipotente come non si vedeva dai tempi di Mao.
Queste affermazioni non si possono ragionevolmente contestare. Fin dalla sua prima nomina a Segretario generale del Partito comunista cinese – la più importante di tutte – Xi ha acquisito anche quelle di Presidente della Repubblica e di Presidente della Commissione militare centrale. La prima serve a funzioni protocollari, soprattutto nelle visite all’estero, la seconda garantisce ovviamente il controllo delle forze armate. Inoltre il limite tradizionale dei due mandati – di stampo costituzionale per il Capo di Stato e di prassi per il Segretario – è stato annullato e dunque Xi si appresta a essere rieletto nelle due cariche (e verosimilmente anche la terza) al prossimo Congresso del Pcc previsto in Ottobre. La nuova procedura − che non fissa alcun limite − costituisce evidentemente un rafforzamento della sua posizione. Deng Xiaoping − l’uomo che ha preso le redini del paese alla morte di Mao, l’architetto della Cina dei record – aveva a cuore l’ordinata transizione politica, la regolarità della crescita, il controllo sociale. Gli anni tumultuosi della Rivoluzione culturale, le lotte di potere tra le diverse fazioni, l’esasperazione ideologica della Banda dei Quattro si ergevano contro l’obiettivo principale perseguito da Deng: la crescita nella stabilità. Dopo la repressione di Tienanmen del 1989, il passaggio dei poteri tra i successivi quattro Segretari è stato pacifico e concordato. La novità di Xi è effettivamente dirompente. Infine, si assiste in Cina a una omologazione delle posizioni che fa ripensare al culto della personalità, una pratica che si era sbiadita negli ultimi lustri. Più che mai, la Cina parla con una voce sola, quella del suo Timoniere. Tutto questo – va ribadito – è innegabile.
Tuttavia, questa analisi va completata osservando la Cina nella sua complessità, cogliendone le dinamiche e i punti critici. Il Paese che Xi eredita nel 2012 è all’acme della sua crescita economica, spesso imperniata sulle due cifre annue del Pil. Evidentemente ha funzionato ancora bene l’onda lunga delle riforme di Deng: fiato all’iniziativa privata, attrazione degli investimenti esteri, basso profilo nella scena internazionale, continuità come bene supremo. Come sempre, dietro il punto di massimo sviluppo si nascondeva la flessione. La crisi finanziaria e quella reale hanno evidenziato la debolezza strutturale, celata dai lunghi successi, dell’economia cinese. Basandosi sul traino della domanda internazionale, attraverso le esportazioni, risulta dipendente dal ciclo globale. Una crisi economica – sempre più ricorrente – minaccia reddito e occupazione, con conseguenze molto pericolose. Inoltre, dipendere dall’estero non è dignitoso. Può un paese nazionalista vedere la propria ricchezza decisa da altri? Sarebbe necessario migliorare i consumi interni e ridurre il peso degli investimenti. Sostituire una investment-led growth con una domestic led-growth. Il compito è titanico, ci vorrebbe una dirigenza forte. Le resistenze sono molte, dai conservatori all’interno del Pcc a chi ha tratto vantaggio dalle vecchie abitudini (e spesso sono le stesse persone). Ci sarebbe bisogno di migliorare l’assetto produttivo, sofisticandolo con i settori di punta. Ma c’è chi resiste perchè la Cina dei record quantitativi – sterminato opificio di cemento, acciaio, tessile, calzature – è dura a morire. Solo chi ha pieni poteri può riuscirci.
L’immenso flusso di denaro che il Governo ha iniettato per sostenere la domanda è finito nei consueti canali delle imprese di Stato, nell’opacità della finanza parallela, mentre alimenta i rivoli oscuri degli interessi personali. La corruzione serpeggia nel partito, fino a non poter più essere negata. Il nuovo segretario eletto nel 2012 ha un compito improbo: ripulire l’organizzazione che dirige senza farla crollare, intervenire con il bisturi e non con la sciabola, estirpare le parti difettose mentre la macchina è in moto. Per il Pcc non è il tempo di riforme o di aperture; è in gioco la sopravvivenza stessa del Partito; l’esperienza di Gorbacev è un anatema da nascondere; il destino del Pcc coincide con quello del paese. In queste circostanze drammatiche emerge la personalità di Xi. Uomo di apparato, forte, acuto, vanta un curriculum impeccabile all’interno del Partito. È apprezzato per la sua determinazione e la sua integrità. Figlio di un alto dirigente caduto in disgrazia e riabilitato, ha conosciuto personalmente le difficoltà e le ferite della Rivoluzione culturale. Come tutti i suoi colleghi importanti ha studiato ingegneria, accoppiandola con l’ideologia, una materia non meno importante per il suo compito. Quando gli viene consegnato il paese, Xi accetta volentieri, con l’ambizione di pensare che il suo polso fermo non sia una scelta ma una necessità.
Da allora, la sua impronta coincide con la Cina. I nemici interni vengono indeboliti. Molti si allineano, altri finiscono agli arresti o pongono fine alle loro vite. La lotta alla corruzione è un alleato prezioso. I suoi uomini vengono messi nelle posizioni di comando, dall’esercito alla propaganda, dalla sicurezza alla gestione dei dati. Il suo entourage accentra responsabilità inedite, facendo flettere di fatto le prerogative dell’esecutivo. Le misure più dure sono iniziali, poi ognuno sa dove si dirige il vento.
È comunque nella politica estera che le novità appaiono più eclatanti, anche questa volta legate alla personalità del Segretario. Sono note le iniziative cinesi che si dipanano lungo due versanti. Quello economico verte sulla collaborazione, sulla lotta al sottosviluppo, sul mantra della win-win situation. Gli interventi in Africa e l’iniziativa della Nuova Via della Seta ne rappresentano gli aspetti più conosciuti. L’altro – con connotazioni che attengono alla sicurezza e alla geo-politica – riguarda l’espansione nel Mar Cinese meridionale. Pechino rivendica un immenso tratto di mare che sposterebbe i suoi confini marittimi migliaia di chilometri verso sud, a ridosso di molti paesi del Sud-est asiatico. Asserisce che le appartengano una manciata di isolotti, scogli, secche sui quali costruisce fari, attracchi, piste di atterraggio. Ogni variazione dello status quo di Taiwan costituisce inoltre una sfida immediata al controllo statunitense della regione e alla Pax Americana scaturita dal secondo conflitto mondiale. È il più importante tra gli assetti precari di un interminabile dopoguerra.
Pechino ha lanciato una politica più assertiva perché il suo obiettivo strategico – sconfiggere l’arretratezza e proporsi come una potenza globale – è stato raggiunto. Per quattro decenni hanno prevalso le raccomandazioni di Deng di concentrarsi sulla moderazione e la responsabilità. Attrarre iniezioni di tecnologia straniera, entrare nel WTO rappresentavano i passaggi intermedi per una nuova centralità cinese. Ora le irrisolte questioni di politica internazionale possono essere riportate sull’agenda. Pechino vuole riscuotere i dividendi politici dei suoi successi economici. Non sarà ovviamente un’impresa facile, lo testimoniano le cronache sempre più preoccupanti di questo periodo. Non sorprende dunque che ci sia bisogno di un uomo forte che rappresenti la nazione, che tranquillizzi e controlli i suoi cittadini, che consegni alla storia la Cina remissiva, ma che non la conduca in avventure esiziali per sé e di conseguenza per la stabilità mondiale.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.