Sono collegate la crisi americana e la diminuzione della democrazia nel resto del mondo? Con la perdita di credibilità della democrazia americana è venuto a mancare un esempio positivo globale?
L’assalto del 6 gennaio a Capitol Hill è forse il momento più basso toccato dalla democrazia Usa, ma ha una storia che lo precede e non finisce dopo il giorno della certificazione della vittoria di Joe Biden da parte del Congresso − che era in corso mentre le falangi trumpiane sfasciavano le finestre dell’edificio che ospita Camera e Senato.
Gli Stati Uniti sono nel pieno di una crisi del proprio sistema democratico. Non si tratta di una questione che tocca solo la prima potenza mondiale ma di una crisi di sistema che proprio negli Usa sembra aver toccato un punto particolarmente alto.
La crisi della democrazia americana
Mettiamo in fila i sintomi. Negli ultimi 12 anni gli States hanno avuto tra le altre cose un Presidente che non riconosce l’esito del processo elettorale, una parte dell’opinione pubblica e diversi media molto seguiti che hanno messo in dubbio la legittimità del primo Presidente nero della storia utilizzando una teoria secondo la quale Obama non sia nato in America, due processi di impeachment verso lo stesso Presidente, una serie di ricorsi e cause portati avanti da membri del Partito repubblicano per sovvertire o annullare l’esito del voto del novembre 2020 in alcuni Stati. Le ultime battaglie legali si sono naturalmente concluse con le richieste di illegittimità del voto respinte dai tribunali e con i riconteggi che hanno certificato le vittorie di Biden. I repubblicani hanno condotto queste campagne alimentando e facendo crescere una base estremista convinta che chi non è con loro sia anti-americano e che, dunque, la loro sconfitta elettorale rappresenti un punto di non ritorno per il loro Paese. “Una democrazia liberale non può durare a lungo se un grande partito crede che la sconfitta sia illegittima e debba essere resa impossibile” ha scritto un preoccupato Martin Wolf, uno dei più lucidi columnist del Financial Times.
Nel periodo che va dall’elezione di Obama ai nostri giorni gli americani hanno assistito per tre volte al rischio che il Governo federale dichiarasse default a causa della mancata volontà del Congresso di votare l’innalzamento del tetto del debito. Durante il corso del XX° secolo la legge che autorizza il Governo federale a fare più debito dell’anno precedente è stata votata 90 volte e una sola volta, prima delle tre recenti sotto Obama e Biden, si era arrivati al rischio default. A non voler votare la misura sono i repubblicani e l’obiettivo non è quello del rigore fiscale, ma quello di far deragliare la locomotiva avversaria: sotto Trump il tetto del debito è stato aumentato due volte.
Passiamo al processo elettorale. Laddove i repubblicani controllano le assemblee statali sono in corso battaglie legali per modificare le regole del voto, scoraggiarlo, impedirlo alle minoranze. Al Congresso, invece, due misure votate dalla Camera per facilitare e omogeneizzare il diritto di voto vengono bloccate. Gli ostacoli sono soprattutto al voto di quelle minoranze che votano a larghissima maggioranza democratico. Le minoranze, a dire il vero, qualche dubbio sulla democrazia americana devono averlo avuto già in passato, all’epoca delle leggi che ne negavano i diritti civili e ogni volta o quasi che gli capita di interagire con la polizia e nelle aule di Giustizia.
L’ostruzionismo repubblicano
Potremmo andare avanti ad elencare sintomi di malessere della democrazia americana. Nominiamo solo l’ultimo: l’incapacità di Joe Biden di far avanzare la propria agenda − pura o mediata in Congresso − a causa dell’ostruzionismo repubblicano e dei mal di pancia dei senatori Manchin e Sinema, di West Virginia e Arizona, Stati che assieme rappresentano il 3% della popolazione. Il posizionamento ostruzionistico dei repubblicani garantisce un potere immane ai due − che ricevono ingenti donazioni dai settori petrolifero e farmaceutico e bloccano misure ambientali e contrattazione del prezzo dei medicinali. Una situazione che non incoraggia gli americani ad avere fiducia nella loro architettura costituzionale.
Il politologo Larry Diamond ha scritto su Foreign Affairs: “In un sistema bipartitico, bisogna essere in due per ridurre la polarizzazione e riparare le norme della democrazia. Con le sue tattiche massimaliste per manipolare le regole a suo immediato vantaggio, sopprimere i voti delle minoranze razziali e riempire i tribunali (di giudici conservatori), i repubblicani hanno gradualmente perso di vista queste norme”.
Che i repubblicani stiano facendo di tutto per forzare i limiti della democrazia statunitense è fuori dubbio. Ma la colpa di questa situazione non è esclusivamente di Trump e neppure del partito di cui è diventato proprietario. Le divisioni nella società americana sono profonde e crescenti. One Nation Under God sono diventate almeno due, ma probabilmente molte di più, non solo e non tanto per i diversi colori della pelle, religioni, origini, ma per una polarizzazione raramente, se non mai, così acuita. Repubblicani e democratici sono divisi sui vaccini, sull’andamento dell’economia, sulla crisi climatica, sul voto, sull’aborto, sul colore di cui dipingere la facciata del palazzo. La ragione di questa polarizzazione non è univoca, ma è certo che le grandi trasformazioni tecnologiche degli ultimi 20 anni, l’ascesa del commercio globale e, dentro a questa, della Cina come superpotenza manifatturiera, il sacrosanto protagonismo delle minoranze, hanno generato paure e cambiamenti nella società e nella geografia Usa. Alcuni segmenti sociali e alcuni territori sono rimasti indietro, altri corrono. Altri ancora, da sempre indietro, pretendono una fetta di torta e lo fanno protestando. Le diseguaglianze sono cresciute a dismisura. Si tratta di vicende che in un modo o nell’altro toccano molte democrazie avanzate.
La crisi delle democrazie nel resto del mondo
In un lungo articolo più che allarmato dal titolo “La crisi costituzionale è già in corso”, il neocon, fautore dell’interventismo democratico all’estero che ha lasciato il partito repubblicano nel 2016, Robert Kagan ha scritto: “I fondatori non hanno previsto il fenomeno Trump (…) Avevano previsto la minaccia di un demagogo, ma non di un culto nazionale della personalità. Pensarono che (…) le storiche divisioni tra i 13 Stati fieramente indipendenti avrebbero posto barriere insuperabili ai movimenti nazionali basati su partiti o personalità (…) I pesi e contrappesi che i Framers misero in atto, quindi, dipendevano dalla separazione dei tre rami del Governo, ognuno dei quali, credevano, avrebbe custodito con zelo il proprio potere e le proprie prerogative. (…) Né avevano previsto che i membri del Congresso, e forse anche i membri del ramo giudiziario, si sarebbero rifiutati di porre freni al potere di un Presidente del loro stesso partito”. L’architettura immaginata per tenere al riparo la repubblica da colpi di mano, dice Kagan, non funziona e il 2024 potrebbe tradursi in una crisi costituzionale senza ritorno.
A volte gli studiosi sono catastrofisti, altre troppo ottimisti. È certo però che la crisi di credibilità della democrazia americana, accompagnata com’è da scricchiolii che abbiamo osservato nella società e nella politica europee (e non solo in Ungheria, Polonia o Slovenia) sta avendo degli effetti anche sul mondo non democratico. Negli anni di Trump diversi Paesi hanno preso a ignorare anche la parvenza dello stato di diritto e dei diritti umani. Altri che non sono democrazie neppure formalmente hanno scelto di mostrare l’uso del proprio monopolio della forza in maniera più decisa. Gli esempi sono davvero molti e diversi tra loro: Hong Kong, Myanmar, la Bielorussia, l’Egitto, la Russia, il Brasile.
Sono collegate la crisi americana e questa diminuzione degli spazi di democrazia altrove? Non si tratta di capire se e quanto sia la leadership Usa a essere venuta meno o se l’assenza di un “gendarme” consenta più spazi agli autoritarismi. Il problema è l’assenza di un esempio positivo. Questo è quel che dice Biden quando ripete: “Dobbiamo mettere in ordine la nostra casa prima di dire agli altri come farlo”. Ma di fronte a elezioni messe in dubbio, un sistema sanitario che va in tilt, governatori che non implementano regole anti-Covid per tornaconto politico, Congresso paralizzato, ogni satrapo può indicare la Statua della Libertà e farsi una risata dicendo: “Quella fiaccola è bella ed elegante, ma lo vedete da voi, non illumina granché”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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Sono collegate la crisi americana e la diminuzione della democrazia nel resto del mondo? Con la perdita di credibilità della democrazia americana è venuto a mancare un esempio positivo globale?