In quasi ogni Paese si assiste allo scontro tra gestione regionale e nazionale della pandemia. Politica è anche la preoccupazione dei cittadini: maggiore a sinistra, minore a destra
In quasi ogni Paese si assiste allo scontro tra gestione regionale e nazionale della pandemia. Politica è anche la preoccupazione dei cittadini: maggiore a sinistra, minore a destra
Quando uno Stato è sotto assedio non manda le sue componenti amministrative in ordine sparso ma crea una cabina di regia (il consiglio di guerra) per condividere qualunque mossa, muovere le truppe, organizzare la difesa. Dietro gli Spitfires e gli Hurricanes che fermarono l’invasione nazista sulle bianche scogliere di Dover c’erano Churchill e il Regno Unito, anzi a ben vedere tutto l’Occidente democratico, non certo i governatori delle contee dell’Inghilterra meridionale da dove decollavano gli aeroplani. Contro il “nemico invisibile” Covid-19 forse si è un po’ esagerato con le metafore guerresche, ma il principio in fondo è lo stesso: le autonomie contano poco, conta il coordinamento, le competenze degli scienziati (ma l’ultima parola è della politica) e una catena di comando ben precisa per debellare una pandemia globale.
E invece in Italia fin dall’inizio della pandemia abbiamo assistito alle conseguenze nefaste della tradizionale e storica concorrenza giuridica Stato-Regioni. Fin dall’inizio dell’epidemia i 20 governatori, cui è delegata gran parte delle competenze sanitarie, hanno fatto a gara per muoversi in autonomia e criticare i “Dpcm” del Governo. Abbiamo visto governatori minacciare il lanciafiamme in caso di assembramenti (come il Presidente della Campania De Luca) e altri criticare le misure restrittive imposte da Giuseppe Conte per rallentare il contagio. Se all’inizio dell’epidemia il Veneto andava a comprarsi in Olanda una macchina per effettuare i tamponi a livello quasi industriale, la Lombardia, la Regione maggiormente colpita, vedeva un intero sistema sanitario, quello della medicina generale, in crisi, con enormi difficoltà sull’effettuazione dei tamponi dei pazienti. Quanto alle restrizioni e alla divisione in zone del territorio, non c’è stata quasi regione che abbia condiviso le scelte del Governo (prese sulla base di dati di contagio fornite dagli stessi governatori).
Ma il problema della mancanza di coordinamento tra Stato e Regioni non è solo italiano. Il disaccordo con gli Stati federali è stato alla base dei ritardi con cui l’America ha reagito all’emergenza. È infatti del 13 Marzo la Proclamation 9994 con la quale l’allora presidente Trump – sempre molto scettico nei confronti del virus − ha deciso di dichiarare ufficialmente lo stato di emergenza nazionale come conseguenza del diffondersi dell’epidemia su tutto il territorio.
La legislazione americana, il Public Health Service Act, segue una duplice direttiva: da una parte affida alla Casa Bianca e al Governo centrale la responsabilità di prevenire la diffusione fra la popolazione americana di malattie provenienti al di fuori del Paese e dall’altra impone ai singoli Stati federali di collaborare, lasciandoli però liberi di decidere su lockdown e isolamento.
Sono quindi i singoli Stati ad avere la competenza primaria per affrontare le crisi sanitarie nei loro territori. Il governo centrale, al contrario, ha una competenza limitata, volta a porre in quarantena gli individui che entrano nel Paese.
Proprio l’esistenza di questi due binari paralleli ha portato con sé non poche problematiche. Da una parte infatti l’amministrazione centrale inizia, seppur a rilento, ad attivarsi per sostenere dal punto di vista economico la nazione, con il Defense Production Act che obbliga le imprese a soddisfare anzitutto le commesse statali rispetto a quelle di altri clienti. Dall’altra anche i singoli Stati federali iniziano ad adottare diverse misure che però, in assenza di una direttiva unitaria, creeranno una profonda disparità di trattamento da Stato a Stato. Ancora una volta contro un nemico unico si è proceduti in ordine sparso. Le competenze spesso si sono sovrapposte. Non sono mancati gli equivoci, gli sprechi di risorse.
È mancata anche una cabina di regia, il consiglio di guerra, in grado di coordinare le azioni del Governo centrale e dei singoli Stati. Trump ha attivato l’ufficio che era stato creato da Obama con responsabilità relative agli attacchi terroristici, alla difesa biologica e al terrorismo, ma con scarsissimi risultati. Anche perché il Presidente ha sempre voluto fare da solo, prendendo addirittura le distanze dal consulente scientifico Fauci. L’inquilino della Casa Bianca ha cercato di rallentare il più possibile il lockdown per non danneggiare l’economia, soprattutto nei distretti che erano i suoi tradizionali bacini di voto, lasciando all’occorrenza ai governi statali e locali la decisione circa le soluzioni più necessarie (ma anche più impopolari) per affrontare la pandemia.
Costringendo gli Stati a competere per l’accesso a ventilatori e altre attrezzature mediche e permettendo a ciascun governatore di dettare pressoché in totale autonomia la reazione all’emergenza. Una risposta frammentata e sconnessa che ha riversato i suoi disastrosi effetti sulla popolazione e che peraltro ha portato alla Casa Bianca il suo rivale Joe Biden. Gli approcci differenti da parte dei governatori americani dipendevano anche dalla loro appartenenza politica. Stando ai sondaggi il 73% degli elettori democratici esprimevano preoccupazione per il virus, mentre da parte repubblicana solo il 43% manifestava timori analoghi. I governatori si sono comportati di conseguenza allentando o restringendo le misure a seconda dell’appartenenza. Un metodo più politico che scientifico.
In Germania la cosiddetta “emergenza collaborativa” tra Governo centrale e Lander è stata quella che ha funzionato meglio in Europa (e forse nel mondo). Il sistema tedesco ha fornito risposte adeguate, soprattutto nella prima parte, proprio grazie alla sua costituzione che prevede la “condivisione” delle scelte tra Cancellierato e Governatori in caso di emergenze sanitarie. Il ministro della Salute Jens Spahn ha in un primo momento monitorato e osservato le diverse strategie dei Länder su chiusure e altre restrizioni, poi, in una seconda fase, ha preso in mano la cosa senza che i governatori avessero nulla da ridire. Anche i presidenti di governi regionali favorevoli a una politica di riaperture più anticipata hanno dovuto controllare le proprie aspettative in quanto consapevoli che eventuali recrudescenze nei contagi nei rispettivi Länder sarebbero state ascritte alla loro esclusiva responsabilità. Mentre un sistema di condivisione consente di ripartire anche gli oneri di eventuali errori di strategia, laddove frutto di scelte condivise. Il resto lo ha fatto il senso di organizzazione tedesco: è stato calcolato che le misure restrittive anti Covid sono state attuate attraverso un percorso procedurale che ha coinvolto 400 dipartimenti competenti in materia sanitaria nei 16 Länder!
Anche in Spagna si è visto un aspro conflitto tra Stato centrale e singole regioni (e non solo la Catalogna) nel gestire il morbo. E ciò, nonostante il primo ministro spagnolo, il socialista Pedro Sanchez, avesse affidato una grossa fetta delle competenze alle comunità autonome (come lo “stato d’allarme” che permette alle regioni di attivare restrizioni e altre misure straordinarie).
Forse l’esempio migliore sul piano della lotta al virus lo ha dato l’Unione europea, dopo una prima fase di smarrimento e sbandamento. Gli Stati membri hanno il completo controllo delle politiche sanitarie e nulla può fare Bruxelles per gestire i sistemi medici. Ma la commissione di Ursula von der Leyen ha saputo mettere in campo le risorse finanziarie per affrontare le conseguenze economiche della pandemia attraverso il Next Generation Plan (di cui il Recovery Fund è il principale sottoinsieme finanziario) oltre a finanziare la ricerca scientifica e contrattare l’acquisto di due miliardi di vaccini con le più accreditate multinazionali farmaceutiche.
Agli Stati membri il compito di somministrarli attraverso un rigoroso controllo delle competenze e una gestione che si avvale persino dell’esercito, per evitare qualunque speculazione sui mercati privati e le infiltrazioni della criminalità organizzata.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
In quasi ogni Paese si assiste allo scontro tra gestione regionale e nazionale della pandemia. Politica è anche la preoccupazione dei cittadini: maggiore a sinistra, minore a destra
Quando uno Stato è sotto assedio non manda le sue componenti amministrative in ordine sparso ma crea una cabina di regia (il consiglio di guerra) per condividere qualunque mossa, muovere le truppe, organizzare la difesa. Dietro gli Spitfires e gli Hurricanes che fermarono l’invasione nazista sulle bianche scogliere di Dover c’erano Churchill e il Regno Unito, anzi a ben vedere tutto l’Occidente democratico, non certo i governatori delle contee dell’Inghilterra meridionale da dove decollavano gli aeroplani. Contro il “nemico invisibile” Covid-19 forse si è un po’ esagerato con le metafore guerresche, ma il principio in fondo è lo stesso: le autonomie contano poco, conta il coordinamento, le competenze degli scienziati (ma l’ultima parola è della politica) e una catena di comando ben precisa per debellare una pandemia globale.
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