Gli Usa tornano al tavolo Ocse sulla tassa globale, presentando una loro proposta, più ambiziosa, che non sia quella di tassare le sole Big Tech, che sono solo americane
Gli Usa tornano al tavolo Ocse sulla tassa globale, presentando una loro proposta, più ambiziosa, che non sia quella di tassare le sole Big Tech, che sono solo americane
“Vogliamo porre fine alla corsa al ribasso sulla tassazione delle imprese multinazionali e stabilire un’architettura fiscale in cui i Paesi lavorino insieme per una crescita più equa, innovazione e prosperità”.
Queste parole accompagnano un importante documento consegnato qualche giorno fa dagli Stati Uniti all’Ocse, dove da anni sono in corso trattative sulla tassazionedelle Big Tech. Si tratta di una svolta possibile attorno a una questione internazionale di quelle che fanno indignare le opinioni pubbliche, svuotano le casse degli Stati e fanno sorridere soprattutto quelle corporation che pongono la loro sede nei paradisi fiscali dei Caraibi o in quelli più prossimi e meno smaccati sparsi per l’Europa (Irlanda, Lussemburgo, Olanda).
Gli Stati Uniti operano una doppia giravolta, nel senso che solo l’estate scorsa avevano abbandonato le trattative Ocse contro l’ipotesi di diverse importanti capitali europee di tassare i giganti della tecnologia – Apple, Facebook, Google, Amazon. Oggi non solo tornano al tavolo, ma avanzano una proposta più ambiziosa e meno penalizzante nei confronti delle sole multinazionali americane: una tassa globale che impedisca a chi gioca con la possibilità di spostare i profitti da un Paese all’altro per pagare meno tasse di continuare a farlo, accompagnata da un accordo per una tassazione nazionale minima del 21% per contenere le fughe. Le imprese con entrate annuali globali attorno ai 20 miliardi di dollari ovunque vendano i loro beni o servizi (queste sono l’obiettivo di Biden) sono circa un centinaio, molte americane, ma ce ne sono anche di europee. Parallelamente gli Usa vogliono modificare anche il loro regime fiscale interno e per questo la tassa sulle super corporation aiuterebbe: se si introdurranno aliquote minime ovunque e una tassa globale, anche se i capitali fuggissero, non si perderebbero troppe risorse.
Una ricerca condotta da Thomas Tørsløv, Ludvig Wier e Gabriel Zucman, ricercatori delle Università della California (Berkeley) e Copenaghen e campioni della tassazione globale, segnala come alcuni Paesi incassino, grazie alla competizione al ribasso, miliardi in più all’anno tassando poco profitti fatti altrove nell’Unione europea (l’Olanda 13 miliardi nel 2017), mentre altri con aliquote normali ci perdano – la stima dei ricercatori per il 2017 è: Italia -6mld, Francia -13, Germania – 20.
Spieghiamo meglio
Ma di cosa parliamo quando parliamo di tasse? E perché la proposta Usa e la discussione in sede Ocse, se portasse dei risultati, sarebbe una svolta? Prendiamo due dati dal documento che espone la nuova filosofia fiscale americana, dove viene spiegata anche la parte che riguarda la tassazione interna al Paese. “La media delle aliquote societarie legali nei Paesi Ocse era del 32,2% nel 2000; nel 2020 era scesa al 23,3% (…) nel 1980, le aliquote societarie legali dell’Ocse erano raramente inferiori al 45%”. Gli Stati nazionali, insomma, competono tra loro abbassando le tasse ai giganti privati dell’economia. Senza essere particolarmente efficaci, ancora l’esempio americano, Paese avanzato le cui corporation usano con più frequenza i paradisi fiscali: “I piccoli paradisi fiscali ospitano più profitti statunitensi che delle maggiori economie di Cina, India, Giappone, Francia, Canada e Germania messe insieme. Le Bermuda, un Paese di appena 64.000 abitanti, raccoglie il 10% di tutti i profitti stranieri delle multinazionali Usa dichiarati, una quantità pari a diversi multipli del Pil delle Bermuda stesse”.
C’è un tema in più, che riguarda la capacità degli Stati nazionali di funzionare e, persino, di far funzionare i mercati, come spiegano bene gli economisti Joseph E. Stiglitz, Todd N. Tucker e Gabriel Zucmansul numero di gennaio/febbraio di Foreign Affairs: “Negli Stati Uniti, le entrate fiscali totali pagate a tutti i livelli di Governo si sono ridotte di quasi il 4% del reddito nazionale negli ultimi due decenni, da circa il 32% nel 1999 a circa il 28% di oggi, un declino unico nella storia moderna tra le nazioni ricche. Le conseguenze dirette di questo cambiamento sono chiare: infrastrutture fatiscenti, un rallentamento del ritmo dell’innovazione, un tasso di crescita in diminuzione, diseguaglianze in aumento, un’aspettativa di vita più breve e un senso di disperazione tra ampie parti della popolazione. Queste conseguenze si sommano a qualcosa di molto più grande: una minaccia alla sostenibilità della democrazia e dell’economia di mercato globale”.
Non è solo questione di equità dunque e la pandemia ce lo ha mostrato bene. I sistemi sanitari, le infrastrutture, la formazione, i servizi alla persona costano e sono indispensabili per il buon funzionamento delle economie e la corsa verso il basso delle aliquote fiscali non ha aiutato a mantenerli in buona salute.
Come spiega su Twitter Tommaso Faccio, Cpo del segretariato della Independent Commission for the Reform of International Corporate Taxation (ICRICT), il gettito fiscale complessivo della proposta Usa al 21% sarebbe intorno ai 200 miliardi di dollari, che per l’Italia significherebbe 7 miliardi di entrate l’anno in più. La proposta Usa ha raccolto diversi consensi e qualche critica: a guadagnarci saranno i Paesi più ricchi dove le multinazionali sono nate o fanno profitti. Siamo comunque a una svolta. E per l’Italia, visto che si parla di una possibile conclusione delle trattative attorno all’estate, anche la possibilità di presiedere a questa svolta dalla presidenza del G20.
Gli Usa tornano al tavolo Ocse sulla tassa globale, presentando una loro proposta, più ambiziosa, che non sia quella di tassare le sole Big Tech, che sono solo americane
“Vogliamo porre fine alla corsa al ribasso sulla tassazione delle imprese multinazionali e stabilire un’architettura fiscale in cui i Paesi lavorino insieme per una crescita più equa, innovazione e prosperità”.
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