In Cisgiordania, per la prima volta da vent’anni, nei giorni scorsi una operazione di terra di Israele per oltre 40 ore ha battagliato con i miliziani palestinesi, ben armati, nel campo rifugiati di Jenim.
La Cisgiordania come Gaza. Se nella Striscia l’esercito israeliano, l’Israeli Defence Force (IDF), ha fino ad ora risposto alla mole di razzi lanciati verso il sud del paese, con l’aviazione e attacchi mirati a leader e infrastrutture dei gruppi che la controllano, in Cisgiordania, per la prima volta da vent’anni, nei giorni scorsi una operazione di terra per oltre 40 ore ha battagliato con i miliziani a Jenin.
Da diverso tempo, sono quasi quotidiani i raid dell’esercito israeliano nelle città cisgiordane, in particolare Jenin e Nablus, alla ricerca di terroristi e fiancheggiatori. Da qui partirebbero gli attentati contro Israele. In queste città, nei loro campi profughi, nei vicoli dei centri storici, si annidano quelli che Israele riconosce come propri nemici. Militanti di gruppi che abbiamo imparato conoscere da tempo: da Hamas, un po’ più defilata, al Jihad Islamico Palestinese (Pij) e al suo famigerato Saraya al Quds e al Battaglione Jenin; dalle Brigate Balata alla Brigata Nablus, dalla Brigata Yabad all’ultima temuta, la Fossa dei Leoni. Un panorama del terrore che il governo Netanyahu è deciso ad annientare a tutti costi. Importa poco se anche minorenni sono ad imbracciare i fucili per difendere le loro case, se i proiettili e colpi sparati durante le battaglie uccidono civili di ogni età e sesso. È guerra totale, ed è dimostrato sia dall’uso dell’aviazione, come nelle due ultime operazioni a Jenin, sia nei mille soldati che nell’ultima operazione hanno messo a ferro e fuoco il campo profughi di Jenin.
Operazioni che da un lato mostrano l’interesse israeliano a chiudere il capitolo, dall’altro però l’accresciuta potenza militare dei gruppi palestinesi che, secondo gli analisti, sono foraggiati e istruiti dall’Iran. I militari israeliani hanno ammesso di essersi trovati in difficoltà più volte in queste operazioni. La forte pioggia di fuoco che li ha interessati, li ha bloccati per lungo tempo. Non solo: sono stati esplosi ordigni al passaggio dei veicoli; uno di oltre 40 kg a giugno durante un raid dell’esercito, ha reso necessaria l’evacuazione dei militari con l’elicottero da guerra.
Alle armi “Carlo”, le pistole mitragliatrici artigianali autocostruite in molti luoghi della Cisgiordania, ampiamente diffuse, si sono aggiunti i fucili d’assalto M-4, M-16, CAR-15. Non sono pochi quelli che possiedono pistole, come M18 e P-320. Armi che arrivano dall’Iran attraverso Siria, Libano e, soprattutto Giordania, portate smontate per poi essere assemblate nei piccoli negozi delle cittadine palestinesi e stipate in particolare nei sottoscala e depositi sotterranei del centro delle città di Nablus e Jenin.
Non solo armi leggere. Il Pij, in particolare, ha un buon arsenale di armi pesanti, dispiegato principalmente a Gaza, ma con alcune basi in Cisgiordania. In alcune operazioni recenti seguite allo scontro armato su Gaza del mese scorso, militari israeliani hanno distrutto una base per la fabbricazione e il lancio di razzi non più da Gaza, ma dal cuore della Samaria verso le città israeliane. Due i razzi lanciati da queste zone contro Israele nelle scorse settimane sono caduti in territorio palestinese. Secondo un rapporto del 2022 della Foundation for Defense of Democracies, Il Pij nella Striscia possedeva fino a 8.000 razzi, con portate diverse fino a 120 km e sistemi di difesa aerea portatili oltre ad alcuni droni. Gli iraniani sono i loro maggiori fornitori e addestratori all’uso. Non a caso, durante gli scontri di lunedì, i vertici di Hamas e Pij erano a Teheran.
Ma l’arma più potente è sicuramente la propaganda. Foto dei “martiri” campeggiano nelle città e questi gruppi hanno oramai il controllo delle università palestinesi, usciti vincitori dalle elezioni studentesche. I giovani vedono in loro gli unici interessati alla loro causa, vista l’assenza del governo palestinese. Non a caso quando l’esercito ha lasciato Jenin dopo quasi due giorni di battaglia, i palestinesi hanno attaccato l’ufficio locale delle forze di sicurezza, considerate colluse con l’occupante, così come il governo di Ramallah, i cui rappresentanti locali sono stati cacciati in malo modo.
Mentre prima sui social si trovavano immagini degli attacchi in auto contro i check point o anche di ragazzini con in mano la Carlo, oggi i video mostrano militanti armati fino ai denti con frasi che incitano all’attacco sottolineando la fragilità israeliana che, secondo i media iraniani, dipende dal momento difficile politico israeliano. Dopo i fatti delle scorse settimane ci sono video e foto di miliziani con pezzi di veicoli militare distrutti come trofeo di guerra, gente che canta e danza sulle macerie del campo profughi in segno di vittoria, immagini dei “martiri” agli angoli delle strade e sui social. Dopotutto, dicono, se Israele ha usato elicotteri, droni e molte forze di terra, significa che ci teme. Ed è per questo che da più parti in Israele chiedono anche in Cisgiordania operazioni a larga scala sul modello Gaza.
La Cisgiordania come Gaza. Se nella Striscia l’esercito israeliano, l’Israeli Defence Force (IDF), ha fino ad ora risposto alla mole di razzi lanciati verso il sud del paese, con l’aviazione e attacchi mirati a leader e infrastrutture dei gruppi che la controllano, in Cisgiordania, per la prima volta da vent’anni, nei giorni scorsi una operazione di terra per oltre 40 ore ha battagliato con i miliziani a Jenin.