Coronavirus: la sanità globale ha mostrato mancanza di preparazione. L’epidemia obbliga a ripensare a economia e globalizzazione
I primi Paesi al mondo per la qualità dei sistemi sanitari, considerato l’obiettivo di garantire la salute della popolazione ma anche un accesso equo alle cure, sono Francia e Italia secondo una classifica dell’Organizzazione mondiale della sanità. A poca distanza segue la Spagna. Gli Stati Uniti e la Svizzera sono i Paesi con la più alta spesa sanitaria per persona (10.500 e 7.300 dollari rispettivamente). Il Giappone e la Corea del Sud hanno il maggior numero di letti d’ospedale rispetto al totale della popolazione (circa 13 per mille), mentre Stati Uniti, Germania e Italia hanno la più alta disponibilità di terapie intensive, stando ai dati raccolti da Statista.
Sono questi i Paesi con i migliori sistemi sanitari del pianeta. Eppure proprio questi Paesi sono stati finora i più colpiti dal coronavirus. Che le strutture meglio organizzate e con più risorse al mondo siano state colte di sorpresa mesi dopo l’inizio dell’epidemia in Cina è la prova che qualcosa non abbia funzionato nella gestione del rischio.
A maggior ragione, visto che da tempo si parlava del pericolo di una pandemia. Già nel 2015 Bill Gates, che tramite la sua fondazione sostiene lo sviluppo dei sistemi sanitari nei Paesi più poveri del mondo, aveva citato un virus altamente infettivo tra i principali rischi globali.
Matt McCarthy, professore di medicina alla Cornell University di New York e autore di best-seller come Superbugs, cinque anni fa aveva descritto i pericoli di virus provenienti da pipistrelli nei mercati cinesi. “Sapevamo come e dove, non sapevamo solo quando” [la pandemia sarebbe arrivata], ha scritto di recente.
Anche l’Oms aveva inserito tra le dieci priorità del 2019 una “pandemia influenzale globale” derivante da un fattore patogeno ancora sconosciuto e per cui non vi sarebbero stati vaccini. Ciò nonostante, ha osservato Bill Gates, la maggior parte dei Paesi ha sottovalutato il rischio e lasciato galoppare il coronavirus finché la sua diffusione non è diventata una crisi generale.
Per una valutazione degli eventi è presto visto che pochi Paesi stanno iniziando a uscire dall’emergenza e non ci sono dati definitivi sul numero di persone infettate e decedute. Ma il virus ha già messo in luce aspetti di governance con cui si dovranno fare i conti in futuro.
La prima questione riguarda il ruolo dello Stato-nazione e l’interazione tra diversi livelli decisionali nella gestione prima del rischio e poi della crisi. Perché Europa e America hanno impiegato tanto tempo a reagire dopo che l’epidemia si era sviluppata in Cina (e poi in Italia)? E perché tanta differenza nel numero delle vittime?
Bronwen Maddox, la direttrice dell’Institute for Government che a Londra promuove buone pratiche di Governo, ha inserito il rapporto tra Stato e regioni tra i dieci temi con cui sarà giudicata la gestione di questa crisi. La devoluzione dei poteri alle regioni è stata un vantaggio o un ostacolo? “In questi primi momenti, vedendo la concorrenza tra Stati negli Usa, sembrerebbe piuttosto la seconda,” conclude Maddox con un occhio anche al Regno Unito. Lo stesso si potrebbe chiedere in riferimento a Italia, Belgio e Germania, dove i poteri per la gestione dell’emergenza sono stati centralizzati creando a volte frizioni con le regioni.
D’altra parte, il coronavirus non è stato nemmeno un esempio di coordinamento tra Stati. L’Unione europea, almeno inizialmente, ha rappresentato il paradigma degli egoismi nazionali. Soltanto a gennaio gli Stati membri avevano detto a Bruxelles di essere sufficientemente preparati e che ulteriori forniture mediche non sarebbero state necessarie, ha rivelato l’agenzia di stampa Reuters. Salvo poi, un mese dopo, correre ai ripari cercando di accaparrarsi gli equipaggiamenti disponibili senza condividerli con i partner. Solo quando la Commissione europea, che non ha competenze specifiche in materia di sanità, è potuta intervenire con appalti congiunti la cooperazione ha iniziato a prendere forma.
Frank Ulrich Montgomery, Presidente della World Medical Association (WMA), ha anche lamentato scarsa collaborazione a livello globale a causa dell’influenza politica esercitata sull’Oms da Cina e Stati Uniti, con ritardi nel lanciare l’allerta da una parte e minacce di tagli di fondi dall’altra. “L’Oms non dovrebbe essere un’organizzazione politica, ma un’organizzazione totalmente concentrata sulla sanità che promuova una cooperazione imparziale e libera da influenze,” Montgomery ha dichiarato.
La seconda questione riguarda gli squilibri globali e la disparità di risorse a disposizione nella lotta al virus. Per quanto concerne le forniture mediche, pochi Stati occidentali si erano finora resi conto di quanto fossero dipendenti da Paesi come Cina e India, a cui è stata delegata la produzione a basso costo di mascherine, ventilatori e dispositivi di protezione individuale.
“Questa crisi fa sorgere l’idea che la globalizzazione abbia raggiunto uno stadio tale da essere diventata pericolosa. In futuro bisognerà assolutamente rivedere l’approvvigionamento di forniture mediche di base e salvavita, riportandone a casa la produzione o almeno garantendone certi livelli di stock,” continua Montgomery.
Anche sulle modalità di lotta al virus ci sono disparità enormi su scala mondiale, specie considerata la devastazione che la diffusione del Covid-19 potrebbe causare nei sistemi sanitari dei Paesi più poveri. “Il mondo ha due principali strumenti per combattere il virus: il distanziamento sociale e la vaccinazione. Nelle baraccopoli dei Paesi poveri, la prima è totalmente impossibile, e ancora più difficile sarà per questi paesi pagare per il vaccino, che in ogni caso non sarà subito disponibile per l’intera popolazione umana,” avverte Montgomery.
A questo si aggiunge il rischio di nuove disuguaglianze legate alle tecnologie che si stanno sviluppando per il tracciamento dei contagi. Sascha Marschang, segretario generale ad interim della European Public Health Alliance (EPHA), l’organizzazione che rappresenta il settore della sanità pubblica a Bruxelles, ha affermato: “Le app usate per tracciare i movimenti della popolazione potrebbero essere abusate da Governi non democratici, potrebbero escludere popolazioni che non hanno accesso a Internet e dispositivi tecnologici, o che non hanno le competenze per usarli. Chi le svilupperà, chi ne gestirà i dati e con quali garanzie per i cittadini?” Tutte domande ancora aperte.
La terza questione, infine, riguarda il rapporto tra sanità ed economia. Sia Montgomery che Marschang hanno criticato aspramente le politiche di austerity e i tagli subiti dai sistemi sanitari dopo la crisi finanziaria del 2008.
Dice Montgomery: “In molti sistemi sanitari sono stati applicati principi economici cercando di spremere il personale, già insufficiente e sottovalutato, fino all’ultima goccia e dimenticando che un ospedale non funziona come una fabbrica di automobili”.
Il paradosso, aggiunge, è che se la crisi finanziaria ha tolto risorse alla sanità, ora è l’emergenza sanitaria a bloccare l’economia, ma se le attività economiche non riprenderanno presto sarà ancora più difficile finanziare la sanità in futuro.
“Quello che ci viene chiesto è un cambiamento nel modo di pensare,” dice Marschang. “La salute è stata finora all’ultimo posto nella gerarchia delle priorità politiche. Ora è diventata importante non solo come tema a sé stante, ma anche come prerogativa economica. Il messaggio che dobbiamo trarne è che il benessere sociale non può essere misurato solo in termini di prodotto interno lordo”.
L’idea che dalla crisi dovrà nascere una nuova formula economica si sta facendo strada in diversi Paesi. In una recente intervista al Financial Times il Presidente francese Emmanuel Macron ha ammesso che il coronavirus obbligherà a ripensare economia, globalizzazione e sovranità. “Credo che [questo] sia un profondo shock antropologico,” ha detto. “Abbiamo fermato mezzo pianeta per salvare vite, non c’è precedente di una cosa del genere nella nostra storia.” A suo parere, l’economia non ha più il primato e la persona dovrà ritornare in primo piano.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.
I primi Paesi al mondo per la qualità dei sistemi sanitari, considerato l’obiettivo di garantire la salute della popolazione ma anche un accesso equo alle cure, sono Francia e Italia secondo una classifica dell’Organizzazione mondiale della sanità. A poca distanza segue la Spagna. Gli Stati Uniti e la Svizzera sono i Paesi con la più alta spesa sanitaria per persona (10.500 e 7.300 dollari rispettivamente). Il Giappone e la Corea del Sud hanno il maggior numero di letti d’ospedale rispetto al totale della popolazione (circa 13 per mille), mentre Stati Uniti, Germania e Italia hanno la più alta disponibilità di terapie intensive, stando ai dati raccolti da Statista.
Sono questi i Paesi con i migliori sistemi sanitari del pianeta. Eppure proprio questi Paesi sono stati finora i più colpiti dal coronavirus. Che le strutture meglio organizzate e con più risorse al mondo siano state colte di sorpresa mesi dopo l’inizio dell’epidemia in Cina è la prova che qualcosa non abbia funzionato nella gestione del rischio.
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