Delusi dall’Europa, Serbia, Bosnia, Erzegovina e Montenegro sono stati conquistati dalla propaganda e dagli investimenti russi, che si sono presentati come alternative concrete all’inconcludenza dell’Unione
Lo scorso 25 agosto, mentre il mondo stava guardando con orrore e sgomento a quello che stava succedendo all’aeroporto di Kabul e la guerra non era nemmeno lontanamente tra le cose che consideravamo probabili, il giornale Foreign Politics pubblicò un articolo dal titolo: “I Balcani non credono più all’Ue”. A quell’epoca, sembra una vita fa, l’articolo, passò relativamente inosservato. Del resto, stavamo tutti guardando, giustamente, a Kabul.
Ma il tempo con quel pezzo è stato gentile e, pochi mesi dopo, lo ha fatto tornare buono. Del resto questi sono tempi complicati. Tempi complicati che, in teoria, non riguardano i Balcani. Ma che in pratica hanno, nella regione tormentata dall’altra parte dell’Adriatico, uno dei loro scenari chiave.
La ragione di questa centralità incidentale della regione è che i Balcani sono, geograficamente parlando, Europa a pieno titolo. Dal punto di vista politico, e anche sociale, invece non lo sono nemmeno un po’. Anzi: sono una regione i cui Governi sono sfilacciati e inefficaci, hanno lacune democratiche (soprattutto in Serbia), questioni territoriali mai risolte (come in Kosovo e in Repubblica Srpska) ed enormi problemi di corruzione e povertà. Queste condizioni di fragilità hanno sempre reso la regione, da dopo la guerra degli anni ’90, ma forse a ben guardare anche da prima, porosa, permeabile. In cerca di una pace, di un buon Governo, di una prosperità che da sola non le è riuscito di darsi e, se fosse possibile, anche di un inquadramento internazionale che, dopo aver rifuggito per tutta la guerra fredda, ora cerca disperatamente.
Questo inquadramento internazionale, in linea teorica, dovrebbe essere all’interno dell’Ue, perché la geografia, in merito, parla chiaro: i Balcani sono Europa. Però per varie ragioni questo non è mai successo. Le fragilità politiche dei Paesi balcanici hanno impedito loro di effettuare le riforme e di raggiungere i requisiti economici e di democrazia minimi richiesti dall’Ue; allo stesso modo, però, l’Ue (specie per mano di Emmanuel Macron) ha nicchiato quando si è trattato di accelerare e, addirittura, ha fermato tutto quando si è trattato di consentire a Paesi come Albania e Macedonia del Nord di entrare in Ue. “Nel 2003 – scrive Foreign Politics – a Salonicco, in Grecia, i leader europei hanno promesso ai paesi dei Balcani occidentali che il loro futuro ultimo risiede nell’Ue. Il linguaggio su una “prospettiva europea” per la regione è entrato in quasi tutti i comunicati pertinenti da allora, a cui i funzionari si sono aggrappati come dimostrazione di serietà e impegno da un blocco che ha tradizionalmente lottato per articolare una politica estera coerente per il suo vicinato più ampio. Ma la volontà politica non ha mai tenuto il passo con la retorica. E il sostegno all’allargamento tra gli elettori è in gran parte crollato in tutto il continente dall’ammissione della Croazia nel 2013, con l’opinione pubblica nei Paesi dell’Europa occidentale particolarmente diffidente nell’ammettere più paesi al momento”.
Questo continuare a procrastinare dell’Ue, questo suo continuo considerare (non senza ragioni) i Paesi balcanici come ‘non all’altezza’ del salotto buono di Bruxelles, ha generato da quelle parti enorme frustrazione e malcontento. Oltre che una sempre meno celata diffidenza verso quell’Ue che, dopo l’ignavia mostrata all’epoca della guerra, per la seconda volta nel giro di due decenni voltava ai Balcani le spalle, lasciandoli, di fatto al loro destino.
Su questo malcontento, o meglio, su questa delusione, ha seminato per anni la Russia di Vladimir Putin. Lo ha fatto in vari modi. Il primo e il più evidente dei quali è stata le propaganda capillare, compiuta sia attraverso i canali Sputnik e Russia Today, diretta emanazione del Cremlino, sia attraverso canali televisivi ‘amici’ e soprattutto attraverso la terra di nessuno dei social, inondati di troll, profili di fake news e complotti di ogni ridda. L’intenzione era quella di dimostrare come Ue e Nato fossero istituzioni pasticcione, inconcludenti, corrotte, tutto il contrario della Russia putiniana che veniva invece ritratta come solida, concreta, efficace.
Il report dell’Europarlamento ‘Mapping Fake News and Disinformation in the Western Balkans and Identifying Ways to Effectively Counter Them‘ scrive: “La disinformazione è una parte endemica e onnipresente della politica in tutti i Balcani occidentali, senza eccezioni. Una mappatura del panorama della disinformazione e della contro-disinformazione nella regione nel periodo dal 2018 al 2020 rivela tre sfide chiave della disinformazione: sfide esterne alla credibilità dell’Ue; disinformazione relativa alla pandemia di Covid-19; e l’impatto della disinformazione su elezioni e referendum”.
Allo stesso modo, un report della Nato collega esplicitamente questa volontà di semina russa nei Balcani con l’avvio della crisi in Crimea: “L’emergere di queste narrazioni in Bosnia ed Erzegovina, Montenegro e Serbia coincide con l’annessione illegale della Crimea nel marzo 2014. Il servizio di notizie Sputnik è stato lanciato in lingua serba, nel febbraio 2015, subito seguito da Russia Beyond. Decine di portali con e senza impronta (cioè una dichiarazione di proprietà e paternità obbligatoria) sono apparsi, generando o distribuendo messaggi simili. Nel corso del tempo, vari media, inclusi i principali organi di stampa nei paesi colpiti, hanno iniziato a utilizzare i contenuti di disinformazione stranieri su larga scala. Ciò è stato possibile grazie a un panorama mediatico caratterizzato da tabloidizzazione, logica clickbait, scarsi standard etici, scarso giornalismo investigativo e analisi delle notizie e influenze politiche”.
Ma anche se la propaganda fa molto, non fa tutto. La propaganda si fa amiche le persone, ma non i Governi. Per farsi amici i Governi servono gli investimenti. E anche quelli sono puntualmente arrivati, copiosi. In particolare nel mondo del gas. “Nel 2008 – scrive un report di Carnegie – la russa Gazprom Neft, una sussidiaria di Gazprom, ha acquisito una partecipazione di controllo nella compagnia petrolifera e del gas serba Naftna Industrija Srbije (NIS), un affare del valore di oltre $ 450 milioni e si è impegnata a investire almeno $ 600 milioni in più nell’azienda. Attraverso il suo investimento in NIS, Gazprom Neft ha acquisito beni in altre parti della regione, comprese imprese sussidiarie – stazioni di servizio, impianti di stoccaggio, diritti di perforazione ed esplorazione e uffici di rappresentanza – in Bosnia, Bulgaria, Croazia, Ungheria e Romania. Queste strutture offrono alle entità commerciali russe una presenza visibile in tutta la regione più ampia e creano affinità nelle comunità provinciali in cui le entità russe possiedono, direttamente o indirettamente, partecipazioni in importanti datori di lavoro locali”.
Un altro report, di Center for Strategic and International Studies, scrive “L’investimento economico della Russia nella regione si è concentrato su settori strategici come l’energia e ha capitalizzato i sistemi di clientelismo e corruzione dei partiti. Negli ultimi anni, la Russia ha anche rafforzato i suoi legami militari con la Serbia, vendendole armi, aerei e sistemi di difesa aerea. Ciò ha spianato la strada all’influenza russa per permeare fortemente in Serbia, Bosnia e Montenegro, dove segmenti significativi del sistema politico sono fermamente filo-russi”.
Così, ora che le menti delle persone sono state adeguatamente imbibite di propaganda filo-russa e che i Governi sono stati adeguatamente legati a Mosca, per Putin è arrivato il tempo di mietere quel che ha seminato negli anni con tanta meticolosità. I frutti sono le strade di Belgrado e Banja Luka piene di manifestazioni di estremisti di destra che inneggiano a Putin; sono il capo della Repubblica Srpska (la parte serba della Bosnia Herzegovina) che fa pressioni sull’ambasciatore bosniaco alle Nazioni Unite affinchè non voti contro la Russia; sono la Serbia che non si unisce alle sanzioni; sono Belgrado che presta orecchio a chi sussurra che, in fondo, la storia del Kosovo non è poi tanto differente da quella del Donbas.
Ma la messe più importante è quella che riguarda l’Europa. Un’Europa che, solo oggi, si accorge che il vuoto da lei lasciato nei Balcani è stato colmato da qualcun altro. Un’Europa che si accorge solo ora, che i Balcani, non sono dall’altra parte del mondo, ma al centro del suo continente. Esattamente dove li avevamo lasciati negli anni ’90.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Lo scorso 25 agosto, mentre il mondo stava guardando con orrore e sgomento a quello che stava succedendo all’aeroporto di Kabul e la guerra non era nemmeno lontanamente tra le cose che consideravamo probabili, il giornale Foreign Politics pubblicò un articolo dal titolo: “I Balcani non credono più all’Ue”. A quell’epoca, sembra una vita fa, l’articolo, passò relativamente inosservato. Del resto, stavamo tutti guardando, giustamente, a Kabul.
Ma il tempo con quel pezzo è stato gentile e, pochi mesi dopo, lo ha fatto tornare buono. Del resto questi sono tempi complicati. Tempi complicati che, in teoria, non riguardano i Balcani. Ma che in pratica hanno, nella regione tormentata dall’altra parte dell’Adriatico, uno dei loro scenari chiave.