L’ascesa dell’AI in Cina è particolarmente controversa: la tecnologia va considerata uno strumento per migliorare la qualità della vita delle persone o un’arma in mano a un regime illiberale ossessionato dalla stabilità sociale?Nemmeno quattro mesi dopo la nascita di ChatGPT, la Cina ha inaugurato il suo primo chatbot: Ernie, sviluppato dal principale motore di ricerca cinese Baidu. Sebbene ancora solo in fase di test e accessibile su invito, esattamente come la versione americana, anche il chatbot cinese fa utilizzo dell’intelligenza artificiale (IA) per simulare risposte e conversazioni “intelligenti” con gli utenti. Genera immagini con suggerimenti di testo, compone poesie e produce audio nei vari dialetti cinesi.
Baidu non è l’unica azienda cinese ad aver fiutato l’affare: anche Alibaba, Meituan, SenseTime, e iFlyTek, hanno sviluppato software analoghi. Tutti pazzi per l’IA. Presentando Ernie, il Ceo di Baidu Robin Li ha ammesso che, nonostante la tecnologia fosse ancora immatura, il lancio del chatbot rispondeva alla necessità di giocare di anticipo sui competitor: “ È il mercato che lo chiede”, ha detto senza giri di parole. A dire il vero, non è solo il mercato a chiederlo. Come per altri settori, anche nel caso dell’IA, l’interesse della comunità imprenditoriale ha ricevuto una poderosa spinta dall’alto: politiche nazionali e generosi investimenti statali da anni puntano a rendere la Cina leader mondiale nella tecnologia. È quindi il governo a chiederlo, spesso anche più del mercato.
Tutto è cominciato nel 2017, quando il governo Xi Jinping ha lanciato il “Piano per lo sviluppo della nuova generazione di intelligenza artificiale” con l’obiettivo di trasformare il paese asiatico nel principale centro di innovazione dell’IA entro il 2030.
La corsa alla leadership globale
Secondo la roadmap, la Cina avrebbe dovuto investire 150 miliardi di yuan (circa 22,5 miliardi di dollari) nell’IA entro il 2020 per poi raggiungere un valore di mercato di mille miliardi di yuan (circa 150 miliardi di dollari) nel decennio successivo. La data non casuale. Proprio nel 2017, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca segna l’inizio della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, delle tariffe incrociate, della competizione tecnologica. Insomma, di tutto quello che ha posto le basi per la cosiddetta “nuova guerra fredda” tra le due superpotenze.
Va detto che le ritorsioni americane sono il catalizzatore, non l’innesco, della corsa cinese all’IA. Pechino sembrava avere le idee chiare già da tempo. Esattamente dal maggio 2015, quando il Consiglio di Stato cinese include l’IA tra i dieci settori compresi nel Made in China 2025, piano lanciato con l’obiettivo di assicurare al gigante asiatico l’autosufficienza nelle tecnologie più avanzate, tra cui il 5G, i semiconduttori, i veicoli elettrici e le biotecnologie. Uno sforzo che, come esplicitato nel tredicesimo e quattordicesimo piano quinquennale, doveva aiutare la Cina ad abbandonare il modello “fabbrica del mondo”, basato sulla produzione di beni a basso costo. Finita l’era della manodopera a prezzi stracciati, con la nuova strategia Pechino mirava a migliorare la capacità produttiva del Paese puntando sulle industrie ad elevata capacità tecnologica. Quelle in cui da decenni gli Stati Uniti detengono un primato quasi incontrastato.
Il bello del “capitalismo di Stato” è che permette di mobilitare risorse in tempi rapidissimi, il brutto è che rasenta la concorrenza sleale. Così, intorno al 2018, il Made in China 2025 sparisce dai comunicati ufficiali in risposta alle critiche di Unione europea e Stati Uniti. Ma il suo spirito continua a vivere sotto altre forme. Con l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca – e il passaggio da trade war a tech war – IA e semiconduttori diventano il nuovo vero terreno di scontro per la leadership globale. Uno scontro che ora Washington teme di perdere.
La Cina è uno dei principali attori globali nello sviluppo di sistemi informatici intelligenti; vanta numerose imprese e istituti di ricerca impegnati nella creazione di tecnologie avanzate. Nel 2021, il gigante asiatico ha realizzato il numero maggiore di pubblicazioni sull’IA, pari al 27,6%, del totale contro il 16,9% prodotto dagli Stati Uniti. Secondo un rapporto pubblicato dalla società di analisi CB Insights, le principali start-up dell’IA in Cina includono – oltre alle big tech Tencent, Baidu, Alibaba, e Huawei – nomi meno noti come iFlyTek, SenseTime e Horizon Robotics. Sono proprio queste aziende private, ma foraggiate da sussidi statali, ad aver investito di più nella ricerca e nello sviluppo dell’IA mettendo la tecnologia al servizio dell’economia reale.
L’IA tra applicazioni virtuose e non
Applicazioni pratiche dei sistemi informativi intelligenti le ritroviamo nella robotica, nella guida autonoma nonché nel riconoscimento vocale e facciale impiegato tanto negli smartphone di Huawei quanto nel sistema di videosorveglianza che Hikvision ha installato nelle principali città cinesi. Sempre più diffuso è anche l’impiego dell’IA nella medicina, in particolare nella diagnosi e nel trattamento di malattie come il cancro, l’Alzheimer e la depressione, mentre nel settore finanziario le banche cinesi utilizzano sistemi informatici intelligenti per la gestione dei rischi e il rilevamento delle frodi. Negli ultimi anni, è stato sottolineato anche il peso che l’IA avrà all’interno del sistema giudiziario, nel lavoro delle corti, nelle procedure e nella raccolta delle prove.
Ma come altrove, anche in Cina la tecnologia non ha solo funzioni virtuose. Il settore militare – in cui il governo cinese sta investendo massicciamente anche fuori dal bilancio ufficiale cooptando proprio il comparto civile – si presta particolarmente alla sperimentazione tecnologica con l’obiettivo di migliorare le capacità difensive (e offensive) del Paese. Applicazioni dell’IA nel settore militare cinese le ritroviamo nel campo della sorveglianza, della comunicazione e dell’elaborazione dei dati. Oppure nell’analisi e nell’interpretazione dei dati raccolti dai satelliti militari e dai droni per identificare potenziali minacce e migliorare la precisione dei sistemi di arma. Persino nella formazione del personale e nella simulazione, l’impiego della tecnologia può servire a migliorare le capacità di addestramento dei soldati e a meglio valutare le tattiche militari. La Cina sta anche sviluppando robot e veicoli a guida autonoma, con l’obiettivo di aumentare l’efficienza e la sicurezza delle operazioni in contesti di guerra.
Ma cosa succede se l’IA finisce nella fabbricazione di armi autonome capaci di causare danni irreparabili in caso di errore o di uso improprio? Sono domande che circolano spesso anche alle nostre latitudini. Ma in Cina, dove il partito unico esercita un controllo strettissimo sulla popolazione, l’ascesa dell’IA è particolarmente controversa: la tecnologia va considerata uno strumento per incrementare la qualità della vita delle persone o un’arma in mano a un regime illiberale ossessionato dalla stabilità sociale?
Un istituto di Hefei, nella provincia cinese dello Anhui, ha affermato di aver sviluppato un software in grado, grazie all’IA, di misurare la lealtà dei membri del partito. Alcuni esperti sostengono che il governo cinese utilizzi i sistemi informatici intelligenti per monitorare la popolazione, non solo in funzione anti-crimine. Un esempio è l’uso discriminatorio del riconoscimento facciale per sorvegliare le minoranze etniche di fede islamica che popolano la regione occidentale dello Xinjiang, a prescindere dalla veridicità dei legami al jihadismo internazionale. Nel 2017 la megalopoli di Shenzhen ha installato la tecnica biometrica a un incrocio molto trafficato che, monitorando gli attraversamenti pedonali 24h, ripropone immediatamente la foto del contravventore in uno schermo elettronico esponendo l’incauto pedone al pubblico giudizio degli astanti. L’anno successivo ha fatto molto discutere la decisione della scuola media n. 11 di Hangzhou di installare uno smart classroom behavior management system in grado di leggere espressioni e movimenti facciali dei ragazzi per studiare i loro livelli di attenzione e identificare sentimenti come felicità, rabbia, repulsione, paura e confusione. Il piano è stato sospeso prima di vedere la luce in risposta all’ondata di polemiche che ha travolto il web.
Una strada lastricata di ostacoli
La strada che conduce alla leadership tecnologica è lastricata di ostacoli. La Cina dovrà affrontare problematiche relative alla carenza di talenti, alle sanzioni americane, alle possibili restrizioni europee, nonché al controllo stringente del governo cinese sulle aziende private, vero motore dell’innovazione made in China. Secondo un libro bianco pubblicato congiuntamente dal think tank governativo China Center for Information Industry Development e dalla China Semiconductor Industry Association (CSIA), solo quest’anno la Repubblica popolare si troverà a fronteggiare una carenza di circa 200.000 lavoratori nel settore dei chip, indispensabili per sostenere la produzione e lo sviluppo dell’industria tecnologica e dell’IA nel paese.
E se da una parte la centralizzazione delle risorse nelle mani delle autorità permette di accelerare lo sviluppo del settore, dall’altra la pioggia di sussidi statali contribuisce ad alimentare la corruzione, fenomeno a cui Xi Jinping ha dichiarato guerra fin dall’alba del suo primo mandato presidenziale. Ci sono già dei precedenti: al collasso di Tsinghua Unigroup, la maggiore società di chip cinese, controllata dallo Stato, è seguita una campagna di arresti tra i dirigenti del National Integrated Circuit Industry Investment Fund, fondo governativo per lo sviluppo dei circuiti integrati. Commentando l’euforia generata da ChatGPT, ad aprile l’Economic Daily, testata fondata dal Consiglio di Stato cinese, ha messo in guardia dal rischio di una nuova bolla speculativa: il motivo è che, nonostante “un’ampia base di utenti, non esiste un’applicazione commerciale matura” della tecnologia, spiega l’articolo che cita tra i possibili problemi sociali anche la diffusione di fake news. Termine che il China Daily, il principale quotidiano cinese in lingua inglese, associa senza mezzi termini alla “disinformazione statunitense”. Secondo l’ente per la regolamentazione di internet, nella Cina “rossa” di Xi, anche i chatbot devono “riflettere i valori socialisti”.
La censura, un’arma a doppio taglio
Sono preoccupazioni che in realtà precedono la nascita di ChatGPT. Nel 2022 è entrata in vigore una legge che impegna le piattaforme a promuovere “algoritmi per il bene”, e in questa breve formula è contenuto anche l’implicito ordine di non sfruttare queste tecnologie per aggirare le normative del partito. Come fanno notare su Agenda Digitale, Riccardo Berti e Franco Zumerle, “che la censura cinese sia un ostacolo e una sfida verso la realizzazione di una IA efficace appare indubbio e non si può certo dubitare del fatto che sia mancato ad Ernie l’’effetto wow’ anche perché gli sviluppatori hanno dovuto dedicare molto tempo (e risorse) a rimodulare il loro modello di intelligenza artificiale per non fargli dire cose sgradite al partito”. La censura – avvertono gli esperti – rischia di limitare eccessivamente la circolazione delle informazioni necessarie ad addestrare gli algoritmi compromettendo così il prodotto finale.
La competizione con gli Usa e le barriere europee
Nonostante i successi della Cina nell’IA, ci sono dunque alcune sfide che il Paese deve affrontare. E non sono solo sfide interne. Pensiamo alla concorrenza globale: altri Paesi, come gli Stati Uniti, il Giappone e la Corea del Sud, stanno investendo generosamente nella ricerca e nello sviluppo della tecnologia. Contestualmente, l’introduzione in Occidente di politiche restrittive – per certi versi persino protezionistiche – potrebbe frenare drasticamente lo sviluppo del settore in Cina.
A ottobre 2022 l’amministrazione Biden ha annunciato misure che impediscono ai principali produttori americani di chip per l’IA, come Nvidia e AMD, (ma anche le aziende straniere che si avvalgono di componentistica statunitense) di vendere al gigante asiatico i loro circuiti integrati di fascia alta per l’IA e il supercalcolo. Secondo New Street Research, Nvidia controlla il 95% delle GPU utilizzate nel machine learning a livello mondiale. Sebbene generalmente più cauta, anche l’Europa sta pianificando disposizioni che incrementeranno il controllo delle autorità comunitarie più di quanto sia già previsto dalle restrizioni sull’export di tecnologia critica introdotte nel 2021. A inizio aprile la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha ribadito la necessità di migliorare la regolamentazione degli investimenti europei all’estero là dove esiste “il rischio di fuga di tecnologie sensibili che potrebbero essere utilizzate per scopi militari.” Indovinate un po’ a quale paese si riferiva?
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
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Baidu non è l’unica azienda cinese ad aver fiutato l’affare: anche Alibaba, Meituan, SenseTime, e iFlyTek, hanno sviluppato software analoghi. Tutti pazzi per l’IA. Presentando Ernie, il Ceo di Baidu Robin Li ha ammesso che, nonostante la tecnologia fosse ancora immatura, il lancio del chatbot rispondeva alla necessità di giocare di anticipo sui competitor: “ È il mercato che lo chiede”, ha detto senza giri di parole. A dire il vero, non è solo il mercato a chiederlo. Come per altri settori, anche nel caso dell’IA, l’interesse della comunità imprenditoriale ha ricevuto una poderosa spinta dall’alto: politiche nazionali e generosi investimenti statali da anni puntano a rendere la Cina leader mondiale nella tecnologia. È quindi il governo a chiederlo, spesso anche più del mercato.