Il vertice di Los Angeles è dedicato alla costruzione di un futuro “sostenibile, resiliente ed equo”. Ma difficilmente si rivelerà quello che Biden avrebbe voluto. Tra gli assenti il Presidente del Messico
Per protestare contro la decisione degli Stati Uniti di non invitare i rappresentanti dei regimi di Cuba, Nicaragua e Venezuela al summit delle Americhe, un vertice che dovrebbe riunire tutti i Paesi del continente, il Presidente del Messico ha scelto di non partecipare. Non è l’unico assente, in realtà, ma di sicuro è quello che si nota di più. Ed è quello più pesante da digerire per l’amministrazione di Joe Biden, che ha bisogno di garantirsi (e di mostrare al mondo) l’unità del Nordamerica, una regione fondamentale nella competizione industriale con la Cina.
Biden cerca la Cina, anche in America
Il summit delle Americhe di Los Angeles si concluderà oggi – è il nono in tutto e il primo ospitato in terra statunitense dal 1994 – ed è dedicato alla costruzione di un futuro “sostenibile, resiliente ed equo”. Mettendo da parte il linguaggio diplomatichese, nel concreto il vertice vorrebbe essere per Biden l’occasione per convincere l’emisfero occidentale che, nonostante il focus strategico sull’Asia-Pacifico, Washington non ha dimenticato la regione a cui appartiene. E che è pronta a impegnarsi, anche economicamente, per il suo sviluppo: l’engagement è utile peraltro al contenimento di Pechino, che in America latina ha investito molto ed è un socio commerciale più rilevante degli Stati Uniti per praticamente tutta l’area (con la sostanziosa eccezione del Messico).
Nonostante la penetrazione cinese, comunque, il subcontinente rimane dentro l’orbita statunitense: la Repubblica popolare non sta realizzando – né è detto che possa farlo – un progetto politico in opposizione a quello di Washington; e quei Paesi che hanno provato a modificare lo status quo, come Cuba e Venezuela, oggi possono fare poco.
I limiti della partnership per la prosperità economica
Il Summit delle Americhe, tuttavia, difficilmente si rivelerà quello che Biden avrebbe voluto, e altrettanto difficilmente produrrà risultati di rilievo. Il Presidente, comunque, ha presentato mercoledì una nuova partnership economica tra gli Stati Uniti e l’America latina con l’obiettivo di “creare catene di fornitura più resilienti, più sicure e più sostenibili”. L’annuncio si inserisce nei piani della Casa Bianca per il riposizionamento delle filiere critiche nelle immediate vicinanze degli Stati Uniti (nearshoring), in modo da ridurre la dipendenza dall’Asia e i rischi di approvvigionamento. La Americas Partnership for Economic Prosperity – questo il nome ufficiale dell’iniziativa – non è però un progetto ben definito, ma un piano ancora in fase di elaborazione. E, soprattutto, non è un accordo commerciale tradizionale e non prevede riduzioni o eliminazioni dei dazi: come già visto con il Trade and Technology Council con l’Unione europea e con l’IPEF con l’Indo-Pacifico, gli Stati Uniti non sono più interessati ai patti di libero scambio; ricercano piuttosto dei framework, delle cornici che stabiliscano standard di riferimento per eventuali accordi limitati da stipulare in futuro.
Nel continente, gli Stati Uniti possiedono accordi di libero scambio con Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panama, Perù e Repubblica dominicana. Ad eccezione di quello con i vicini nordamericani (il NAFTA, recentemente aggiornato in USMCA), tutti gli altri sono patti vecchi, che probabilmente faranno fatica a entrare dentro un framework pensato per la realtà contemporanea. Washington aveva l’opportunità di modernizzare le regole commerciali con Cile e Perù attraverso il Partenariato Trans-Pacifico (TPP), ma l’accordo venne abbandonato nel 2017 da Donald Trump e Biden non ha intenzione di rientrarvi.
Provare a gestire le migrazioni
Al di là del commercio, l’altro tema principale di questo Summit delle Americhe – nonché quello politicamente più scottante per Biden, considerate le elezioni di novembre – è la migrazione. Nel mese di aprile le autorità che sorvegliano la frontiera statunitense hanno fermato 234.088 migranti irregolari: è una cifra più alta anche di quella di marzo (oltre 220mila, il valore mensile più alto da vent’anni), e si prevede che i numeri di maggio saranno simili. I migranti arrivano principalmente dal Messico, dal Triangolo del nord dell’America centrale (Guatemala, Honduras, El Salvador) e da Cuba; in questi giorni c’è una carovana formata da tanti venezuelani in cammino nel Messico meridionale, diretta verso nord.
Biden ha promesso un approccio ai flussi migratori più ordinato e umano di quello di Trump, ma il sistema che gestisce le richieste di asilo e gli ingressi irregolari è saturo e incapace di gestire volumi tanto grandi. Per contenere i flussi in entrata, Washington ha assoluto bisogno della collaborazione di Città del Messico, che svolge un ruolo sia di repressione sia di accoglienza degli espulsi. L’amministrazione del Presidente Andrés Manuel López Obrador vorrebbe però fare le cose diversamente, e chiede a Biden di investire in un piano di sviluppo per il Messico meridionale e l’America centrale che permetta di risolvere le cause alla base delle partenze (povertà e insicurezza, innanzitutto). Anche se López Obrador non è andato a Los Angeles, principalmente per protestare contro la linea statunitense verso Cuba, non si è verificato alcuno strappo con Biden: i due, anzi, si riuniranno a luglio alla Casa Bianca.
Oggi Biden dovrebbe annunciare un patto regionale sulle migrazioni. Martedì la vicepresidente Kamala Harris aveva presentato nuovi investimenti privati da 1,9 miliardi di dollari nel Triangolo del nord, che si sommano agli 1,2 miliardi già promessi a dicembre: Visa, ad esempio, metterà 270 milioni per favorire l’ingresso di quelle popolazioni nel circuito bancario formale, mentre Gap spenderà 150 milioni per aumentare i rifornimenti di materie prime centroamericane per i suoi capi d’abbigliamento. Ci sono due problemi, però: il primo è che le aziende private hanno difficoltà a fare affari in Centroamerica per via dell’elevata corruzione; il secondo è che i governi locali sono poco collaborativi, anche perché le rimesse degli espatriati sono fondamentali per le loro economie. I Presidenti di Guatemala, Honduras ed El Salvador, inoltre, non hanno partecipato al Summit delle Americhe.
Per protestare contro la decisione degli Stati Uniti di non invitare i rappresentanti dei regimi di Cuba, Nicaragua e Venezuela al summit delle Americhe, un vertice che dovrebbe riunire tutti i Paesi del continente, il Presidente del Messico ha scelto di non partecipare. Non è l’unico assente, in realtà, ma di sicuro è quello che si nota di più. Ed è quello più pesante da digerire per l’amministrazione di Joe Biden, che ha bisogno di garantirsi (e di mostrare al mondo) l’unità del Nordamerica, una regione fondamentale nella competizione industriale con la Cina.
Il summit delle Americhe di Los Angeles si concluderà oggi – è il nono in tutto e il primo ospitato in terra statunitense dal 1994 – ed è dedicato alla costruzione di un futuro “sostenibile, resiliente ed equo”. Mettendo da parte il linguaggio diplomatichese, nel concreto il vertice vorrebbe essere per Biden l’occasione per convincere l’emisfero occidentale che, nonostante il focus strategico sull’Asia-Pacifico, Washington non ha dimenticato la regione a cui appartiene. E che è pronta a impegnarsi, anche economicamente, per il suo sviluppo: l’engagement è utile peraltro al contenimento di Pechino, che in America latina ha investito molto ed è un socio commerciale più rilevante degli Stati Uniti per praticamente tutta l’area (con la sostanziosa eccezione del Messico).