Pechino propone il dialogo tra le parti e la creazione di uno Stato palestinese indipendente, criticando l’inattività della comunità internazionale. Preoccupata Taiwan. Nuova Delhi, Tokyo e Seul sono solidali con Israele
Un nuovo fronte dopo quello della guerra in Ucraina. Seppure ci si trovi non così lontano dalle porte dell’Europa, il conflitto in Israele viene osservato con attenzione anche in Asia orientale. A partire dalla Cina, che proprio sulla questione israelo palestinese aveva iniziato a investire un forte capitale diplomatico e retorico. La prima reazione di Pechino agli attacchi di Hamas è stata come sempre all’insegna della pretesa di neutralità e imparzialità. “La Cina è profondamente preoccupata per l’attuale escalation di tensioni e violenze tra Palestina e Israele. Chiediamo alle parti interessate di mantenere la calma, di esercitare la moderazione e di porre immediatamente fine alle ostilità per proteggere i civili ed evitare un ulteriore deterioramento della situazione”, si legge nel comunicato del ministero degli Esteri di domenica 8 ottobre. Per poi passare alla fase propositiva: “La via d’uscita fondamentale dal conflitto è l’attuazione della soluzione dei due Stati e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. La comunità internazionale deve agire con maggiore urgenza, intensificare il contributo alla questione palestinese, facilitare la rapida ripresa dei colloqui di pace tra Palestina e Israele e trovare un modo per realizzare una pace duratura”.
Nessuna condanna diretta degli attacchi, dunque, tanto da suscitare la reazione delusa di Israele, la cui ambasciata a Pechino ha postato sul proprio account X una critica non proprio velata, dicendo che sperava in una dimostrazione di solidarietà e sostegno da parte di Pechino, aspettandosi una “forte condanna” di Hamas. Lunedì, il governo cinese ha parzialmente aggiustato il tiro. “La Cina si oppone e condanna le azioni che danneggiano i civili”, ha dichiarato Mao Ning, portavoce del Ministero degli Esteri, durante la conferenza stampa quotidiana. Ma, ancora una volta, non è stata menzionata esplicitamente Hamas. “L’unica soluzione è il dialogo e tutelare le legittime preoccupazioni di entrambe le parti”, ha aggiunto Mao. Parole che a molti hanno ricordato quelle utilizzate regolarmente dal governo cinese sulla guerra in Ucraina. Pechino ha d’altronde rapporti profondi sia con la Palestina, di cui ha sempre appoggiato l’indipendenza, sia con Israele, di cui è il secondo partner commerciale dopo gli Stati Uniti. E la Cina, dopo aver favorito il riavvio delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, si era detta pronta a svolgere un ruolo di mediazione tra le parti. A giugno, il Presidente Xi Jinping ha ricevuto a Pechino il leader palestinese Mahmoud Abbas. A luglio, l’ambasciatore cinese in Israele ha regalato al premier israeliano una copia autografata dell’ultimo libro di Xi e ha trasmesso l’invito a Netanyahu a visitare Pechino.
Come sottolineato da Wen Ti-sung dell’Australian National University, proprio a causa delle difficoltà diplomatiche sulla guerra in Ucraina a causa dell’impossibilità nel condannare la Russia, la Cina ha puntato molto sulla sua diplomazia in Medio Oriente per promuovere la propria immagine da “grande stabilizzatore”. Ora, però, col conflitto in Israele vacilla anche il percorso di dialogo tra Arabia Saudita e Iran, il cui ruolo sull’azione di Hamas è peraltro da chiarire. Tutto ciò rischia di creare delle nuove frizioni con gli Stati Uniti, proprio mentre Pechino e Washington stanno cercando di arrivare a una stabilizzazione delle relazioni. Sempre lunedì, Xi ha peraltro ricevuto a Pechino la prima delegazione congressuale statunitense dal 2019. Chuck Schumer, leader della maggioranza democratica al Senato e guida della missione, si è detto deluso dalla reazione del governo cinese sulla situazione israeliana. Sui media di stato cinesi, invece, iniziano già ad affiorare delle allusioni più o meno esplicite alla posizione giudicata “non imparziale” degli Stati Uniti e in particolare sull’intenzione espressa dalla Casa Bianca di inviare nuove armi a Israele. Dinamiche che ricordano quelle sull’Ucraina, con la Cina che prova ancora una volta a presentarsi come osservatrice giusta, non parte coinvolta direttamente nel conflitto o sostenitrice di una delle due parti. E dunque, un potenziale mediatore. O meglio, ispiratore. Ruolo a cui ha dimostrato di voler assurgere col celeberrimo documento di posizione sull’Ucraina, che non è un piano di pace per stessa ammissione cinese, e con tutti i documenti sulla visione cinese del mondo pubblicati di recente. L’ultimo, quello sulla “comunità globale dal destino condiviso” che sistematizza il concetto espresso da Xi per la prima volta esattamente dieci anni fa col lancio della Nuova Via della Seta marittima col discorso di fronte al parlamento indonesiano del 2 ottobre 2013.
A Taiwan si osserva invece con qualche preoccupazione quanto accade in Israele. Non tanto perché si ritenga che l’ennesima crisi possa dare il via libera a Pechino per tentare un’avventura militare sullo Stretto, quanto per il potenziale impatto sugli aiuti e spedizioni militari. Gli Stati Uniti hanno già mostrato di non avere risorse infinite per sostenere le difese dell’Ucraina e la promessa di mandare nuove armi in Israele potrebbe produrre nuovi rallentamenti nella consegna dei pacchetti previsti per Taipei. Il governo, intanto, ha preso con convinzione le parti di Israele. Lo stesso ha fatto l’India, che è stata fin qui invece molto più ambigua su Russia e Ucraina. “Profondamente scioccato dalla notizia degli attacchi terroristici in Israele”, ha scritto il primo ministro indiano Narendra Modi su X. “I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con le vittime innocenti e le loro famiglie. Siamo solidali con Israele in questo momento difficile”. Anche Singapore è sulla stessa linea. “Condanniamo fermamente gli attacchi missilistici e terroristici da Gaza contro Israele, che hanno causato la morte e il ferimento di molti civili innocenti. Chiediamo la fine immediata delle violenze e sollecitiamo tutte le parti a fare il possibile per proteggere la sicurezza dei civili”, si legge in un comunicato del Ministero degli Esteri della città-Stato.
Anche Giappone e Corea del Sud hanno espresso solidarietà a Israele. A Seul però c’è chi teme che la situazione possa aumentare ancora di più le pressioni di Usa e Nato per inviare direttamente armi all’Ucraina. Cosa sin qui evitata visto che le norme sudcoreane impedirebbero un’assistenza militare diretta a Paesi coinvolti in conflitti. Senza contare le ripercussioni sulla sicurezza nazionale e i rapporti con Russia, Corea del Nord e Cina. Particolarmente colpita dalla nuova crisi anche la Thailandia, che ha avuto almeno 12 suoi cittadini tra le vittime degli attacchi.
Un nuovo fronte dopo quello della guerra in Ucraina. Seppure ci si trovi non così lontano dalle porte dell’Europa, il conflitto in Israele viene osservato con attenzione anche in Asia orientale. A partire dalla Cina, che proprio sulla questione israelo palestinese aveva iniziato a investire un forte capitale diplomatico e retorico. La prima reazione di Pechino agli attacchi di Hamas è stata come sempre all’insegna della pretesa di neutralità e imparzialità. “La Cina è profondamente preoccupata per l’attuale escalation di tensioni e violenze tra Palestina e Israele. Chiediamo alle parti interessate di mantenere la calma, di esercitare la moderazione e di porre immediatamente fine alle ostilità per proteggere i civili ed evitare un ulteriore deterioramento della situazione”, si legge nel comunicato del ministero degli Esteri di domenica 8 ottobre. Per poi passare alla fase propositiva: “La via d’uscita fondamentale dal conflitto è l’attuazione della soluzione dei due Stati e la creazione di uno Stato palestinese indipendente. La comunità internazionale deve agire con maggiore urgenza, intensificare il contributo alla questione palestinese, facilitare la rapida ripresa dei colloqui di pace tra Palestina e Israele e trovare un modo per realizzare una pace duratura”.