La protezione della foresta pluviale e del suo prezioso ecosistema è al centro della politica internazionale del nuovo governo brasiliano, che punta a rafforzare il proprio peso nella governance globale e ritornare in primo piano nel multilateralismo
Luiz Inácio Lula da Silva, tornato alla presidenza del Brasile dopo 11 anni intensissimi, che lo hanno visto passare dal carcere di Curutuba ai bagni di folla della sua San Paolo alle elezioni di ottobre, sa che il pilastro della nuova politica estera del paese si trova in Amazzonia. Un territorio che copre 2/3 del Sudamerica, con la rete fluviale più estesa del mondo, che rappresenta il 15% dell’acqua dolce non congelata disponibile sul pianeta, il 35% dei boschi primari, e la metà della flora e fauna globali. Un ecosistema complesso e delicato, in cui vivono circa 390 popoli indigeni, la cui cultura e lingua rappresentano un patrimonio intangibile per tutta l’umanità, e che oggi è al centro dell’attenzione mondiale.
La riduzione della superficie della foresta pluviale per dare spazio a coltivazioni e pascoli, e i traffici illegali connessi alla distruzione della flora e della fauna, sono fonte di preoccupazione internazionale, oltre che segno di debolezza istituzionale del Paese, e Lula lo sa. Un’azione decisa in quest’ambito segnerebbe un cambio di pagina radicale rispetto al suo predecessore, Jair Bolsonaro (2019-2023), che ha portato il Brasile all’isolamento internazionale proprio per le scelte prese in questo campo. Nei 4 anni del suo governo sono andati distrutti 45.783 kmq di selva tropicale, equivalenti a paesi come Estonia o Danimarca, un incremento del 60% rispetto ai 4 anni precedenti.
L’ex presidente ha abbracciato la posizione della destra brasiliana e dei produttori legati all’agrobusiness, secondo cui le leggi di protezione ambientale sono uno scoglio allo sviluppo economico, e qualunque critica internazionale alla gestione delle risorse brasiliane un’intromissione nelle decisioni sovrane del Paese. In effetti, parte del disboscamento è legata a piani di sviluppo territoriale del governo, come la pavimentazione delle strade e autostrade che collegano la città di Manaos, agglomerato da 2,2 mln di abitanti nel cuore dell’Amazzonia, alle principali città brasiliane. Il governo Bolsonaro ha eroso le capacità operative degli organismi statali creati per affrontare il fenomeno della deforestazione, salvaguardare la flora e la fauna, e garantire i diritti di cittadinanza delle popolazioni indigene. I rapporti ufficiali parlano di incendi intenzionali, deforestazione in parchi nazionali, estrazione mineraria abusiva in aree protette.
Le conseguenze sull’ambiente sono gravi, non solo per il Brasile, eliminando una delle poche difese naturali che la Terra ha contro il cambiamento climatico. La distruzione dei biomi amazzonici spiega il 55% delle emissioni totali di CO2 registrate nel 2021, le più alte da 20 anni. Secondo i modelli di predizione più accettati finora, il punto di non ritorno, poi il polmone verde del pianeta non sarà più riparabile, è la perdita del 25% del totale della superficie amazzonica originale. Oggi siamo al 18%, altra ragione per la quale la protezione della foresta pluviale è entrata a far parte delle agende multilaterali. Gli effetti immediati della deforestazione sono più visibili in Brasile, specialmente nel sud-est, dove le temperature della stagione secca negli ultimi 4 decenni sono aumentate in media di 2,5 gradi. Ed è quel che si prevede possa succedere su scala globale.
Il governo del Partito dei Lavoratori (PT) di Lula si è presentato come ultima speranza per dare il via a un percorso di cooperazione internazionale per mitigare i danni al sistema amazzonico. Il Green New Deal alla brasiliana prevede l’estensione delle zone protette, il rafforzamento delle agenzie di controllo e la creazione di nuove istituzioni dedicate all’Amazzonia, come il Ministero per gli Affari Indigeni, sovvenzioni all’agricoltura famigliare e sostenibile, incentivi alle aziende per applicare nuovi standard di produzione. Lula può già vantare ottimi risultati nella lotta al disboscamento. Si calcola che nei suoi 8 anni di governo la distruzione della foresta pluviale si sia ridotta del 70%. Eppure, i governi del PT non sono rimasti sordi di fronte agli interessi dell’agrobusiness. Tra il 2002 e il 2010 gli introiti del settore agricolo sono raddoppiati, e i prestiti per la produzione di carne bovina si sono moltiplicati, favorendo la lenta espansione delle praterie da pascolo a discapito delle aree naturali. Ma se Bolsonaro aveva addirittura posto diversi imprenditori agricoli a capo delle istituzioni che dovevano salvaguardare l’Amazzonia, Lula dovrà mostrare una svolta in quest’ambito, e raggiungere rapidamente gli obiettivi che si è prefissato.
Obiettivi per i quali il Brasile ha bisogno di ingenti fondi, che in mezzo alle ristrettezze economiche e la recessione sono difficili da trovare. É su questo aspetto che la nuova squadra presidenziale si è particolarmente prodigata dopo il trionfo di Lula a ottobre. In primo luogo, ottenendo dalla Corte Suprema la riapertura del Fondo Amazzonico, creato proprio durante il primo governo Lula, nel 2008, per ricevere donazioni internazionali che assicurassero le risorse di base per l’azione ambientale nella regione. La chiusura del Fondo e il congelamento del mezzo miliardo di dollari che vi rimaneva è stata una delle prime azioni di governo di Jair Bolsonaro nel 2019. Germania e Norvegia (paese che ha stanziato il 94% del denaro depositato nel Fondo Amazzonico) hanno già annunciato la loro intenzione di ripristinare l’invio di contributi. Durante il summit della Cop27 in Egitto, l’ex ministra per l’Ambiente e principale riferimento della politica ambientale del governo Lula, Marina Silva, ha esteso l’invito anche ai governi di Francia, Svizzera, Canada, Usa e Uk. Quello di Sharm el-Sheik è stato infatti il primo importante appuntamento nella costruzione della politica estera del Brasile. Lula si è presentato come un nuovo leader nella lotta contro il cambio climatico, disposto ad assumere il protagonismo della discussione globale sulla cooperazione ambientale. Frutto di questa scelta è l’impegno a ospitare la Conferenza delle Parti sul Clima dell’Onu in Amazzonia nel 2025.
Un’agenda che è vista di buon occhio da parte delle principali potenze globali e che potrebbe avvicinare l’amministrazione Lula ai leader della politica e dell’economia anche su altri dossier. Washington appare disposta a cogliere l’opportunità, già a novembre l’amministrazione Biden stava studiando la possibilità di applicare il Magnitsky Act sulle sanzioni a individui contro i responsabili della distruzione della regione Amazzonica in Sudamerica. Se per la sinistra tradizionale latinoamericana (e per Bolsonaro) una simile possibilità era vista un’intollerabile intromissione Usa negli affari domestici, oggi il governo Lula la prende come un’opportunità di collaborazione internazionale per ripristinare il ruolo del Brasile nel mondo. “Siamo più isolati di Cuba, che vive un embargo durissimo da 60 anni” ha ripetuto in campagna elettorale l’attuale Presidente, che durante i suoi governi ha portato il Brasile a un ruolo di primo piano nel G20, nei Brics, e su scala regionale con la creazione dell’Unione Sudamericana delle Nazioni (Unasur) e la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (Celac), a cui il Brasile ha smesso di partecipare attivamente dal 2019.
Proprio l’aspetto sudamericano è uno dei più rilevanti nella questione amazzonica. Il bacino forestale comprende anche paesi come il Venezuela, con cui Brasilia ha già riallacciato relazioni diplomatiche, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Suriname e Guiana. La cooperazione internazionale tra questi paesi è scarsa e spesso legata a impegni bilaterali, e il Brasile, da leader globale sulla questione climatica, si appresta a raccogliere anche la sfida continentale.
Si noti inoltre che il Brasile confina con la Francia proprio nella zona amazzonica: la Guayana Francese è uno dei Dipartimenti d’Oltremare controllati dal governo di Parigi, con cui Lula ha stabilito buone relazioni fin dalla campagna elettorale. Macron lo ha ricevuto infatti con gli onori di un presidente ancor prima di essere eletto. L’entourage di Lula porta avanti poi un dialogo stretto coi governi di Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, gli altri due paesi con la maggior superficie di foresta tropicale al mondo. Un dossier, quello della “cooperazione sud-sud”, che è stato uno dei capisaldi della politica estera brasiliana durante i governi del PT. Certo, i risultati non arriveranno subito. In parte perché il sistema statale dedicato alla conservazione dell’Amazzonia è duramente provato dalle misure adottate negli ultimi anni. Sostituire i funzionari senza ricorrere ai diktat dell’amministrazione precedente non sarà facile. E poi perché i primi dati concreti sullo stato della foresta pluviale si conosceranno a luglio, e includeranno anche gli ultimi sei mesi dell’amministrazione Bolsonaro, che sconfitto alle urne, ha lasciato carta bianca ai suoi sottoposti per ampliare il più possibile la cosiddetta “frontiera agricola” prima dell’avvicendamento presidenziale.
La questione Amazzonia resta comunque la direttrice della proiezione geopolitica del Brasile di Lula nei prossimi mesi. Un elemento attraverso il quale ripristinare il posto del gigante sudamericano nelle istituzioni della governance globale, e poterne anche influenzare le decisioni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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